Se la mia vita da adolescente fosse stata un weekend, Piacenza sarebbe stata al centro.
Da una parte i sabati con mio nonno. La campagna infinita fra casa mia e Lodi, e qualche volta un po’ più in là.
La Via Emilia, il Po.
La sensazione di essere al sicuro, lontano, protetto.
Lui che guidava la sua jeep, io accanto e sul sedile dietro mio fratello.
Le domeniche in Val Trebbia con mia madre.
Travo, i pisarei, a cui devo almeno un paio dei miei chili di troppo, il silenzio.
La crescente consapevolezza che si potesse essere felici anche da soli.
Anche senza mio padre, andato via senza chiedere a nessuno, nemmeno a sé stesso.
E Piacenza sempre lì.
Un po’ casello autostradale, un po’ sveglia.
Senza mai vederla davvero.
Io infatti dormivo sempre, e quasi sempre mi svegliavo al rallentare della Classe A.
Cieli d’alba arancioni e gli occhi di mia madre.
Ogni domenica più accesi, ogni domenica più vivi.
Un passo alla volta, vederla andare oltre.
Provare ad andare avanti.
Il Garilli ha visto giorni migliori, notti più brillanti.
Da Como non viene nessuno.
Trasferta vietata.
Ampi spazi vuoti negli altri settori.
Dei Piacenza-Como del passato soltanto i racconti di chi ha potuti viverli.
All’assenza ormai ci si fa l’abitudine.
I piacentini sono compatti e costanti.
Striscioni capovolti, cori tenuti a lungo alternati a cori secchi.
E di questi tempi non è poco.
Esco qualche minuto prima della fine.
Il cellulare scarico mi lascia senza navigatore.
Trovo presto la strada, guidato dai ricordi più che dai cartelli.
Da quei fine settimana sembra passata una vita.
Qualche settimana fa, un bel sabato d’autunno, sono passato a prendere mio nonno.
Mio fratello sul sedile accanto, io alla guida. Lui seduto comodo sui sedili dietro.
Prima la campagna, poi Piacenza.
Le cose cambiano, se le prende il tempo e ne fa ciò che vuole.
Spesso peggiorano, è evidente.
Sta a noi scegliere.
Se prendere il buono o arrendersi.
Se crederci ancora.
O lasciar perdere.
Gianluca Pirovano.