Dopo la prima parte dell’intervista pubblicata giovedì scorso, torniamo per affrontare il secondo tempo di questa interessantissima partita con gli amici di Vamo’ lo’ pibe’, il blog di riferimento per tutti gli amanti italiani di tifo argentino.
Ben 22 le domande poste a Federico “el Bohemio”, uno dei curatori del blog assieme a Beppe “Ostialad”, 22 come i protagonisti in campo di una partita. Con la vorace curiosità che ci hanno suscitato le prime risposte, ecco dunque le restanti 11.
Buona lettura.
12) Tra gli appassionati di futbol e di tifo argentini, si guarda ancora con attenzione a ciò che avviene in Italia, sia come calcio giocato, sia come modo di sostenere le squadre?
Sì, il calcio italiano è molto seguito, soprattutto dall’epoca in cui Diego Maradona giocava nel Napoli, poi è stato il turno della Fiorentina di “Batigol”, per finire poi con la marea di calciatori argentini sbarcati in Italia. Oggi, grazie alla tv via satellite, si ricevono quasi tutte le partite di serie A, e la serie B si riesce a vedere grazie al canale Rai International. Negli ultimi anni ho notato che i ragazzi argentini più appassionati di calcio, che hanno origini italiane, mi chiedono sempre qual è il nome della squadra della città di origine del proprio padre/nonno/bisnonno. L’attaccamento che abbiamo in Argentina per la squadra del quartiere, si trasferisce così alla penisola italica.
Per quel che riguarda le curve e il modo di sostenere la squadra, si guardava all’Italia soprattutto negli anni ‘80. Ad esempio, dal tifo del Napoli abbiamo copiato i bandieroni copricurva. Ultimamente si segue meno la scena italiana, anche perché, per colpa della repressione, cosa c’è più da vedere? Oggi assistere ad una partita di calcio italiano in tv, fa pena anche a livello di gioco, figuriamoci che tristezza è vedere una partita con pochi tifosi al seguito e senza il colore, il calore e la passione delle curve. Il calcio argentino sarà anche meno bello da vedere ma in quanti ragazzi restano svegli fino alle due di notte per vedere le partite della Primera Division su SportItalia? Quanti lo fanno per il gioco in sé e quanti invece per lo spettacolo delle curve Argentine?
L’unica cosa che gli argentini non riescono a capire del modo di tifare Italiano è il lancio dei cori dal megafono. Da noi è molto più all’inglese, nel senso che qualunque persona può far partire un coro ed è poi il resto della curva che lo segue. Oggi, assistere ad una partita di calcio in Italia, senza quegli elementi del tifo come fumogeni, torce, tamburi, etc. è una tristezza infinita.
13) Ti sembra che in qualche maniera il modo di tifare dei gruppi ultras italiani possa avere avuto influenze, seppure minime, nel modo di tifare delle “barras” argentine?
Non penso proprio, stiam parlando di due stili di tifo che sono nati più o meno nello stesso periodo, alla fine degli anni ‘60, e a quei tempi non c’era la tv satellitare, né tantomeno internet, e la gente viaggiava meno di adesso. Quindi è molto difficile che ci siano state delle influenze in tal senso. Successivamente, andando avanti nel tempo e avvicinandoci alla seconda metà degli anni ‘90, le Barras hanno iniziato ad avere lo striscione con il nome del gruppo. I primi ad averlo furono quelli de La 12 e La Guardia Imperial del Racing, quando le altre ancora non avevano un loro striscione vero e proprio. Poi è apparso Los Borrachos del Tablon del River, La Butteler del San Lorenzo, e dai primi anni 2000 ogni barra brava, anche se già da tempo aveva un nome proprio, tipo La Pandilla de Liniers per citare il Velez, inizia a fare lo striscione lungo, da attaccare alla rete di recinzione della propria curva o da tenere in mano tra i tirantes (quelli che vengono stesi in verticale dall’alto al basso della curva). In questo caso, forse c’entra qualcosa lo stile italiano, ma non ne sarei sicuro al 100%.
14) Qual’è la caratteristica che più ti piace nel modo che hanno le “barras” di sostenere la propria squadra e che porteresti all’interno delle curve italiane? E, viceversa, cosa porteresti dello stile ultras italiano all’interno di una “cancha” argentina?
La cosa che mi piace di più del tifo argentino è che si va avanti ad oltranza con lo stesso coro, regolandone l’intensità a seconda che la squadra sia in attacco o che difenda, oppure se il gioco è tranquillo o se diventa duro, saltellando e seguendone il ritmo, muovendo la mano avanti e indietro per seguire il tempo del coro. E poi mi piace il lancio dei papelitos (coriandoli) per salutare l’ingresso della propria squadra in campo. Penso che l’ingresso delle squadre in campo sia il momento più bello della partita, ogni tifoso ha una carica emotiva addosso che trasmette alla propria squadra e, in Argentina, ogni squadra entra in campo per i cavoli suoi, contrariamente a quanto avviene qui in Italia, dove c’e questa tradizione di entrare assieme agli avversari e all’arbitro, che secondo me non è il modo migliore per accogliere al meglio i propri giocatori.
Quello che mi piace di più dello stile italiano sono le sciarpate e le fumogenate, purtroppo ormai quasi del tutto sparite, causa repressione. Per quel che riguarda il discorso di cosa porterei del tifo argentino in Italia, e viceversa, personalmente non farei niente e lascerei tutto com’è adesso. Stiamo parlando di due realtà diverse e che sono un punto di riferimento in Europa e in Sudamerica, e per me è giusto che rimangano tali, ognuno col suo stile diverso dall’altro.
Sarebbe come chiedere ai Rolling Stones di suonare una cover dei Beatles.
15) In Argentina, il fatto di seguire in trasferta la propria squadra è una consuetudine che avviene sempre con numeri importanti? Oppure i numeri dei tifosi al seguito si riducono nelle trasferte più lontane (tenuto conto che l’Argentina ha distanze geografiche enormi, rispetto all’Italia) oppure quando la propria squadra non ha un buon andamento in campionato?
Dipende sempre cosa intendiamo per numeri importanti. Se escludiamo “le cinque grandi” del calcio argentino (Boca, River, Racing, Independiente e San Lorenzo), le altre squadre di Buenos Aires, a qualunque categoria appartengano, hanno un seguito in trasferta molto importante, non tanto per la quantità ma bensì per la percentuale dei tifosi che vanno in trasferta rispetto al totale di quelli che seguono le gare casalinghe. Per fare un esempio, una squadra di Primera B Nacional (serie B argentina) può fare 3000 paganti nel proprio stadio e portare 2500 persone in trasferta a prescindere dalla classifica, ovviamente se la posizione in classifica è bassa calano anche i paganti in casa ma la gente che si muove è comunque sempre in una proporzione pari all’80% circa delle persone che vanno allo stadio in casa e questo numero non è calato, anzi, alcune squadre hanno aumentato il seguito in trasferta pur essendoci programmi televisi come Futbol Para Todos che fanno vedere gratis le partite alla tv in chiaro.
Se ci si muove per andare in trasferta al di fuori della zona di Buenos Aires, in Primera Division (serie A argentina) ci sono poche trasferte da fare verso l’interior dell’Argentina (cioè verso il resto del Paese). Se togliamo Rosario, che con i suoi 300 km da Buenos Aires è la piu vicina, le altre città sono tutte molto più lontane, tipo Cordoba a 800 km, San Juan a 1200 km o Mendoza a 1000 km. Qui, per il seguito delle squadre “non grandi”, conta la posizione in classifica e il giorno in cui si disputa la partita. Non è la stessa cosa giocare di domenica o di venerdì pomeriggio. Bisogna tenere conto che solitamente l’AFA (la federcalcio argentina) comunica il programma definitivo delle partite a tre giorni dal fine settimana in cui si giocherà ed è capitato tante volte che abbiano modificato il giorno e l’orario di una gara con sole 24 ore di preavviso. A queste condizioni come si fa ad organizzare una trasferta a 1200 km di distanza se il giovedì non sai ancora se giocherai di venerdì (cioè il giorno dopo!) oppure di sabato o la domenica? Certo, lo zoccolo duro dei tifosi ci va lo stesso, ma…
Per quel che riguarda il calcio del Interior, le trasferte sono davvero proibitive, a causa delle enormi distanze. Ci sono gironi, come quello della Patagonia, dove la trasferta più vicina prevede 1200 km di strade provinciali, perciò è quasi impossibile seguire la propria squadra. E così, in quelle zone, solo le squadre delle grandi città, che magari hanno assaporato la Primera Division, tipo Cordoba con il Talleres, o Tucuman con il San Martin, hanno un seguito importante. Altre squadre rappresentano paesini di 20/50/60.000 abitanti che esistono da poco, nei quali la gente del posto solitamente tiene per il Boca o per il River, e per seguire la compagine locale di calcio devono affrontare trasferte di migliaia di chilometri, che di solito fanno solo se la squadra va bene e se il politico di turno (che magari si è candidato a diventare sindaco, investendo nella squadra di calcio locale) si impegna a pagare la trasferta ai propri tifosi.
16) Come ci si muove per andare in trasferta in Argentina? Vengono organizzate trasferte di gruppo dalle stesse “barras” oppure ci si muove con mezzi propri per ritrovarsi poi nello stesso settore?
Solitamente ci sono sempre pullman a disposizione per andare in trasferta, servizio che viene offerto dal Club ma per il quale sono i barras che si fanno pagare (per guadagnare qualche soldo extra). Un gran numero di gente si muove invece con mezzi propri. Si organizzano macchinate o pullmini con amici e tante volte, per evitare problemi con le stesse barras (rivalità con la barra brava della squadra avversaria oppure faide all’interno della propria barra) tanta gente preferisce muoversi da sola in autobus, in treno o in metropolitana e poi, al ritorno, finisce per montare sul pullman della propria barra o magari si riesce ad avere qualche passaggio da chi è arrivato con mezzi propri.
17) Sappiamo dal tuo blog che spesso si creano forti rivalità all’interno della stessa tifoseria, tra “barras” diverse che seguono la medesima squadra o addirittura all’interno della stessa “barra”, con conseguenze che a volte si trascinano per lungo tempo e possono avere addirittura risvolti drammatici: perché avviene tutto questo? Cosa si potrebbe fare, secondo te, per limitare o magari eliminare del tutto questo fenomeno che ha provocato spesso anche dei morti?
Il fenomeno delle faide interne è un fenomeno relativamente nuovo nel mondo delle Barras. Originariamente c’era un leader carismatico che riusciva a controllare tutto e tutti. Basti pensare che solo La 12 de El Abuelo riusciva a guadagnare soldi per il semplice fatto di esistere, senza fare niente di particolare. Poi, anche gli altri hanno iniziato a copiare quel modello e le Barras hanno cominciato a crescere esponenzialmente. Il principio ispiratore era “più siamo, più potere abbiamo e più otteniamo”, ma bisognava iniziare a dividere i guadagni con sempre più persone e, come in tutti i “business”, dove ci sono i soldi ci sono anche le lotte per ottenere ancora più soldi e più potere, perché essere il leader di una Barra ti fa conquistare anche un certo prestigio sociale. I giornali parlano di te, diventi un personaggio famoso, etc. Quindi le seconde o terze linee, prima o poi, vorranno sempre tentare il colpaccio e se la leadership non è solida, inizieranno tutte quelle faide interne che coinvolgono gente che a volte fa parte della stessa barra ma, altre volte, viene anche da fuori, dal mondo della malavita organizzata.
Rafa Di Zeo, storico leader de La 12, diceva: “Tu pensi che con me in galera, con tutti i barras in galera, la violenza sparisce dal calcio? No! perché questa è una scuola di vita! È eredità! Eredità! Eredità! E continuerà per sempre, perché il calcio è cosi. La violenza non la generiamo noi, solo succede, è lì nel calcio. La polizia può organizzare un bel servizio d’ordine, ma se sbagliano e si trovano fronte a fronte due barras, succede! E questo non finirà mai!”.
Questo fenomeno, purtroppo, non si può eliminare, perché ci sono interessi condivisi da tutte le parti coinvolte in questo sistema: dalle barras bravas, dalle dirigenze dei Club, dai politici e dalla polizia (ad esempio, un buon leader barra brava deve avere ottimi rapporti con la polizia altrimenti finisce subito in galera, quindi dovrà sganciare anche dei soldi e dividere parte dei guadagni con le forze dell’ordine). L’unico fattore che può limitare questo fenomeno e renderlo, diciamo così, più democratico, è una giusta ripartizione degli introiti, una sorta di “Socialismo da Stadio”. Se entrano in 100 ce ne deve essere per tutti e bisogna tenerli sempre buoni e contenti, altrimenti si rischia che qualcuno provi a scalare posizioni e tenti il colpaccio per conquistare la leadership.
A proposito di questo fenomeno, ti racconto un aneddoto molto esemplificativo.
In uno dei miei ultimi viaggi a Buenos Aires sono andato a vedere una partita in casa di una delle tifoserie più importanti della capitale, condividendo il prepartita in piazza e la partita all’interno della curva assieme al loro capo, il quale mi ha raccontato come, dopo che avevano tentato il colpo al vertice nella sua curva, arrivando addirittura ad ammazzare suo fratello (!), lui sia tornato e si sia ripreso il comando della sua barra brava.
Per capire come ci sia riuscito basta semplicemente tenere conto di questa sua affermazione: “Qui non ci sono più problemi perché tutto viene diviso”. Lui ha stabilito una gerarchia all’interno della propria barra che si basa sul principio della meritocrazia, dove si viene considerati di più o di meno a seconda di quanto si è presenti in casa ed in trasferta al seguito della squadra; o in base a quanto si partecipa attivamente alle attività della barra e del Club stesso, o anche in base al coraggio e all’audacia dimostrata negli scontri con altre barras o con la polizia. Certo, stando a questo principio sono sempre i componenti della “cupola” a guadagnarci di più, ma alla fine ce n’è sempre per tutti, anche per i ragazzini che vanno lì da poco tempo e che, se si danno da fare, un biglietto per lo stadio e per il pullman delle trasferte, un panino gratis e una maglia o una tuta della squadra, non mancheranno mai.
18) È opinione diffusa in Italia che le “barras” argentine siano ambienti molto “caldi” ma anche molto pericolosi dove, a chi non è del quartiere e vuole osservare da vicino queste realtà, è spesso sconsigliato di recarsi nelle curve, a meno che non sia accompagnato da qualcuno che conosce bene l’ambiente: quanto c’è di vero e quanto di esagerato in questo tipo di affermazioni? Cosa consiglieresti tu a chi desidera assistere ad una partita di calcio nel settore più caldo di una “cancha” argentina?
Questo tipo di affermazione è in parte vera. Diciamo che si può tranquillamente andare in una curva senza problemi, anche se difficilmente si riuscirà ad andare in curva al Monumental o a La Bombonera, visto che reperire un biglietto è difficilissimo e, di conseguenza, bisogna avere per forza gli agganci giusti per trovarlo. Se non si hanno già contatti in loco e si riesce comunque a trovare un biglietto, il consiglio che do è quello di stare tranquilli e godersi lo spettacolo. Evitare di andare nella zona in cui si posizionano i capi della barra e muoversi con discrezione, facendo attenzione a non scattare foto ravvicinate ai boss della curva.
Se siete a Buenos Aires, vi consiglio di andare a vedere qualche partita del Ascenso (Serie B Nacional, B Metropolitana, Primera C o D) evitando però quelle dell’estrema periferia e le zone notoriamente più pericolose, a meno che uno non ci vada in gruppo (di solito negli Ostelli si organizzano trasferte con ragazzi tedeschi e del resto dell’Europa che viaggiano spesso con il solo scopo di fare il tour degli stadi). Un’altra raccomandazione importante è quella di girare con poca roba addosso (orologi, braccialetti, catenine, etc.) ed essere sempre cortesi con la polizia; salutare sempre in maniera gentile il personale in divisa, prima di essere perquisiti, vi può aiutare ad evitarvi rotture di scatole per il telefono oppure per le pile della macchina fotografica.
Per qualsiasi altra informazione, o anche solo per aiutarvi ad organizzare meglio il vostro viaggio, potete contattarci tranquillamente tramite la pagina Facebook del nostro blog, Vamo’ Lo’ Pibe’. Se possiamo darvi una mano, lo faremo volentieri.
19) In Italia il movimento ultras nasce e si sviluppa tra la fine degli anni ‘60 e la fine dei ‘70, per poi esplodere definitivamente all’inizio degli anni ‘80 quando la presenza di gruppi ultras era diffusa in tutto il Paese e in tutte le categorie e sport, oltre che nel massimo campionato di calcio. Lo stile dell’ultras italiano delle origini era lo stesso che si poteva trovare all’epoca nelle piazze delle città in cui, in quegli stessi anni, avevano luogo le tante manifestazioni di protesta e di rivendicazione sociale che hanno caratterizzato e segnato l’Italia durante quel decennio. L’ultras italiano era quindi, fin dalle sue origini, “oltre” e “contro” il sistema e l’ordine costituito, caratterizzandosi con una precisa connotazione politica, di sinistra o di destra.
Sappiamo che in quegli stessi anni anche l’Argentina viveva gli stessi fermenti giovanili che però, purtroppo, la giunta militare che prese il potere in quel periodo finì per reprimere nel sangue, dando vita ad una delle più grandi tragedie del secondo dopoguerra, con oltre 30.000 persone (quasi tutti giovani) fatti sparire nel nulla sotto gli occhi indifferenti (se non quando complici) dei governi occidentali, tra cui anche quello italiano (che per inciso, poco o nulla fece per i propri concittadini “desaparecidi”): che tu sappia, ci furono stadi in cui il pubblico o le stesse “barras” approfittarono dell’effetto cassa di risonanza offerto dalle migliaia di spettatori presenti per protestare apertamente contro la dittatura militare? Ti risulta che tra i desparecidos dell’epoca ci fossero anche personaggi noti di qualche “barra”, oppure giocatori o dirigenti delle squadre di calcio?
A differenza dell’Italia i “Barras Bravas” non erano un movimento giovanile organizzato e strutturato come lo erano già i primi Ultras italiani. Si trattava più che altro di gente che si ritrovava nelle strutture del Club per fare sport o semplicemente per bere qualcosa e che poi alla domenica seguiva la propria squadra del cuore.
Al contrario, i movimenti giovanili, quasi tutti di sinistra, li potevi trovare solo all’interno delle università.
I Barras, quindi, erano persone che seguivano la squadra e basta. Solo poche tifoserie avevano a che fare con la politica ed erano tutte orbitanti nell’area del PJ (Partido Justicialista, quello fondato da Juan Peron). In particolare si trattava de La 12, e di quelle di squadre come Rosario Central, Chacarita e Nueva Chicago.
L’unico episodio che si può ricollegare ad una qualche forma di protesta contro la dittatura avvenne il 24 ottobre 1981, nel quartiere di Mataderos, dove il Nueva Chicago leader della Primera B affrontava il Defensores de Belgrano. Nell’attesa che avesse inizio il secondo tempo, un gruppetto di tifosi del Nueva Chicago iniziò a cantare in curva la “Marcha Peronista” che all’epoca era stata vietata dalla dittatura, la polizia iniziò a reprimere e arrestò 49 persone. Siccome mancavano i mezzi per portarli al più vicino commissariato, i poliziotti cominciarono a prenderli a bastonate e, effettuando una carica, li portano di corsa fino a destinazione. Alcuni di quei tifosi furono liberati dopo 2 o 3 giorni ma 9 di loro vennero trasferiti presso il carcere di Villa Devoto e si fecero addirittura 30 giorni di galera, prima di essere rilasciati. E comunque stiamo parlando di una protesta contro la dittatura avvenuta nel 1981, quando i militari erano al governo già dal 1976.
Nel 1982 scoppiò la guerra delle Malvinas e le tifoserie argentine cominciarono a cantare cori contro l’Inghilterra. Poi, nello stesso anno, arrivarono i Mondiali di Spagna e il governo militare decise di organizzare un aereo con Barras Bravas al seguito della nazionale argentina. Il leader di quella spedizione era “El Negro Thompsom”, della barra del Quilmes, e l’obiettivo era più che altro cercare di allontanare con la forza le proteste degli “exiliados”, esuli che erano scappati dall’Argentina e vivevano in Spagna o in altri paesi dell’Europa, che avrebbero potuto approfittare delle partite della nazionale albiceleste per esporre striscioni di protesta contro la dittatura militare.
Se parliamo invece di “Pibes” desaparecidos, l’unico riconosciuto ufficialmente fu Marquitos Zucker. Marquitos era figlio di Marcos Zucker (attore comico molto famoso in Argentina), ed era un pibe del Bajo Belgrano, militante del Peronismo e membro dei Montoneros (il braccio armato e più combattivo) che seguiva sempre il Defensores de Belgrano. È stato sequestrato dai militares nel 1977 e liberato dopo 46 giorni. Scappò in Brasile per poi andare in Spagna, ritornò in Argentina due anni dopo ma la dittatura non gli diede una seconda opportunità. Con molta probabilità sarà stato detenuto, e forse giustiziato, all’ESMA (Escuela de Mecanica de la Armada) dove oggi sorge il Museo della Memoria, proprio di fronte allo stadio del Defensores de Belgrano, la cui curva del “Dragon” nel 2001 è stata intitolata proprio a Marquitos Zucker. Dal 2004, un Murales con il suo volto ne custodisce l’ingresso.
Di dirigenti “desaparecidos” non se ne è mai avuta notizia, anche perché in quel periodo i dirigenti delle squadre di calcio generalmente andavano molto d’accordo con i militares. Infatti, i “milicos” aiutavano i Clubs a costruire palestre e piscine con l’idea di tenere i ragazzi occupati con lo sport, in modo da evitare di farli “cadere” nel mondo della politica.
Per quello che riguarda gli atleti Desaparecidos, il calcio è quello che conta meno vittime, a differenza del Rugby solitamente praticato da studenti universitari e quindi con una più alta percentuale di potenziali “sovversivi” da eliminare (emblematico il caso della squadra di rugby di La Plata, quasi del tutto desaparecida). Esistono però almeno tre casi di calciatori desaparecidos ma l’unico che ancora può raccontare la sua terribile esperienza è Claudio Tamburrini, portiere del Club Almagro, squadra della Primera C, all’epoca studente di filosofia e affiliato al Partito Comunista, sequestrato il 23 Novembre 1977 riuscì a fuggire dopo 120 giorni di prigionia. Paradossalmente, festeggiò la vittoria della nazionale di calcio argentina ai Mondiali del ‘78. A tal proposito affermò che “è stato l’unico momento nel quale mi sono sentito davvero libero!”. Visse nascosto per parecchio tempo e, finalmente, nel 1979 riuscì a fuggire in Brasile, dove arrivò con lo status di rifugiato politico, per poi partire alla volta di Stoccolma. Mentre imparava la lingua svedese e riassaporava il piacere di sentirsi libero, fece un provino per la squadra dell’AIK Stoccolma, nel 1980, ma siccome dopo 2 anni passati senza allenamenti ancora non era in forma, venne girato ad una squadra di quarta serie. Dopo un solo anno fu ripreso in considerazione dalla squadra della capitale svedese e riuscì a giocare anche qualche partita nell’AIK. Quasi in contemporanea gli comunicarono la possibilità di poter completare gli studi di filosofia e così decise di lasciare il calcio per riuscire a laurearsi. La sua storia venne raccontata in un film del 2006 dal titolo “Cronicas de una Fuga” (Cronaca di una fuga, che si dovrebbe riuscire a trovare in rete, in lingua italiana) e il suo ruolo venne interpretato dallo stesso protagonista de “I diari della motocicletta” (film argentino che racconta la storia del viaggio in moto di Ernesto “Che” Guevara attraverso il Sudamerica).
Diversa sorte, invece, per Luis Ciancio una giovane promessa del Gimnasia La Plata. Luis giocava nella squadra “Primavera” del club platense e lavorava negli uffici della Vialidad Provincial (paragonabile alla nostra Anas, praticamente quelli che fanno le manutenzioni delle strade provinciali). Sequestrato il 7 Dicembre 1976, proprio davanti agli uffici in cui lavorava, lo stesso giorno fu fatta sparire anche sua moglie (avevano un bimbo piccolissimo che per fortuna era rimasto dai nonni). Luis è stato detenuto nel centro clandestino di detenzione El Pozo de Banfield, fucilato con tre spari e sepolto come “NN” (ossia, persona non identificata) presso il cimitero di Avellaneda. Il suo cadavere è stato riesumato e identificato nel 2009.
L’unico calciatore “professionista” desaparecido, di cui si ha notizia, si chiamava Carlos Rivada ed era un attaccante del Huracan de Tres Arroyos (località a circa 550 km da Buenos Aires). Sequestrato la sera del 2 Febbraio 1977 dopo la partita tra Huracan de Tres Arroyos e Estacion Quequen di Necochea valevole per il Torneo Regional, fu “prelevato” assieme a sua moglie Maria Beatriz Loperena e ai suoi due figli, un bimbo di 3 anni e una bimba di 4 mesi. I piccoli furono abbandonati all’ingresso del Hospital Pirovano di Buenos Aires, a 550 km di distanza da dove erano detenuti Carlos e sua moglie, dei quali non si è mai più saputo niente. Carlos, oltre a giocare a calcio, studiava ingegneria presso l’università di Bahia Blanca.
Purtroppo, dobbiamo segnalare anche la presenza di due persone legate al mondo del calcio che hanno partecipato alla repressione. Uno di questi fu Edgardo “El Gato” Andrada, portiere del Rosario Central, lo stesso che subì il gol numero 1000 messo a segno da Pelè. “El Gato” Andrada collaborava con la polizia, faceva l’informatore e guidava i furgoncini con i quali venivano sequestrate le persone che il regime militare considerava “sovversive”. Quando hanno scoperto il suo passato, i dirigenti del Rosario Central, dove lavorava come preparatore dai giovani portieri, gli hanno chiesto di dare le dimissioni.
Altro personaggio oscuro era Juan de la Cruz Kairuz, nato nel Tucuman, che in un’amichevole a soli 16 anni aveva annullato Pelè. Venne acquistato dall’Atlanta, squadra in cui giocò per diversi anni prima di trasferirsi al Newell’s Old Boys per poi finire nel San Martin de Tucuman. Iniziata la carriera di allenatore nel 1976, allenava l’Atletico Ledesma de Jujuy nel Torneo Nacional A, allenatore di giorno e collaboratore della polizia militare di notte, fu uno dei sequestratori dei quattro operai del Ingenio Ledesma (importante azienda che lavorava nel campo dello zucchero). Segnalato come repressore e condannato ad una pena minima, continua ad allenare squadre importanti del Torneo Argentino A e B, tutte della zona Nordovest dell’Argentina, dove abita e dove ogni tanto viene contestato dalle altre tifoserie per i suoi oscuri ed infami trascorsi.
Nel 2004, Kairuz venne intervistato dai ragazzi dell’Atlanta per il documentario “Siglo Bohemio”, che racconta i 100 anni di vita del club (il regista è lo stesso del film El Polonio). Dopo l’uscita del DVD nel 2005 venne fuori la sua vera storia di repressore per la quale fu processato e condannato. Tutti i DVD che riportavano la sua intervista vennero ritirati dal mercato e ristampati, senza l’intervista a Kairuz che venne cancellata dal film in segno di disprezzo nei suoi confronti e di solidarietà con le vittime della dittatura militare.
20) Negli ultimi anni, attraverso libri, film e documentari televisivi, in Italia è stato rievocato e rivisitato il ricordo del Mundial ‘78, disputato proprio in Argentina, con la volontà di portare all’attenzione dell’opinione pubblica quanto avvenne all’epoca e di cui, almeno qui da noi, poco o niente si sapeva; e cioè che mentre negli stadi si giocava e si tifava come se niente fosse, nei centri di detenzione clandestini e, in qualche caso, addirittura nei sotterranei di qualche stadio, migliaia di persone venivano rinchiuse e torturate per il solo fatto di avere idee diverse da quelle dei militari al potere: cosa ne pensi del Mundial ‘78? E che ricordi hai di quei giorni?
All’epoca ero piccolo, avevo 5 anni appena compiuti, ma erano anche già 5 anni che andavo allo stadio ed è proprio a partire dal Mundial che ho i primi ricordi. Ad esempio, mi ricordo che c’era un amico di famiglia che era l’autista privato di Adi Dassler e mi regalò un pallone “Tango” (all’epoca introvabile visto che non c’era tutto il giro di merchandising che c’è adesso), un paio di scarpe da calcio originali uguali a quelle di Kempes, una borsa Adidas in cuoio (che ancora custodisco a casa di mio nonno) e una maglia Adidas ufficiale da raccattapalle. Lo stesso amico ci regalò i biglietti di tribuna per tutte le partite della Seleccion che si disputarono allo stadio Monumental (quello dove ora gioca il River), così ho visto le partite dell’Argentina contro Ungheria, Francia, Italia e la finalissima contro l’Olanda. Mi ricordo che dopo la vittoria finale siamo usciti di corsa con mio padre senza nemmeno vedere la premiazione finale, per evitare il casino del traffico, e per ricompensarmi mio padre mi regalo il disco con la marcia ufficiale e una “trompeta”, una sorta di tromba di plastica con i colori argentini simile alle vuvuzelas.
Se nel 1978 in Italia si sapeva quasi nulla di ciò che realmente stava accadendo in Argentina, anche laggiù se ne sapeva ancora poco, il regime militare era troppo forte a quei tempi e la storia dei desaparecidos era tenuta ben nascosta. I militari avevano il totale controllo dei mezzi d’informazione e non c’era controinformazione (come invece avviene oggi attraverso Internet) perciò si faceva credere al popolo argentino che si stava combattendo una guerra contro i terroristi, e che coloro che erano detenuti (prima di diventare desaparecidos), i cosiddetti sovversivi, lo erano per garantire l’ordine costituzionale e pubblico.
La gente argentina è molto passionale e il calcio è lo sport popolare, che in soli 90 minuti ti fa scordare tutti i problemi di un’intera settimana. Si lascia tutto da parte e si tifa. Se pensi ad una delle cose che ti ho detto prima, pure Tamburrini, il portiere del Club Almagro che era stato desaparecido, dopo la sua fuga dalla prigionia fu capace di esultare per la vittoria della nazionale di calcio argentina, sentendosi finalmente libero. Sono sensazioni che solo il calcio può offrire, nel bene e nel male.
I Mondiali del ‘78 sono stati strumentalizzati dalla dittatura per far credere al popolo argentino, e poi al mondo, che in Argentina si poteva organizzare qualcosa di grande e che eravamo un paese civile, uno di quelli del “primo mondo”. Non bisogna dimenticare però la complicità della FIFA che assegnò in tutta fretta all’Argentina la sede della competizione, si dice ricevendo in cambio parecchi quattrini dai militari.
A partire da qui, secondo me, inizia l’era dei mondiali moderni. Con la FIFA che si rese conto di quanto il calcio stesse diventando un business molto importante, questa fu l’opportunità per fare il cosiddetto salto di qualità. Basti pensare che da sole sedici squadre partecipanti, in pochissimo tempo si arrivò ad averne ben trentadue.
Circa i dubbi che ancora oggi ci sono sulla legittimità della vittoria finale da parte della nazionale argentina, a volte dispiace che si pensi solo al 6 a 0 contro il Perù, senza considerare che la finale contro l’Olanda terminò 1 a 1, con loro che colpirono un palo a tre minuti della fine (e lì poteva anche cambiare la storia a favore degli Orange) ma poi nei supplementari noi avemmo la meglio. E comunque quella volta l’Argentina aveva davvero una grande squadra.
21) Tornando ai tuoi ricordi relativi al Mundial del ‘78 e alla dittatura militare che opprimeva l’Argentina in quegli anni, viene spontaneo domandarsi se per caso anche la tua famiglia, oppure persone a voi molto vicine, siano state vittime o testimoni dirette della brutalità dei militari.
Per fortuna nella mia famiglia nessuno ha mai avuto problemi con la dittatura, sicuramente conta il fatto che i miei parenti non sono mai stati militanti politici e non frequentavano l’università. Però ricordo che avevamo un vicino di casa di origine italiana, cognome Galli, lui studiava psicologia, non militava in politica ma aveva delle conoscenze “sbagliate” e così fu “prelevato”. È rimasto sequestrato e torturato per circa un mese ma poi, quando hanno scoperto che non sapeva nulla e che non poteva “collaborare”, l’hanno rilasciato, visto che per loro non rappresentava un pericolo, ma con la minaccia che se avesse raccontato tutto ciò che gli era accaduto sarebbero tornati a “prelevarlo” e lo avrebbero ammazzato. Quindi quel poveretto ha dovuto inventarsi la storia che era mancato da casa perché era andato a fare un viaggio.
Con il tempo, e ormai già grande, ho scoperto che ragazzi che conoscevo quando ero bambino erano in realtà figli di desaparecidos, neonati strappati ai loro genitori (quando questi venivano sequestrati dai militari) che furono piazzati e venduti a famiglie perbene che volevano adottare bambini. Si dice che nel 90% dei casi la famiglia adottiva non sapesse che il bimbo fosse figlio di persone desaparecidas o di donne sequestrate. In molti casi, una volta scoperta la verità, gli Hijos dei desaparecidos hanno continuato a vivere con i genitori adottivi ma lottando sempre per ricostruire la loro vera identità. Può sembrare difficile da comprendere ma la verità è che, giustamente, tutti questi orfani sono cresciuti con dei papà e delle mamme che, pur non essendo quelli biologici, si sono comportati con loro come dei veri e propri genitori. Ricordo anche altri casi, come quello della mia amica Clara, i cui genitori furono “sequestrati” così che lei crebbe con i nonni materni. Da grande iniziò ad indagare assieme ad altri ragazzi e insieme scoprirono che era esistita, addirittura, una rete che trafficava in bambini nati nei “centri di detenzione clandestina”, bimbi strappati alla madre subito dopo essere nati per poi essere piazzati a parenti, amici o conoscenti dei militari che, pagando fior di quattrini, riuscivano ad evitare il fastidio della graduatoria per chi era in lista d’attesa per le adozioni ufficiali. Anche perché, in questo caso, la possibilità di adottare un bambino strappato ad una coppia di studenti universitari, rispetto all’adozione di un bambino abbandonato da genitori molto poveri (con molta probabilità di colore oppure di origini indios) consentiva di fare una scelta alla nazista, cioè di scegliere un figlio che magari fosse biondo, con gli occhi chiari, etc.
22) Infine, per concludere questa nostra chiacchierata, ti va di raccontarci qualcosa delle tue origini italiane?
Il primo della mia famiglia ad arrivare in Argentina fu mio nonno materno, Giovanni Campani. Non era un fanatico che andava matto per il calcio, penso che in 98 anni di vita sia andato solo una volta allo stadio, mi diceva sempre “cosa vai a fare allo stadio? Pensa a lavorare! L’Atlanta e il calcio non ti daranno mai da mangiare!”.
Tifava per la Juve e per la Reggiana, la squadra della città in cui era nato e cresciuto.
In realtà non ha mai voluto bene all’Argentina. Ci si era ritrovato quasi per caso, arrivato qualche anno dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale assieme ad un suo parente per rivendere un camion acquistato in Italia (a quel tempo l’industria meccanica in Argentina non era ancora sviluppata e tutti i veicoli pesanti venivano importati dall’Europa o dagli USA). Una volta arrivato nel porto di Buenos Aires, lo stato argentino gli sequestrò il camion alla dogana e a loro due fu proposto di lavorare per il governo come camionisti. Fu così che si ritrovò a girare per tutta l’Argentina quando ancora non c’erano strade asfaltate. Per lui non esistevano né il sabato né la domenica: da buon “tano lavoratore” prima di tutto veniva il dovere.
Voleva tornare presto in Italia ma mia nonna arrivò di nascosto assieme a mia madre, che all’epoca aveva appena quattro anni e a quel punto mio nonno si vide costretto a rimanere a lavorare in Argentina. Pochi anni dopo gli nacque una seconda figlia, mia zia, e poi arrivai io. Ha sempre pensato di tornare da anziano in Italia per vivere gli ultimi anni e morire nella sua Reggio Emilia ma purtroppo non ce l’ha fatta.
Per lui l’Italia era un pezzo del suo cuore ma non era né fascista né comunista, aveva solo il tricolore nella testa. Si arrabbiava se non prendevi un aereo dell’Alitalia per andare in Italia, se non compravi un’auto della FIAT, se la Ferrari non vinceva il Mondiale di F1 e per lui i treni italiani erano i migliori al mondo.
L’unica volta che litigammo fu durante i Mondiali del 1990. Eravamo in casa a vedere la partita tra Argentina e Camerun e lui esultò al gol dei camerunensi. Io lo mandai “a quel paese” e lui mi disse “l’Argentina fa cagare, è una squadretta!”, al che gli ribattei “dovresti portare più rispetto per la nazione che ti ha accolto quando sei andato via dell’Italia!”. La discussione degenerò al punto che sparò la solita frase “Nel 78 avete rubato con i militares!”, io gli risposi “facciamo cosi Nonno, io mi tolgo il ‘78 ma tu ti devi togliere il ‘34 e il ‘38, contiamo solo Spagna ‘82 e Messico ‘86 e siamo pari!”, ma lui disse che, no, le vittorie azzurre del ‘34 e del ‘38 andavano bene, allora io ribattei che se non voleva considerare la vittoria dell’Argentina del ‘78 per via dei militares, allora come si potevano considerare come vinti legittimamente i due mondiali sotto il regime fascista?
La semifinale tra Italia e Argentina, poi, fu qualcosa di speciale. Proprio quel giorno rientrava mia madre dall’Italia e sul giornale argentino c’era la foto degli undici giocatori più quella di un’immagine di Gesù. Mio nonno la guardò e mi disse: “ma gioca Batista?”, non aveva capito chi fosse il dodicesimo personaggio ritratto nella foto! Eravamo a casa nostra e al goal dell’Italia lui urlò come un pazzo, pareggio dell’Argentina e allora urlammo noi e così lui diventò paonazzo. Dopo la vittoria ai rigori andò via da casa nostra senza dire nulla, camminò a piedi fino a casa sua in mezzo alla gente che festeggiava, si chiuse in camera da letto e non ne uscì per tre giorni!
Una volta, nei primi anni ‘90, l’ultima volta che il circo della F-1 passò per Buenos Aires, mio fratello lo portò all’Autodromo. Al primo giro la Ferrari di Schumacher tirò dritto in prossimità di una curva e finì fuori strada. Gara terminata. Mio nonno si alzò e chiese a mio fratello di riportarlo a casa, visto che per lui non aveva più senso stare lì a seguire una corsa senza la Ferrari in pista, anche se mancavano ancora 75 giri alla fine.
Devo ringraziare lui e mia nonna, che mi hanno cresciuto insegnandomi l’italiano prima ancora dello spagnolo. Era troppo forte, una roccia! Non l’ho visto piangere nemmeno quando gli ho detto che era morta mia madre, sua figlia, e tantomeno al suo funerale. Un vero emiliano, di quelli all’antica, testa bassa e pedalare. Un vero duro. Per me è stato veramente un grande esempio.
Intervista realizzata da Giangiuseppe Gassi
Foto tratte dal web e dall’archivio personale di Federico “El Bohemio”