Ci sono libri che per la nicchia di mercato a cui si rivolgono, per la specificità degli argomenti o perché magari pubblicati da piccole case editrici, finiscono per restare fuori dai radar e dalle attenzioni della più ampia fetta di potenziali lettori. Ma ciò non dice nulla sulla (eventuale) bontà degli stessi. Uno di questi è “Soccer Party”, scritto a quattro mani da Paolo Frigo ed Enrico Soli per la Edizioni Heimat, in vendita presso la stessa pagina dell’editore a soli 5 €. Se volete cercarlo per Isbn, il suo codice è 9788894550900. I più pigri lo possono trovare anche su Amazon, però, per un libro del genere, nato dal basso, in un percorso virtuoso di ricerca di una lettura alternativa della verità, pubblicato da una associazione culturale, sarebbe come andare a comprare del macrobiotico al McDonald’s. A rischio di sembrare stucchevoli, ma l’invito a preferire una libreria fisica o canali senza meno più etici è d’obbligo.

“Soccer Party” è un “trattatelo”, com’è definito in prima di copertina, di poco più di 65 pagine che propone una (ri)lettura critica dell’avvento di “mister Diesel” Renzo Rosso e di suo figlio Stefano al timone del Vicenza Calcio. O del Lanerossi Vicenza Virtus, come l’hanno chiamato sperando, non senza una certa dose di presunzione, che il suffisso bastasse a ripagare i loro ex tifosi del Bassano Virtus per averli lasciati senza calcio. O che magari li inducesse a seguire la squadra del capoluogo come se nel calcio il fattore identitario non avesse alcuna importanza. Sulla stessa falsariga, il ricorso al prefisso Lanerossi, marchio registrato di proprietà della Marzotto, ha tanto il sapore del più ruffiano dei cavalli di Troia per carpire aprioristicamente la benevolenza della piazza.

Il nuovo non è nulla di più semplice che giocare con il vecchio: si tratta di una tendenza piuttosto diffusa nel calcio che si nota già da alcuni anni nel riproporre in campo maglie che omaggiano quelle del passato.
Negli anni Novanta e fino ai primi anni Duemila non si faceva vintage, ma poi ci si sarà accorti che funziona quasi sempre su quegli inguaribili romantici che sono i tifosi, soprattutto quando i nuovi modelli gestionali faticano a nascondere una certa mancanza di cuore e poca predisposizione ad altro che non sia far girare denaro.
I padroni del pallone fino all’inizio del nuovo millennio non avevano ancora scavato un solco così profondo tra loro stessi ed il pubblico.
La nostalgia diventa conseguenza di un calcio sempre più
business oriented e a tal punto spudorato da rivendere ai tifosi la nostalgia stessa sotto forma di merchandising.
Il paradosso è che lo stesso tifoso è disposto a dire grazie.

Esplicative, quasi confortanti le parole degli autori a fronte di un’operazione schiettamente commerciale, di quelle che i tifosi a cui piace giocare il ruolo dei duri e puri, non esiterebbero a bollare come “calcio moderno”. Ma si sa che è sempre il calcio degli altri ad essere “moderno” nel senso dispregiativo del termine, il proprio è invece sempre meritevole di distinguo se non addirittura di lodi per l’avanguardismo economico-gestionale.

Confortante che fuori dal coro si alzi almeno una voce a tentare di riequilibrare un dibattito che in fondo non c’è mai stato, e mai c’è laddove si insedia una nuova dirigenza. Come biasimare una Vicenza che esasperata dagli anni dei Cassingena accoglie come un messia il nuovo proprietario? D’altronde non è né più e né meno di quanto accaduto a Salerno con l’arrivo di Lotito, passato poi in pochi anni da salvatore dello scempio Aliberti-Lombardi a carceriere di una compagine di fatto relegata a ruolo di “Squadra B” della Lazio. Ruolo che molto verosimilmente si ritroverà a recitare nel prossimo futuro anche il Bari con De Laurentiis, a meno che quella pugliese non sia una “exit strategy” dell’imprenditore cinematografico da tempo in rotta con la piazza partenopea. De Laurentiis che a sua volta arrivò a Napoli fra mille speranze dopo la serie horror di cui Naldi e Corbelli rappresentarono l’abisso più profondo culminato con il fallimento. Pure Preziosi sembrò una boccata d’ossigeno per la Genova rossoblù dopo i vari Spinelli-Dalla Costa-Scerni e questo nonostante le sue referenze fra Saronno e Como non è che lasciassero troppo spazio all’ottimismo. Una sorta di sindrome di Stoccolma sulla fiducia in cui chiunque arrivi a vendere speranze è sempre accolto da due ali festanti di folla che agitano palme e la settimana dopo lo crocifiggono, sperando nella resurrezione del proprio club. Il più delle volte invano, visto che la storia spesso si ripete ciclica e cinica.

Se il tifoso medio lo si può pure arrivare a capire, volendo essere coerenti ed imparziali, la soglia di comprensione si abbassa sensibilmente quando parliamo di ultras. Che nella propria virtuosa auto-narrazione cavalcano la retorica degli inflessibili custodi della tradizione, dei proprietari morali del club ma quando vengono da anni di vacche magre, spremute da proprietà con pochi scrupoli, si trasformano anche loro in irrazionali e acritici questuanti che darebbero via anche un rene in cambio di una qualsiasi promessa a fondo perduto. E poi come nel più grottesco loop kafkiano ritrovarsi a girare intorno ancora e ancora agli stessi errori.

Tolleranza zero invece per il giornalismo e le istituzioni, entità che al di fuori della referenzialità vanitosa dei tifosi, sono sul serio chiamate a vigilare sull’operato dei tanti avventurieri che, come avvoltoi, volteggiano sulla carcassa sanguinolenta del calcio morente. E invece si rivelano puntualmente per quelli che stendono loro i tappeti rossi noncuranti dei pericoli, che permettono la metastasi del malaffare facendo spallucce, che con l’accanimento terapeutico delle loro menzogne e delle loro connivenze riescono a tenere in vita ben oltre il lecito dei morti viventi.

Beninteso il discorso è generale. A Vicenza la situazione ha senza meno delle prospettive più rosee con i Rosso che nel passato prossimo e remoto. Ma appunto, a prescindere, quello che dovrebbero fare tifoseria organizzata, stampa e istituzioni è, in un modo o nell’altro e nel limite dei propri poteri, porsi e porre dubbi, non concedere fiducia a credito. Non genuflettersi ai padroni e al loro blasone. Questo è ciò che fa “Soccer party” di Frigo e Soli. Il riferimento al termine americano “soccer” lo si deve ad un intervista di Rosso senior che, esponendo la sua idea di calcio, cita a modello gli Stati Uniti della spettacolarizzazione dello sport, dove il campanilismo e l’identificazione popolare vengono in subordine nell’ottica della squadra intesa come franchigia, come baraccone di fenomeni ammaestrati a beneficio di una platea che paga, consuma e crepa. E non deve fiatare o dissentire. Altrimenti? Il pallone è mio e me lo porto via. Per parafrasare più o meno il già citato Lotito, com’è solito rispondere alle legittime rimostranze della Salerno ultras.

Ottimo lavoro quello di “Soccer Party”, soprattutto perché richiama tifosi e stampa al loro reale ruolo di cani da guardia e non di compagnia dei padroncini del calcio. Lavoro ottimo anche nella fattura (grafica e revisione quasi impeccabili), nel materiale e nel prezzo, più che popolare. Unico neo la brevità del testo, che finisce troppo presto ma che per fortuna lascia campo a tante riflessioni. E mi scuso se anche io, ispirato da questa lettura, mi sono ampiamente dilungato a discuterne, ma queste pagine fanno appunto pensare tanto. Ed è un grande merito.

Matteo Falcone