Quando, durante la fila per i controlli all’aeroporto di Ciampino, una signora comincia a parlarmi velocemente in slovacco – chiedendomi chissà quale bizzarra informazione – rimango alquanto basito nel costatarne la loquacità. Una sorpresa, considerato il ricordo abbastanza nitido che ho di un popolo alquanto chiuso e schivo. E infatti questo siparietto rimarrà, probabilmente, uno dei pochi spaccati “simpatici” nella mia breve permanenza in quel di Bratislava. Beninteso: non voglio fare di tutta l’erba un fascio, né cadere in facili stereotipi. Al contempo è innegabile che ogni popolo abbia i suoi tratti distintivi e le sue peculiarità. Ecco, in tal senso diciamo che a fronte di più esperienze, posso dire che quelle di cechi e slovacchi non sono propriamente in cima al mio modo di vivere bene e serenamente un luogo che visito. Voi direte: e allora che ci sei andato a fare? In realtà, come quasi sempre accade, a spingermi è stata soprattutto la curiosità. Curiosità di capire come si vive il calcio a queste latitudini, dopo averlo sperimentato nella vicina e rivale Praga, ma curiosità anche di vedere al confronto due tifoserie che nel 2010 avevano dato vita a pesanti incidenti in un preliminare di Europa League, nel vecchio stadio Pasienky, dove lo Slovan ha giocato dal 2009 al 2018, in attesa della ristrutturazione del Tehelné pole. Inoltre non ho mai visto all’opera i ragazzi di Stoccarda e questo sicuramente rappresenta uno stimolo in più, considerato il momento di indubbia crescita e salute che il movimento teutonico sta attraversando.

Nota a margine: decido di partire proprio nel giorno del mio compleanno, a testimonianza di quanto questa data sia diventata, nel corso degli anni, un semplice dettaglio anagrafico, perdendo tutto il suo fascino festaiolo che poteva avere qualche anno fa. E non solo perché gli anni passano e da buon soggetto che rimugina sul tempo e le occasioni perse è sempre scomodo mettere una candelina in più, ma anche perché ci sono passaggi e momenti nella vita in cui c’è bisogno – se proprio si deve – di affrontare una ricorrenza solo ed esclusivamente con se stessi. Magari dentro uno dei bei pub presburghesi, davanti a una birra e a un piatto di halušky, i tipici gnocchetti di patate conditi in vari modi. Bratislava inoltre mi riporta indietro di ben quindici anni, riaprendo il cassetto dei ricordi di un capodanno passato a Vienna, quando la Capitale slovacca fungeva praticamente da aeroporto low cost per quella austriaca, incamerandone anche buona parte del turismo di “ritorno”. Un turismo che oggettivamente merita, perché se sull’affabilità dei locals se ne può parlare, di certo non si può mettere in discussione la bellezza di un luogo incastonato tra il Danubio e la Morava, inerpicato sui Piccoli Carpazi e – quest’oggi – imbiancato da un’importante spolverata di neve dei giorni precedenti, che ha dato più atmosfera alle passeggiate per le sue vie e alla salita che porta sino al Castello che sotto gli Asburgo divenne residenza reale. Altra nota a margine: la mia sortita non si limiterà alla Slovacchia, ma in successione prevede la sfida di Europa League tra l’AZ Alkmaar e la Roma, due partite in Germania e il volo finale per Vittoria, in Sicilia, dove ad attendermi ci sarà il match tra i padroni di casa e il Modica. Ma andiamo con ordine e per il momento restiamo nelle fredde strade di Bratislava.

Con la partita in programma alle 21, arrivo a destinazione quando l’orologio segna le 15, avendo tutto sommato abbastanza tempo per posare i bagagli in stanza, concedermi il primo giretto con birre annesse e poi avviarmi senza fretta verso lo stadio. In giro ci sono già tantissimi tedeschi, che sembrano aver ampiamente marcato il territorio con scritte e adesivi. Gli ultras dello Stoccarda sono tra le realtà più vecchie e valide della Germania e il poter viaggiare oltre i confini nazionali rappresenta una grande occasione per mettersi in mostra e far vedere ancora una volta tutta la loro esuberanza ma anche la fedele interpretazione del credo ultras. Discorso un po’ diverso per il tifo organizzato di casa – e durante la serata ne avrò ancor più la riprova -, che ricade appieno in quel contesto di tifoserie dell’Est ancora ibride tra hooliganismo e imitazione del tifo all’italiana. Il tutto, manco a dirlo, condito da una costante presenza sui social e a pavoneggiarsi dietro alla prestanza fisica, scambiando sin troppe volte lo stadio con un ring (o con una palestra?) Calcisticamente lo Slovan vanta una storia di tutto rispetto: nato nel 1919, ha cambiato svariate volte il proprio nome, di concerto con i continui stravolgimenti geopolitici che hanno riguardato un’area che nel secolo scorso è passata dal controllo nazista a quello russo, tornando a essere autonoma soltanto negli anni novanta, quando la Cecoslovacchia si dissolse definitivamente dando vita a due entità statali separate. I Belasí (Azzurri) vantano otto campionati cecoslovacchi, quattordici vittorie nei torni slovacchi e, soprattutto, il trionfo nella Coppa delle Coppe 1968/1969, quando nel cammino eliminarono avversarie del calibro di Torino e Porto, sconfiggendo nella finale di Basilea il Barcellona per 3-2. Un successo storico, che resta l’unico conseguito da una compagine cecoslovacca nelle tre grandi kermesse del Novecento (le due praghesi vantano diverse Mitropa Cup, che fino agli anni Cinquanta è stata senza dubbio la competizione più prestigiosa – assieme alla Coppa Latina – anche in virtù della grande fama di cui il calcio danubiano godeva. Tale lustro venne tuttavia gradualmente soppiantato dall’istituzione della Coppa dei Campioni, della Coppa UEFA e, per l’appunto, della Coppa delle Coppe).

Ciò che stride tremendamente con questa storia di tutto rispetto, è la poca “rivendicazione” del territorio da parte di tifosi e ultras per le vie della città. Non conosco troppo bene le dinamiche locali e mi rendo conto di quanto anche qui il centro cittadino sia stato quasi, unicamente, trasformato in un parco giochi per turisti, ma il trovare graffiti, adesivi e muri violati dai tedeschi, praticamente ovunque, mi ha lasciato una non trascurabile sensazione di “pochezza”, soprattutto in seguito a quanto visto all’interno dello stadio, come avrò modo di dire. Una pochezza che fa da contraltare alle bellissime architetture di una città dal fascino antico, che nella storia continentale è meglio conosciuta col nome tedesco di Pressburg, da cui sono derivati altri appellativi – alcuni dei quali ancora in utilizzo – nei Paesi confinanti e che solo un concorso del 1919 ha definitivamente trasformato nell’attuale Bratislava, a richiamare ovviamente anche le radici piantate dagli slavi, che qui si stanziarono tra il IV e il V secolo, imprimendo fortissima la loro impronta nella sfera delle tradizioni e della lingua. Non a caso interagendo e studiando sommariamente gli slovacchi oggi, emergono appieno tutti i loro tratti slavi, differenziandoli veramente molto dai vicinissimi austriaci, ma anche dagli slavi balcanici, generalmente ruvidi ma più aperti rispetto al resto dell’Est Europa.

Comunque, senza addentrarci troppo in analisi sociali e antropologiche che rischiano di tediare il lettore e far perdere il focus di questo articolo, torniamo a incamminarci verso lo stadio. Mi mordo un po’ le mani per aver bucato all’ultimo un preliminare di Europa League tra Slovan e Roma nel 2011 (che peraltro sancì uno storico passaggio del turno per gli slovacchi) giocato allo Štadión Pasienky (occasione in cui si verificarono anche incidenti all’esterno dell’impianto), che mi avrebbe dato modo di vedere i tifosi di casa all’opera sulle sue vetuste – quasi sovietiche – gradinate. Come detto, infatti, il Tehelné pole è rimasto in standby per dieci anni. Lasso di tempo in cui si è proceduto alla demolizione dello stadio originale, inaugurato nel 1939, e alla costruzione dell’attuale, avveniristica, struttura. Da buona città con retaggi austroungarici, i mezzi pubblici funzionano a meraviglia e il fiore all’occhiello sono i tram, con una flotta del tutto rinnovata rispetto alla mia ultima apparizione in queste fredde lande. Otto fermate e sono a pochi metri dal Tehelné pole, con un imponente schieramento di steward e polizia che ne presidia il perimetro.

Non sapendo dove recarmi per ritirare l’accredito provo a chiedere agli uomini in pettorina gialla. Siccome tutto il mondo è Paese, indovinate cosa mi rispondono? O meglio, lo indovino a tentoni io, considerato che al loro cospetto mi sento insegnante d’inglese madrelingua: non lo sanno e me ne devo andare. Giro per un paio di volte attorno all’impianto, inviperendomi sul finale quando l’ennesimo steward anziché aiutarmi mi manda via. Fortunatamente ogni cinquanta soggetti dal cuore di travertino se ne incontra uno a cui pulsa sangue caldo nelle vene. In questo caso è un signore con la giacca dello Slovan, suppongo qualcuno che lavora per la società, il quale mi prende sottobraccio sorridendo e dicendo di calmarmi, per poi accompagnarmi all’ingresso media. Lo ringrazio, sebbene la mia via crucis sia tutt’altro che terminata. Infatti il mio accredito non risulta in lista e, manco a dirlo (sic!), lo steward addetto agli ingressi non capisce un bel niente e per spiegarsi comincia a utilizzare Google Traslate, costringendomi a fare lo stesso, tra un moccolo e l’altro. Ma la parte più bella – e che al dice lunga sulla professionalità di alcuni personaggi – arriva quando, dopo mille peripezie e solo grazie a un collega slovacco che capisce bene la situazione, scusandosi preventivamente manco fosse colpa sua, ottengo il numero dell’addetto stampa. Il personaggio in questione si limita a rispondere ai miei messaggi in cui gli mando gli screenshot della richiesta fatta un paio di settimane prima, con laconico: “I’m sorry, I can’t help you, list of accreditations is closed”, bloccandomi poi su Whatsapp. Cosa dire? Un comportamento che si commenta da solo ma che, imprecazioni a parte, ora mi costringe a capire cosa fare. Lo stadio è sold out e alla fine, pochi minuti prima del fischio d’inizio, solo un disperato bagarino cede alle mie richieste di abbassare il suo biglietto da 100 Euro a 18. Mentre scrivo ci rido su, perché alla fine è inutile farsi il sangue amaro e sono convinto che prima della lamentela occorra trovare una soluzione, tuttavia questo mi basta a fare una croce sulle partite interne dello Slovan (anche perché lo spettacolo non sarà di quelli che ti invitano a tornare).

Entrando in maniera del tutto trafelata sulle gradinate, impiego qualche minuto prima di trovare un posto adatto a osservare bene le due tifoserie, notando con piacere (almeno questo) come in molti guardino la partita in piedi. Il sold out tanto decantato sembra essere più uno specchietto per le allodole, molti posti infatti sono vuoti, mentre sotto al settore ospiti prendono posto altri supporter tedeschi, che evidentemente sono riusciti a entrare in possesso anche di tagliandi dei locali. Nei miei giudizi cerco sempre di essere equilibrato e non “distruggere” niente o nessuno, perché sono convinto che non si possa giudicare, nel bene e nel male, una tifoseria dalla singola partita. Ci sono casi però in cui si capisce presto l’entità di una curva, anche osservando il confronto con gli avversari e sfruttando quel po’ di esperienza che il frenetico girovagare per spalti e impianti sportivi mi ha portato ad avere. Gli Ultras Slovan – nome del gruppo che guida il settore “caldo” degli azzurri – saranno sicuramente tosti e temibili al di fuori degli stadi, nelle foreste, e dove talune dispute onanistiche in voga a queste latitudini prendono parte, ma per quanto riguarda il tifo rientrano senza dubbio tra i peggiori gruppi visti all’opera in Europa. Passi l’assenza di bandiere per ovviare a un modello molto diffuso nell’Est Europa, passi l’assenza di pirotecnica (che davvero non contesto, visto che di base è vietata e oggetto di sanzioni), passi la bruttezza del materiale esposto, ma possibile che al seguito di una squadra così storica e piena di tradizioni ci siano sì e no ottanta persone a cantare per tutta la partita in un settore che ne contiene migliaia? Eccetto qualche manata e la sciarpata iniziale, veramente riesco a salvare poco di loro e della loro performance. E qui ritorno a quanto detto sopra: non si tratta palesemente di una serata storta, questo è proprio il loro modo di intendere lo stadio. Un bel (“bel” per modo di dire) miscuglio tra qualche reminiscenza italiana (che limiterei al tamburo, al megafono e alla discutibile scritta “ultras” sugli striscioni) e i palestrati youtuber che vanno per la maggiore da qualche anno a questa parte. Riassumendo: tanto fumo e niente arrosto.

E il contrasto con i ragazzi di Stoccarda è netto, quasi mortificante. Oltre ai numeri notevoli, in loro c’è proprio quella sostanza che dall’altra parte manca. Dietro agli striscioni del Commando Cannstatt, ragazzi, ragazze, signore e signori seguono i megafoni e i tamburi, producendosi in una bella performance per tutti i novanta minuti. Diversi bandieroni colorano il settore, così come numerosi stendardi di ottima fattura vengono alzati di tanto in tanto, accompagnati dalla rotazione di sciarpe. Anche qui: se non ci si può fare un’idea completa su una tifoseria vedendola una volta, sicuramente si può intuire la sua portate e il suo valore. Perché anche nella Germania in eterna evoluzione dal punto di vista ultras, ci sono realtà differenti tra loro, contraddistinte da forza, attitudine e soprattutto consistenza differenti. Già, un ultimo punto, questo, che da anni taglia in due il mio giudizio su di loro ma che, contemporaneamente, continua ad assottigliarsi in termini positivi. Mi spiego meglio: quando dieci anni fa ho cominciato a vedere dal vivo alcune tifoserie teutoniche, sovente mi ritrovavo di fronte a una “forma” di tutto rispetto, colorata, bella da fotografare e ineccepibile da un punto di vista estetico. Aspetto che però veniva tradito da un “contenuto” dove magari cantavano in 3-400. Oggi alcune di quelle piazze sono arrivate a tifare a tutto settore, altre – già valide all’epoca – sono esplose definitivamente vantando una qualità davvero impensabile solo due lustri fa. Stoccarda non la conosco bene e non ho avuto modo di vederli su suolo natio, nel campionato nazionale (dove, per quanto mi riguarda, si può giudicare appieno una curva), ma considerata la lunga storia (il Commando Cannstatt, gruppo principale, è stato fondato nel 1997, quasi trent’anni fa) e quanto osservato durante i novanta minuti di questa sera, meritano assolutamente considerazione. Inoltre, per la serie, “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”, il gemellaggio di lunga durata con una tifoseria come quella del Cesena, fornisce un altro spunto e un’altra conferma a quanto scritto poc’anzi.

In campo la gara è senza storia, con gli ospiti che si impongono nettamente per 1-3 e lo Slovan che resta mestamente ultimo nella classifica della nuova Champions League. A tal proposito ci tengo ancor più a sottolineare lo scempio di questo format. Si è deciso di incrementare ulteriormente il numero delle partecipanti, apportando un altro calo di qualità e di interesse meramente sportivo ma, soprattutto, costringendo squadre che in gennaio vedono i propri campionati fermi per motivi climatici (come avviene in Slovacchia) ad affrontare impegni ufficiali senza la dovuta forma, mettendo ancor più distacco rispetto a squadre già di loro più forti e blasonate. Facendo finta di comprendere la logica dettata dal denaro e dei diritti televisivi (che poi mi dovete dire chi è che resta attaccato agli schermi per vedere una partita come questa) rimane davvero complesso capire quella sportiva, che ormai è palesemente svanita. Sta di fatto che l’esultanza sfrenata al gol del provvisorio 1-2 siglato dagli slovacchi, la dice lunga su come anche i tifosi percepiscano l’inferiorità e si presentino allo stadio più per senso del dovere, più per assurgere al ruolo di consumatori, che per altro. Al triplice fischio i Belasí vanno comunque a raccogliere l’applauso dei propri sostenitori, mentre quelli tedeschi si godono la seconda, fitta, sciarpata dei loro supporter, che suggellano così la notevole prova canora.

Rimango ancora un po’ all’interno dello stadio, poi – quando il freddo comincia letteralmente a bruciarmi le mani – mi porto verso le uscite, volenteroso solo di mettermi a dormire. L’indomani camminerò più approfonditamente per le strade di Bratislava, provando a visitare le gradinate del Pasienky, ma il guardiano mi caccerà via manco stessi tentando di portare tre chili di tritolo dentro. Ovviamente impossibile trattare e impossibile capire cosa volessero dire le sue rimostranze (forse meglio così). La mia esperienza presburghese finisce con l’immancabile visita alla stazione dei treni e il successivo pullman per Vienna. Da lì mi aspetta un succulento treno per Amsterdam, con destinazione finale Alkmaar. Ma questo è un altro capitolo della mia saga che avrò modo di raccontare. La coltre bianca su strade, tetti e scale mi accompagna per tutto il giorno e la visione del Danubio dall’alto del Castello mi riconcilia nuovamente con la storia millenaria di questo posto, facendomi per un momento chiudere gli occhi e ripensare a quelle mattine infinite in cui la professoressa delle superiori ci teneva a sottolineare l’importanza di questo corso d’acqua, arrivando persino a farci ascoltare “Sul bel Danubio blu”, celebre valzer di Johann Strauss. Saluto Bratisalava e la sua fredda gente, promettendole senza rancore di non conciliare mai più il suo nome con la mia voglia di stadio. Sebbene, anche nella “grande bruttezza” vista ci sono stati spunti di riflessione. Traumatici, ma ci sono stati!

Simone Meloni