Per chi abita al di fuori del Grande Raccordo Anulare è spesso difficile – se non impossibile – comprendere determinate dinamiche che abitualmente muovono lo spirito calcistico della Capitale. Mi capita spesso, parlando con amici di fuori, di incorrere nel discorso “radio romane”. Un fenomeno che, nel bene o nel male, caratterizza da ormai quasi un ventennio la Roma sportiva. Un vero e proprio fenomeno sociologico, se si pensa all’alto numero di ascoltatori e all’incredibile media di tempo che buona parte dei tifosi romanisti e laziali trascorrono in compagnia delle frequenze medie.

Potremmo analizzare il fenomeno e definirlo, con un po’ di spocchia, una delle massime espressioni del proverbiale provincialismo sportivo capitolino. Potremmo però, in veste di comunicatori, prendere anche per buono il pluralismo di informazione che questo produce. O almeno dovrebbe.

Ora, francamente non sono mai stato un grande amante di queste radio tematiche. Ma più che per i contenuti, per il semplice fatto di ritenere alquanto ridondante fossilizzarsi h24 su una sola tematica. Seppur facente parte della mia sfera di interesse. Inoltre, non lo nego, non condivido il modus operandi parossistico e quasi sempre tendente alla polemica gratuita che alcune di queste emittenti preservano.

Contestualmente non posso però negare la presenza di tanti bravi comunicatori, oltre che tecnici. Persone capaci e formate, che si sbattono quotidianamente per portare a casa qualche spicciolo o che sovente ricevono a malapena qualche rimborso (con l’editore che ovviamente gira in Porsche). Per testare la bontà del lavoro svolto da queste “cantere” penso basterebbe fare una piccola indagine sul passato di tanti giornalisti/commentatori sparsi attualmente nell’etere nazionale.

In settimana il presidente James Pallotta si è reso protagonista di alcune dichiarazioni che, come spesso gli accade, hanno creato polemiche e malumori nell’ambiente. Il numero uno giallorosso ha infatti dichiarato: “A Roma ci sono nove radio, ne ho mandate in bancarotta due, me ne mancano sette”. Aggiungendo: “Ad oggi siamo l’unica squadra in Europa che ha una sua stazione radio, a cui abbiamo dato vita circa due anni e mezzo fa. Credo che nel frattempo ne abbiamo mandate 2 in bancarotta, adesso ce ne mancano altre 7. Abbiamo bisogno di spiegare la nostra versione dei fatti, se ascoltassi le radio tutti i giorni mi butterei dal Tobin Bridge perché sparano merda su quello che facciamo o su quello che faccio io”.

A parte la dubbia veridicità di tali dichiarazioni (attualmente non arrivo a contare nove radio che parlano di Roma, non ricordo due emittenti chiuse e soprattutto non mi risulta che la Roma sia l’unica società in Europa in possesso di una stazione radio) personalmente trovo simili esternazioni poco intelligenti e colme di una stucchevole boria. Tipica di chi conosce poco non solo l’ambiente romano, ma anche quello italiano.

Lungi da me difendere a spada tratta un baraccone mediatico che sì, è vero, annovera anche menestrelli di corte in chiara malafede. Ma trovo alquanto grave far passare un messaggio secondo cui una radio societaria (quindi per forza di cose “parziale”, forse anche più delle altre verso cui si è puntato il dito) – peraltro composta in gran parte proprio da persone provenienti dalle tanto vituperate radio romane – possa essere l’unica fonte di verità al cospetto delle altre. Un Paese come l’Italia, già di suo problematico nella gestione dell’informazione, non può permettersi tali dichiarazioni a cuor leggero. Senza tralasciare la gravità nell’augurare la perdita del lavoro a chi con questo spesso manda avanti la propria vita e le proprie famiglie.

La mia è retorica? Può darsi. Ma a volte è meglio un po’ di sana retorica rispetto all’accettazione passiva di simili amenità.

Di certo se si crede di avere dei nemici giurati fra i media non è insultandoli deliberatamente che si risolve il problema. Semmai lo si acuisce e si dà l’opportunità anche a chi opera in maniera malsana di poter parla con un fondo di minima ragione.

Pertanto queste dichiarazioni si aggiungono all’ormai corposa sfilza di sparate fuori luogo targate James Pallota. Un range che varia dal celeberrino “fucking idiots” rivolto ai tifosi passando per le presunte telecamere ad alta definizione comprate per coadiuvare la polizia nell’opera di repressione del tifo organizzato (e anche qua mi permetto di esprimere le mie perplessità sulla veridicità delle stesse, considerando che in Italia si spendono milioni su milioni per questo genere di cose) e per altre esternazioni troppo spesso giunte nel modo e nei momenti sbagliati.

Se poi ci si dovesse spingere in giudizi ancora più analitici, verrebbe da chiedersi come sia possibile che il presidente di un club che in otto anni ha racimolato soltanto figure barbine e anonime sul terreno di gioco voglia addurre parte della colpa di questi insuccessi alle radio. Non è credibile, né tanto meno accettabile. E chi fa calcio, a qualsiasi livello, lo sa benissimo. L’ambiente influisce, è vero, ma non può fungere sempre da scusante. Parliamo di società, giocatori e staff che ormai vivono in un mondo parallelo. Spesso ovattato e iper protetto dall’esterno.

E qui ho l’appiglio per aprire il capitolo Roma-Milan. Sì perché se parliamo di ambiente ovattato e protagonisti ormai divenuti starlette delicate e protette come capi di Stato, il riferimento chiaro è a uno dei principali malcontenti della serata dell’Olimpico: la squadra chiamata sotto il settore, per l’ennesima volta e dopo l’ennesima sconfitta casalinga (cinque, non avveniva dalla stagione 2004/2005), fa spallucce e rientra negli spogliatoi.

Malgrado proprio la sera prima un’Inter fischiata e contestata dal proprio pubblico, al termine della confusionaria vittoria con il Benevento, si sia comunque presa gli improperi di chi paga il biglietto, proprio sotto la Nord. Evidentemente infischiandosene del regolamento che vieterebbe contatti con i tifosi. O forse semplicemente comprendendo che avvicinarsi, a cinquanta metri di distanza, può essere quanto meno un “giusto compromesso”. E credo che se anche i calciatori si fossero portati all’altezza della porta, prendendosi due fischi e rientrando negli spogliatoi, nessuno gli avrebbe detto nulla.

Ma i tifosi sono belli e buoni quando fa comodo. Quando le cose vanno bene e ci sono abbracci e applausi da prendere. L’ho detto in passato e lo ripeto: i giocatori altro non sono che lo specchio di una società che ormai disconosce qualsiasi merito (nel bene o nel male) e fa passare le critiche come un abominio o, peggio ancora, un atto eversivo.

C’è una differenza sostanziale tra il minacciare e il mostrare lo scontento per dei risultati deludenti. E ci vorrebbe davvero poco per non rendere sempre e comunque scontenta gente che, facendo sacrifici di tempo e denaro, segue la squadra sempre e ovunque. Invece è proprio quel rifiuto del “minimo sindacale” che manda in bestia i tifosi. Discorso che chiaramente si estende ben oltre il manto verde dell’Olimpico.

Roma-Milan, almeno una volta, era anche una gara interessante per quanto riguarda l’aspetto prettamente ultras. L’ardore di un tempo è ora annacquato, un po’ come in tutto questo genere di sfide. Tuttavia è ottima, una volta tanto, la cornice di pubblico dell’Olimpico e buona, almeno fino al secondo gol del Milan, la prestazione di una Sud che quest’oggi è sembrata un pochino in ripresa dopo le ultime, non esaltanti, prestazioni.

Nel settore ospiti discreta presenza rossonora, con il blocco ultras che come di consueto si posiziona nella parte bassa del settore dietro lo striscione della Curva Sud. Armati di un tamburo i milanisti, rispetto ad altre volte, non sfigurano, confortati anche dalla bella vittoria degli uomini di Gattuso. Certo, far tifare costantemente la zona superiore, occupata da gitanti e tifosi occasionali, è quasi impensabile. Tuttavia lo zoccolo duro fa il suo e in qualche occasione riesce a portarsi dietro anche il resto dei presenti.

In campo finisce 2-0 per gli ospiti, grazie ai gol di Cutrone e Calabria.

Testo Simone Meloni

Foto Cinzia Lmr