Doveva essere all’incirca il 1999 quando sfogliando una sorta di Pagine Gialle in versione nazionale trovate a casa di mia nonna – su cui erano presenti gli indirizzi e i recapiti di tutte le emittenti regionali italiane – mi imbattei in un nome che mi suonava curioso: Tele Radio Sciacca. Essendo affascinato dal mondo delle tivvù private, dalla carta di pessima qualità dei giornaletti di quartiere o, ancor meglio, delle riviste di provincia, avere il telefono di qualcosa di così “lontano” mi faceva fantasticare su come potesse essere il lavoro in riva al mare e in una delle parti che – consultando il mio fido atlante – mi ero accorto essere tra le più a Sud nel nostro Paese. Insomma, una serie di malattie mentali in tenera età che già mi indicavano chiaramente la strada e che, nella fattispecie, mi facevano conoscere per la prima volta il nome di questo centro adagiato sul Mediterraneo, con vista Canale di Sicilia. Oggi, a ripensarci e a guardare il Mondo che mi circonda, sembra quasi stupido che un ragazzino possa sentire così lontano un posto sito a 1.016 chilometri da casa sua. Oggi, nell’era dove tutto arriva subito, dove è quasi peccato mortale provare stupore o semplicemente ammettere di voler approfondire per mera curiosità, fa strano anche a me rivangare in quel cassetto dei ricordi lontano ben ventisei anni. Eppure di quella chiamata “furtiva” alla redazione ne ho memoria ben precisa. Uno squillo, la risposta, una voce dall’altra parte della cornetta e poi il mio rimettere giù. Perché, oggettivamente, un ragazzino di dodici anni cosa dovrebbe mai chiedere a Tele Radio Sciacca? In compenso furono molto contenti i miei quando nella bolletta comparvero varie interurbane senza un apparente motivo!
Tutto questo preambolo giusto per dire che quando nel tabellone della Coppa Italia di Eccellenza vedo uscire l’accoppiamento tra Sciacca e Barletta, il primo pensiero non può che andare a quella mattinata d’estate, alla canicola capitolina, e al telefono griffato Sip tra le mani. In realtà la sfida tra neroverdi e biancorossi è uno di quegli eventi che ogni appassionato di tifo sogna e spera per vedere contrapposte squadre che difficilmente si incontrerebbero, con le rispettive realtà di tifo organizzato stimolate proprio dalla particolarità del tutto. Si fa l’errore, ogni tanto, di credere che trasferte all’interno della stessa porzione geografica siano sempre agevoli. Evidentemente non si fa i conti con la conformazione del nostro territorio, né – in casi come questi – con la carenza delle infrastrutture. Ai supporter barlettani toccherà percorrere oltre ottocento chilometri per arrivare a destinazione. E la cosa bella – come avrò modo di dire – sarà che la maggior parte di loro non sceglierà il confortevole aereo, ma deciderà scientemente di trascorrere oltre due giorni su bus e furgoni. E lasciatemi dire che solo questa scelta vale un plauso. Di contro il sottoscritto stavolta abbandona i suoi proverbiali viaggi della speranza, concedendosi un tranquillo aereo fino a Punta Raisi e da lì pullman per Sciacca. Poco meno di cento chilometri in cui il torpedone alterna bellissime viste che mettono a contrasto colline e mare e altre in cui le vallate aride fanno perdere qualsiasi segno di vegetazione, dicendola lunga su come in estate a queste latitudini non si scherzi con il sole.
Quando arrivo a destinazione trovo una città che si sta riposando dal Carnevale, uno dei più sentiti e celebri in Sicilia, nonché grande attrazione turistica negli ultimi anni. Motivo di vanto, assieme alla produzione della ceramica, per la città, che per diversi giorni si paralizza letteralmente lasciandosi andare ai festeggiamenti dove i carri allegorici la fanno da padrone. Opere che richiedono mesi di lavoro, menti e mani artistiche che si muovono per modellare la cartapesta, pittarla con le più disparate vernici e realizzare un qualcosa di originale, in grado di primeggiare sulla “concorrenza”. Chi non ha mai vissuto un Carnevale in uno dei posti storici del nostro Paese, forse stenta a capirne la profondità del suo significato culturale, tradizionale e folkloristico. Ben più di una semplice festa, ma una vera e propria ragione di vita per chi lo rende possibile e ne crea annualmente le figure più iconiche. Aspetti che si legano anche al calcio e agli ultras in alcuni passaggi, soprattutto in quelli che lambiscono il senso di appartenenza e la creatività. Per dare un’idea di quanto questa ricorrenza sia radicata, basti pensare che le sue origini sembrano essere connesse addirittura al rito dei saturnali, festività religiose molto sentite dai romani, mentre si sa per certo che già all’inizio del XVII secolo il Viceré di Sicilia stabilì che l’ultimo giorno della festività tutti dovessero mascherarsi. A quel periodo risale anche una sentita rivalità con il Carnevale di Acireale. Val sempre la pena sottolineare la storicità carnascialesca, troppo spesso incasellata come insulsa festicciola per lancio di schiuma e coriandoli (inutile dire che la commercializzazione e l’americanizzazione hanno fatto danni pure qui!).
Oltre alla sua posizione particolare, che la colloca in un’area dal delicato equilibrio geologico (basti pensare che a largo delle sue acque esistono ben sei vulcani sottomarini attivi, da uno dei quali, nel 1831, si formo temporaneamente l’Isola Ferdinandea in seguito alla sua eruzione), Sciacca vanta natali antichissimi, legati a doppia mandata allo sviluppo (ma anche alla caduta) di Selinunte, della quale inizialmente fu località termale (i greci, infatti, riconoscevano questa località come Terme Selinuntine). In realtà, recenti ritrovamenti di alcune fondamenta, lasciano intendere che il primo tentativo di urbanizzazione avvenne addirittura per mano dei sicani. Qui vi si combatterono alcune battaglie delle Guerre Greco/Puniche e successivamente sul territorio saccense si avvicendarono arabi, normanni, svevi e varie famiglie nobiliari. Il passato dai fasti luminosi e la storia trasversale che, come in buona parte della Sicilia, qui è passata imponente, è ancora oggi riscontrabile nei palazzi e nelle costruzioni, nonché nel Castello Luna, fatto erigere nel 1382 da Guglielmo Peralta, uno dei quattro vicari del Regno di Sicilia dopo la morte di Federico III. Proprio al dominio arabo sembra dovere il suo nome. Una delle tesi più accreditate sostiene che “Sh-q-q” significa “separare”, “dividere” e da qui il sostantivo Al-Shaqq, “divisione”. Questo perché Sciacca segnò il confine che separava il confine tra l’araba Marsala e la berbera Girgenti. Di sicuro la sua posizione e il corso della storia l’hanno reso uno dei centri più importanti della zona, tanto che oggi si colloca al secondo posto per grandezza – solo dopo il capoluogo – e rappresenta un’importante snodo commerciale e turistico. La visuale dei suoi lineamenti che si gode dal porto, restituisce un forte senso di sicilianità inteso come miscuglio e raccordo di culture, ma anche come profondo senso di marineria e legame con le sacre acque del Mediterraneo, che fanno da cesura tra due continenti e in millenni di storia hanno saputo generare relazioni ma anche fungere da campo di battaglia.
Siccome tra le tante storture mentali che mi pervadono c’è anche quella della passione ferroviaria, non posso rinunciare a visitare l’ex stazione di Sciacca, abbandonata ormai dal 1986, anno in cui la linea a scartamento ridotto Castelvetrano-Porto Empedocle venne chiusa. Affascinante rimane in piedi il suo fabbricato, a pochi passi dall’area portuale, letteralmente divorato dalla vegetazione. Ovviamente, come da italico costume, pure qua da anni si parla di una sua riconversione a ferrovia turistica, che ne permetterebbe un recupero, nonché la chiusura dell’anello ferroviario siciliano. Considerata l’evanescenza di certe parole e l’idiosincrasia di questo Paese nei confronti delle strade ferrate (nonché l’impervia di un tracciato che solo tra Sciacca e Menfi prevede tre gallerie di media lunghezza) il tutto sembra confinato alla mera e becera propaganda politica dei soliti avventurieri tricolore. Passando a tematiche più care al lettore, veniamo al motivo principe della mia visita: la sfida calcistica. E quindi la Unitas Sciacca, società che da qualche anno sta tentando di riportare in alto la maglia verdenero e che, nella doppia sfida con il Barletta, vivrà senza dubbio uno dei momenti più alti della storia recente. Il mio ricordo più remoto nei confronti della società saccense risale agli anni novanta e alla consultazione frenetica dell’Almanacco Panini, dove i siciliani figurarono per diversi anni – esattamente dal 1994 al 2001 – nel Campionato Nazionale Dilettanti. Senza dubbio l’era d’oro per un club fondato nel 1927, che sino all’inizio degli anni novanta aveva sempre vivacchiato nei bassifondi del calcio regionale. Fasti parzialmente rinverditi in questa stagione, dove lo Sciacca ha conquistato il primo trofeo della sua storia: la Coppa Italia di Eccellenza Siciliana, vinta battendo in finale l’Avola. Un “piccolo” ma importante traguardo, che valorizza ancor più l’intento degli imprenditori che dal 2018 hanno rimesso su il club in maniera sana, unendo le proprie forze, attingendole dal territorio e provando a far fare il salto di qualità al sodalizio. Il pubblico in questi anni ha risposto bene, portando spesso numeri importanti nell’immenso “teatro” dello stadio Luigi Guerrera.
L’impianto saccense merita senza dubbio un paragrafo a parte: sorto nel 1977 in sostituzione del vecchio campo Agatocle, è stato oggetto di importanti lavori di restauro in vista di Italia ’90, dato che si pensava potesse diventare terreno di allenamento per la Nazionale Olandese. Alle due tribune già esistenti, vennero aggiunte le curve e il campo fu riconvertito da terra in erba. Il totale della capienza passò a 18.000 spettatori (Sciacca conta 38.000 abitanti) – addirittura più grande dell’Esseneto di Agrigento -, con la maggior parte dei settori che è rimasta quasi sempre, ovviamente, chiusa. Attualmente le uniche gradinate aperte sono la tribuna centrale e, in occasione della gara odierna, la sua parte laterale, che sarà destinata ai sostenitori pugliesi. Uno dei tanti, classici, esempi di sperpero e sovradimensionamento all’italiana. Una struttura che a vederla risulta senza dubbio imponente e dove – manco a dirlo – il vento soffia sempre forte e incessante, come da “tradizione” per questa zona della Sicilia, in cui Eolo è padrone incontrastato e in cui le acque del Mediterraneo vengono spesso smosse e spazzate dalle sue potenti raffiche. Lo stadio è intitolato dal 1985 a Luigi Riccardo Guerrera, giovane calciatore dello Sciacca morto prematuramente.
Potersi confrontare con una realtà oltre lo Stretto è ovviamente una grande occasione anche per il tifo organizzato verdenero, che malgrado gli ultimi venticinque anni di nulla sportivo ha una sua storia e negli ultimi anni sta tentando di formare e crescere nuove generazioni. I primi vagiti di sostegno organizzato in città sono datati 1988, con i Fedelissimi. Sebbene per avere una maggiore organizzazione e una maggiore parvenza ultras bisognerà attendere l’approdo in CND, quando nascono Vecchia Guardia, Gruppo Lunatico e Wolves. Dopo il fallimento del 2001 e la ricaduta nel baratro, inizia un periodo difficile anche per il tifo, che dovrà attendere ben dodici anni prima di conoscere una nuova alba. Stagioni anonime e difficili, in un’area geografica d’Italia ma anche della Sicilia stessa, dove è complicato mantenere vivo un qualcosa che alla base ha la gioventù locale. Parliamo pur sempre di una zona caratterizzata dall’emigrazione continua, dove anche oggi per i gruppi si fatica a mantenere vivo il collante e a tener botta, sia a questo fenomeno che alla crescente repressione arrivata ormai ampiamente anche qui. Nel 2013 nasce la Nuova Guardia, che a distanza di un solo anno è già oggetto di ventidue diffide. Provvedimenti che obbligano il gruppo allo stop di circa un anno. Nella stagione 2017/2018 nasce l’attuale Unitas Sciacca, con le premesse di “rivincita”, come detto in precedenza. La vittoria consecutiva del campionato di Prima Categoria e di Promozione contribuisce a ricreare entusiasmo in città e, di conseguenza, anche ad avvicinare nuove generazioni, nonché rinsaldare il rapporto tra popolazione ed entità calcistica locale. Non a caso al Guerrera ritornano numeri importanti e, con essi, anche molti ultras della prima ora, tanto che per unificare il discorso del tifo organizzato si decide di togliere qualsiasi insegna e raggrupparsi tutti dietro al lungo striscione “Per la squadra, per la nostra città”.
Altro snodo cruciale per le sorti della tifoseria – dopo il già duro periodo Covid, dove mantenere attivi i gruppi senza le gradinate è stata opera ardua e miracolosa per tutti – sono i cinque Daspo (piovuti sugli esponenti più in vista) irrorati dopo gli incidenti di Castelvetrano, nel novembre 2023. Questo ovviamente mette il gruppo a un bivio: cessare la propria attività o affidarsi alle nuove leve, pur sapendo che dovranno intraprendere un percorso “da soli”, essendo inizialmente un corpo “senza testa”. Eppure nessuno si tira indietro e il nucleo giovane degli ultras saccensi si rimbocca le mani, viaggiando e cercando di forgiarsi dietro gli striscioni, per onorare i loro colori in giro per la Sicilia e – come a Barletta – anche per lo Stivale. Piccolo inciso su rivalità e amicizie: storico l’odio campanilistico con la vicina Ribera e, come detto, da qualche tempo anche con Castelvetrano. Un gemellaggio esiste con gli ultras di Gibellina mentre ottimi rapporti con i ragazzi di Misilmeri, Roccasecca, Isernia e con i Testi Fracidi del Messina. Volendo fare un’analisi “geo-curvaiola”, mi viene da sottolineare come nell’area della Sicilia che riguarda le zone del trapanese, dell’agrigentino e parte del palermitano, si sia spesso fatta più fatica nell’intessere un discorso continuativo. Questo immagino sia dovuto innanzitutto alle scarse fortuna sportive dei vari club esistenti ma, anche, alla complicata posizione che essi ricoprono. Tanto per intenderci: raggiungere lo Stretto da qua richiede quasi quattro ore. Nel precedente turno, contro i calabresi del Digiesse PraiaTortora, il solo viaggio di andata è durato circa otto ore (e questo tornando a un discorso fatto in apertura: viaggiare dal Sud verso il Sud non equivale ad accorciare i tempi, anzi!).
Venendo alla sfida odierna: già dalle prime ore del mattino diversi ragazzi girano per le strade di Sciacca con maglie e sciarpe al collo. Si intuisce che il tutto è percepito come un grande evento, tanto che il dispiegamento di forze dell’ordine è cospicuo, sebbene il loro “capolavoro ipocondriaco” sarà ben disegnato dall’accoglienza ai malcapitati tifosi pugliesi: parcheggiati per diverso tempo all’estrema periferia di Sciacca, a bordo spiaggia, senza bar né altro. Praticamente in una sorta di Guantanamo da dove, fortunatamente, vengono poi “rilasciati”, dando loro la possibilità di sostare sul Lungomare, inteso anche il clima di assoluta indifferenza tra le due fazioni. A guardare gli ultras barlettani si intuisce che ad affrontare questa trasferta siano stati anche e soprattutto personaggi navigati, con una storia di curva importante alle spalle e con un “rodaggio” notevole. Impossibile per loro mancare a questo appuntamento, che sebbene non sia segnato da una rivalità storica o da chissà quale importanza in termini sportivi, è comunque stimolante da un punto di vista prettamente ultras: quello della trasferta difficile, lontana, nuova. Dove mostrare l’amore per la propria terra e il proprio ideale senza altri obiettivi da perseguire.
Un’ora prima del fischio d’inizio gli ultras saccensi stanno già preparando tutto per esporre la loro coreografia, mentre nella pancia dello stadio è un susseguirsi di giocatori, allenatori, commissari di campo e dirigenti. Peraltro mi permetto di sottolineare la bellezza retrò degli interni del Gurrera, rimessi a nuovo in talune parti (su tutte la sala stampa) e tirati a lucido da una delle figure mitologiche del calcio di provincia: il magazziniere. Anche qui uno di quei personaggi per cui vale il viaggio: un mix tra simpatia, ira durante i novanta minuti, dialetto scandito in modo serrato e preservazione metodica/meticolosa della storia e delle tradizioni del club e dei suoi legami con la città. Strano che nell’era in cui va tutto documentato e raccontato, qualcuno non si sia ancora inventato una serie su questi personaggi. Personalmente li vedo come una delle ultime figure del pallone che fu e di cui tutti ci siamo innamorati. Figure grazie alle quali ancora riesci a sentire l’odore di bucato sulle magliette e che settimanalmente toccano con mano il lerciume poetico delle divise da mettere in lavatrice, rigorosamente nei loro stanzoni “sgarrupati” e umidi. Uscito dal tunnel degli spogliatoi è tempo, anche per me, di girare in tondo sulla pista d’atletica e assaggiare appieno umori e sensazioni di questa giornata, che sta lentamente entrando nel pieno. Anche se per me inizia ufficialmente quando anche il contingente ospite fa il proprio ingresso sugli spalti, schierandosi dietro le consuete pezze e cominciando a intonare i primi cori per il Barletta. Di grande impatto emotivo vedere sigle storiche e bandieroni che girano da anni a queste latitudini, testimonianza di ciò che resta ancora vivo del nostro movimento.
Ore 15: le due squadre si apprestano a fare il loro ingresso in campo. Dalla tribuna di casa cala il telone della scenografia: al centro due cavalieri con i rispettivi colori sociali delle due contendenti. Non una scelta casuale: se il cavaliere per Barletta e i barlettani assume da sempre un significato quasi mistico grazie alla Disfida, per i saccensi rappresenta l’orgoglio di appartenenza, essendo l’effige impressa sul gonfalone comunale. Il telone è rigorosamente realizzato a mano e questo – mi si permetta l’inciso – merita un encomio vista e considerata la poca voglia e la poca attitudine che oggigiorno molte curve hanno nel realizzare materiale a mano, preferendo cose stampate e, giocoforza, meno “originali”. Nella fattispecie, invece, gli ultras siciliani hanno lavorato duramente e lungamente per portare alla luce sia il disegno che lo striscione sottostante, dove campeggia la celebre frase, ultima dell’Inferno dantesco: “…e quindi uscimmo a rivedere le stelle”. Il tutto “definito” dalle strisce verdi ai lati e dai bandieroni sventolati nella parte superiore della tribuna. Una scenografia che per essere esposta ha richiesto la partecipazione di tutti, cosa che penso sia sempre propedeutica al coinvolgimento di nuova gente. Queste sono le occasioni in cui la parte più ludica del mondo ultras viene fuori, quella di cui i ragazzini si possono innamorare (alcuni poi fuggiranno realizzando la fatica che c’è dietro, sic!).
Capitolo tifo: vecchio stampo, all’italiana, continua e di livello la performance dei pugliesi. Da una tifoseria che negli ultimi anni ha conosciuto una seconda giovinezza c’era da aspettarselo, vero, ma non è mai scontato portare numeri e intensità in un mercoledì qualunque. I biancorossi invece si sono messi in mostra con novanta minuti caratterizzati da voce, bandieroni numerosi e incessantemente sventolati, due aste, sciarpe e tanta voglia di suggellare una giornata che senza dubbio rimarrà scolpita nella memoria di chi ha deciso di esserci. Ciliegina sulla torta le torce accese di tanto in in tanto, sebbene qualcuno alla loro visione sembrava di trovarsi di fronte a un omicidio plurimo e preterintenzionale. Bravi anche i padroni di casa a posizionarsi nella parte centrale del loro settore e non fermarsi praticamente mai per tutti i novanta minuti, riuscendo di tanto in tanto a coinvolgere anche il resto della tribuna. Per questi ragazzi, partite del genere possono essere un boomerang: se non si riesce a capire il ritmo e la sinergia con la folla, si rischia di buttare il potenziale. Contrariamente, invece, fare quadrato e dar voce senza sosta al proprio settore è prova di crescita e costanza. Per ampliare ancora i numeri ci sarà tempo ma in fondo, senza una base solida e pensante, a cosa serve avere duecento persone che seguono e non averne neanche una in un fantomatico turno infrasettimanale a cento chilometri da casa?
In campo le squadre impattano sull’1-1, che tuttavia risuona quasi come un successo per lo Sciacca, costretto a giocare in dieci già dai primi minuti del match. Al triplice fischio, dunque, ci sono applausi per tutti, e incoraggiamenti in vista del match di ritorno (che mentre scrivo si è già disputato, con il passaggio del turno ottenuto dai pugliesi). Il clima è buono, positivo, perché, come detto, oltre al mero discorso calcistico, soprattutto per la comunità saccense è un appuntamento storico. Mi godo queste ultime due ore su suolo siciliano, per cogliere ancora qualche sfumatura e vedere il sole tramontare lentamente sul Mediterraneo. Non posso far a meno di rimanere alquanto suggestionato da questa terra – e in particolar modo da quest’area – perché so che veramente qua sono passate “pagine di storia” lette e studiare sin dalle elementari. Devo persino ringraziare il calcio per avermici messo a contatto, sebbene il collante primo siano gli ultras e la mia poca sanità cerebrale nel macinare chilometri per seguirne le gesta. Mentre elaboro tale pensiero mi accorgo che i tifosi barlettani sono ancora, inspiegabilmente, nel loro settore, in attesa che vengano fatti uscire. Seriamente: non capisco quali siano le preoccupazioni in tal caso, ma immagino che l’ormai conclamato ritorno alla narrazione della “teppaglia” con la sciarpa al collo influisca molto. Una narrazione sempre più lontana dalla realtà, anche dai suoi punti più critici e che spesso crea discussioni anche internamente a chi popola e rende vivo questo movimento.
Stavolta sulla strada di ritorno verso Palermo non posso vedere vallate e mari. Il buio ha divorato tutto, tranne le rare luci che a volte illuminano i cartelli. Il ritorno avviene lentamente, rivedendo nella mia testa le immagini più belle e riascoltandone i suoni. Realizzo che dopo ventisei anni ho addirittura visitato quel posto sentito e letto solo attraverso un canale radiofonico e televisivo. Ma probabilmente quel modo di sognare a distanza, di curiosare e volersi informare, rischia di esser morto. O quantomeno sepolto sotto il velo di superficialità della nostra era. A gennaio scorso Tele Radio Sciacca ha chiuso, resta in vita soltanto il suo sito. Quasi a testimoniarne il passato. Un po’ come quella stazione ormai inghiottita dalle sterpaglie, che parla e racconta il suo passato solo a chi la vuol interrogare. Solo a chi ha voglia e pazienza di scavalcare il muro di cinta e immaginare i suoi binari ancora percorsi da treni e resi vivi dalla voce dei passeggeri!
Simone Meloni