Che cos’è un rito?” disse il piccolo principe.
Anche questo è qualcosa che si è dimenticato” disse la volpe.
E’ quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora diversa dalle altre ore“.

In fondo sembra esser sempre la prima volta quando si prepara minuziosamente l’intero equipaggiamento per una giornata speciale, anche sapendo di partire per una meta non allettante a livello di ambiente, il cuore batte a un ritmo differente.
Come l’onda sul solito scoglio, ma in un giorno di tempesta.
Il cielo grigio sopra la testa sembra quasi lanciare il guanto di sfida mentre insieme ad alcuni amici mi accingo ad imboccare il Grande Raccordo Anulare. Direzione Reggio Emilia, quasi novecento chilometri da macinare in meno di quindici ore per una pausa lavorativa dal sapore di nettare e ambrosia.
La “Città del tricolore” si appresta così ad ospitare quasi duemila anime romaniste, pronte a riprendersi con la forza della passione ciò che a Roma, nella loro città, nella loro “casa”, non è più consentito: il tifo.
L’autostrada del Sole ci accompagna con i suoi meravigliosi paesaggi, passando brevemente dalle verdi colline toscane alle nebbiose vette appenniniche.
Un paio di soste all’Autogrill, meno sorvegliati del solito grazie alla mancata concomitanza di tifoserie sul nostro cammino, e superata Bologna siamo già alle porte di Modena.

Se il calcio italiano fosse ancora un esempio di rispetto delle tradizioni, l’uscita obbligata sarebbe proprio qui. Diciannove chilometri dalla Ghirlandina, la torre che sovrasta il Duomo modenese: tanto dista Sassuolo dalla città di cui è provincia. E invece no. Non c’è uno Stadio Enzo Ricci ad aspettarci, no.
Dal 2008 infatti lo storico impianto sassolese è stato ufficialmente messo in disparte per dar spazio al nuovo che avanza, o per meglio dire alla trasformazione del vecchio Giglio di Reggio Emilia, divenuto così Mapei Stadium – Città del Tricolore, impianto di proprietà dell’omonima azienda, condiviso dagli uomini di Di Francesco e dalla squadra cittadina, la gloriosa Reggiana.
Sarebbe un’altra storia da raccontare, ma qualcuno di mia conoscenza l’ha fatto – e bene – prima di me.
Mi premeva però sottolineare quanto sia spiacevole constatare l’abilità nello spazzare via usi e tradizioni in nome del danaro, un punto di vista che reputo sia condivisibile anche dagli stessi sostenitori neroverdi. Almeno spero.
In fondo siamo entrambe tifoserie in esilio forzato.

Gli ultimi metri di questa prima parte di viaggio sono scanditi dalla discussione in merito alle dichiarazioni di alcune ore prima del presidente del Coni, Giovanni Malagò e, soprattutto, di quelle della presidentessa dell’Osservatorio nazionale sulle Manifestazioni Sportive, Daniela Stradiotto.
Mentre il primo annuncia un imminente soluzione in merito alle vetrate in plexiglass che hanno frantumato in due i settori popolari dello Stadio Olimpico, infliggendo una profonda coltellata al cuore delle già sanguinanti tifoserie romane, la seconda invece ribadisce nuovamente un concetto che, se non fosse stato ripetuto fino alla nausea, sarebbe degno di un premio accademico o meglio di una laurea honoris causa in letteratura – genere  fantasy ovviamente.

Nessuno impone norme vessatorie ai tifosi di Roma e Lazio […] Il modello da seguire è lo Juventus Stadium di Torino” e ancora, riferendosi agli “abitanti” di Curva Sud e Nord:
Parliamo di 11mila persone che si facevano forza in gruppo e che facevano quel che volevano. Si era creata una sorta di immunità in quanto si spacciava e dilagava la delinquenza, per questo è subentrata la necessità di dividere la curva per creare una via di fuga“.
Col tarapio tapioca come se fosse antani la barella anche per due, con lo scappellamento a sinistra, mi verrebbe da aggiungere. Ma siccome l’ironia, almeno nella mia città, è punita con circa 160 euro di multa, ed essendo io un giovane aspirante giornalista dal portafoglio in assetto da Halloween, cercherò di sottolineare con occhio critico alcuni passi di questo discorso sopra i massimi sistemi.

In primis, il paradosso di un esponente tanto autorevole quanto impreparato sulla materia, capace di etichettare lo Stadium torinese come il modello da seguire nonostante nell’impianto sabaudo la tifoseria bianconera sia libera di tifare con l’ausilio di bandiere, striscioni (alcuni in passato reputati “vergognosi” dall’opinione pubblica) e soprattutto assistendo in piedi allo spettacolo sul campo senza alcuna spada di Damocle sul capo. Com’è giusto che sia.
La coerenza di questa prima frase è paragonabile a un vegetariano armato di coltello durante la sagra della costoletta d’agnello. Qualcuno può smentirlo? Non credo.

Secondo poi, mi preme sottolineare quanto sia grave da parte di un rappresentante delle Istituzioni, l’etichettare come “criminali” undicimila individui facenti parte di una folla eterogenea (11 mila, un quarto della popolazione di Sassuolo).
Donne, uomini, vecchi, giovani, bambini: erbacce da estirpare con la forza. Non si fanno prigionieri.
Vi risparmio la difesa in stile avvocato del diavolo, chi ha un pizzico di sale in zucca capirà da sé che questo atteggiamento è degno delle peggiori tirannie.

Infine, e qui riaffiora il sempre vigile sarcasmo, mi chiedo a cosa serva mettere una barriera per ostacolare il flusso di spaccio – stavolta s’è dimenticata di aggiungere alla filastrocca il verso sulla prostituzione (molti sarebbero stati contenti se davvero ci fosse stata, ndA). Immaginate insieme a me: stasera vi recherete al solito locale di amici per bere qualcosa. Guardando il bancone noterete un muro tra le bottiglie di superalcolici e quelle di birra. Vi spiegheranno che così si ridurrà il consumo di alcool, prevenendo incidenti e potenziali tali. Cosa pensereste?
Ognuno risponda come meglio crede, non è certo il mio obiettivo quello di convincere qualcuno a mettere da parte la Verità Assoluta dell’opinione pubblica, per abbracciare le teorie di noi uomini senza Dio e senza santi in Paradiso.
Semplicemente sarebbe bello che a tali dichiarazioni seguisse un contraddittorio o almeno il constatare una mano levata al cielo, pronta ad una replica. In fondo il nostro lavoro dovrebbe comprendere soprattutto la vivisezione dei periodi e un’analisi critica di essi. Ma così van le cose, al contrario.
Ma torniamo alla protagonista di questo racconto: la partita.

Oltrepassato il casello dopo un lieve accenno di fila, Parco Pigal ci guida verso l’adiacente impianto cittadino e un parcheggio del settore ospiti piuttosto gremito per essere mercoledì sera. Ma dopo aver saltato la trasferta di Napoli a causa delle limitazioni di chi, teoricamente, anni fa ha intrapreso un progetto fatto di discutibili norme atte, sempre teoricamente, a consentire a tutti di assistere a tutte le partite della propria squadra, la voglia di calcio ha avuto la meglio su un calcio-spezzatino a cui ormai siam tutti assuefatti. Me compreso.
I controlli blandi ci ricordano la netta differenza che intercorre fra le Capitale d’Italia e la città in cui per la prima volta venne issato un tricolore, permettendo alla tifoseria ospite di sistemarsi con relativa calma e tranquillità, mentre i settori dei padroni di casa presentano molteplici buchi a causa di un impianto sproporzionato in base alla grandezza della cittadina emiliana.
Le “pezze” iniziano ad essere esposte in balaustra, colorando il settore insieme a un buon numero di bandieroni e bandierette, sciarpe e due aste. Ordinaria amministrazione, almeno così dovrebbe essere, eppure ai miei occhi di eterno bambino fa uno strano effetto il sostare lì, a ridosso del campo, senza alcuna barriera, senza reti, senza la preoccupazione di poter incappare da un secondo all’altro in una sanzione. La normalità non dovrebbe essere un qualcosa di eccezionale.
“È libero questo posto?“, mi chiede gentilmente una signora sulla sessantina in compagnia del marito.
Dall’accento capisco subitamente che sono due autoctoni e, tanto per smentire l’assioma tifoso da stadio = mostro, replico col sorriso stampato sulle labbra:
Assolutamente sì, anche se vi consiglio di spostarvi perché qua sotto qualcuno potrebbe travolgervi in caso di rete“.
Bene, allora rimaniamo qui con voi. Vogliamo tifare insieme alla curva“.
Puoi immaginare mio caro lettore la soddisfazione nel sentire questa vicinanza spirituale con chi ho nulla in comune, tranne la Roma. Sono rimasti lì tutta la contesa, novanta minuti a tifare, battere le mani, saltare, li ho sentiti insultare l’ex Prefetto di Roma e urlare improperi di ogni tipo.
Quello che succede in uno stadio, rimane dentro esso. La vostra goliardia non fa male a nessuno“, così la signora si guadagna anche la possibilità di appoggiarsi sulla balaustra dove poco tempo prima avevo appeso il mio personale vessillo.

Il settore ospiti accoglie il fischio d’inizio con il consuetudinario “Quando l’inno s’alzerà“, dopo aver precedentemente deriso la squadra di casa nel momento dell’inno interpretato dal cantante Nek, originario proprio di questo splendido spicchio del Belpaese. Il tifo è di buon livello, almeno inizialmente, ma come spesso accade la rete del vantaggio dei neroverdi ad opera di Paolo Cannavaro smorza l’euforia di molti, lasciando il compito di tirare le redini ai soliti “mostri a tre teste”.
Rispetto allo Stadio Olimpico non si sentono tanti mugugni e brusii, pratica ormai diffusa tra gli spettatori e parzialmente assente nei tifosi, ma la spaccatura è piuttosto evidente tra le prime file e la parte alta – popolata da molti romanisti accorsi dalle zone limitrofe. Si va negli spogliatoi con il Sassuolo in vantaggio nonostante la doppia traversa colpita dagli uomini di Spalletti, permettendo ai presenti di imbattersi in un’altra regola illogica ormai tristemente diffusa: nel bar sito all’ingresso del settore non è autorizzata la somministrazione di alcolici. E così sia, un caffè al volo per ricaricare le pile e ricomincia la disputa.

La Roma rientra in campo con il giusto piglio, scrollandosi di dosso la paura di incappare nell’ennesima sconfitta fuori casa.
Non me ne vogliano i miei compagni di trasferta, molti dei quali scuri in volto durante l’intervallo, ma se il Sassuolo da quando frequenta il massimo palcoscenico non ha mai battuto i giallorossi tra le mura amiche,  un motivo ci sarà.
Sarà forse perché il primo campo cittadino di Sassuolo era situato proprio in Via Roma, o forse per quella prima divisa di color giallorosso, ma quando giungo in questa terra edificata secoli fa per volere del console Marco Emilio Lepido, sono sempre certo di una vittoria. Ottimismo tipico del tifoso, il quale contrasta l’imparziale visione da presunto addetto ai lavori.
E difatti Edin Dzeko trova prima la rete del pareggio su azione, poi raddoppia su calcio di rigore portando in vantaggio i suoi ed esultando con rabbia ad un metro e mezzo scarso dai propri tifosi. Pugni levati al cielo come maestri d’orchestra e di fronte ai loro occhi uomini e donne in un batticuore all’unisono e un grido che squarcia la nebbiolina che circonda l’impianto.
L’ultimo tiro dagli undici metri realizzato dal bosniaco fuori casa risale alla trasferta di Bologna della scorsa stagione, in quello stadio intitolato a Renato Dall’Ara, presidente dei rossoblu nativo proprio di Sassuolo.

Con il vento nettamente a favore i romanisti riprendono a macinare cori e battimani di buona qualità, anche se, debbo esser sincero, tornato a Roma mi sono trovato al cospetto di una celebrazione eccessiva del nostro tifare in terra emiliana.
Sarà forse perché ormai ci stanno disabituando alla passione o per l’assenza di un “avversario” sugli spalti (represso anch’esso da norme ai limiti della incostituzionalità, ndA), ma fidatevi se vi dico che gli strascichi della repressione capitolina si sentono anche nelle corde vocali di molti.
La Curva Sud in trasferta è anche più di quello, come d’altronde altre realtà italiane. Ma considerati i tempi che corrono, sarebbe ingiusto non premiare con lode la prestazione dei tifosi romanisti.

Nainggolan realizza il tris sigillando un risultato che proietta l’armata Spalletti a ridosso della capolista Juventus, una gioia smorzata però dal brutto infortunio subito da Alessandro Florenzi, vittima di una lesione al crociato del ginocchio alcuni istanti dopo l’ingresso in campo di Antonio Rudiger, di ritorno dallo stesso tipo di infortunio.
Uno strano e casuale scherzo del destino.

Il triplice fischio finale regala l’ultima gioia della serata, con i giocatori capeggiati da capitan De Rossi che si presentano sotto l’orgogliosa fiumana di tifosi per ringraziarli dell’onnipresente sostegno.
Sono anch’essi vincitori, perché spesso le regate si possono vincere grazie anche a chi soffia da dietro con tutto il fiato che si ha in petto.
E loro hanno soffiato talmente tanto da meritare un’infrazione di quello sciocco regolamento che, teoricamente, vieterebbe ai calciatori ogni tipo di contatto con le curve. In barba ad ogni levata di scudi da parte dei fautori di questa caccia alle streghe, si tolgono le magliette e le lanciano nelle mani tremolanti come foglie di qualche fortunato ricevitore. Le facce sorridenti scandiscono così l’uscita dal settore ospiti e, diversamente da molti impianti, in men che non si dica sono tutti pronti a tornare a casa.

Con la sveglia che ironicamente mi ricorda che alle 7:00 dovrò essere in piedi, pimpante e pronto ad una giornata di lavoro, ripongo i miei averi in macchina e, grazie alla gentilezza dei miei compagni di viaggio, mi arriccio su me stesso nei sedili posteriori cercando di trovare un po’ di riposo.
Ma in queste giornate speciali è difficile, se non impossibile domare l’euforia e un battito cardiaco alterato.
Il sonno potrà aspettare, tanto domani sarà un altro giorno come tanti.
Oggi no, oggi è diverso, oggi si dà vita ad un rito pagàno che nessun Osservatorio potrà mai spazzare via e le occhiaie, gli sbadigli e la stanchezza di domani saranno soltanto impronte ben visibili nel fertile terreno della passione.

 

Gianvittorio De Gennaro