In direzione Lokomotiv
Quando metto il naso fuori dalla porta del mio ostello, una timida nebbia oscura completamente il sole rendendo il cielo grigiastro e in linea con il clima novembrino di Mosca. Come ho sommariamente detto nel pezzo su CSKA-Roma, per me questa è la terza volta nella Capitale russa, ed avendo ormai visitato la stragrande maggioranza dei luoghi d’interesse posso buttarmi a capofitto in un’altrettanto bella, quanto dispendiosa, analisi visiva di quello che Mosca è nel suo significato intrinseco.
Non che generalmente non mi soffermi ad osservare comportamenti e peculiarità dei posti che visito, ma l’itinerario che mi sono prefisso quest’oggi mi darà certamente modo di incamerare altre informazioni e altre “nozioni” su quella che, a più riprese, è stata la città più importante di diversi imperi e che ancora oggi si presenta sulla bilancia degli equilibri internazionali con un importante peso specifico.
Come di consueto non può mancare il calcio alla base della mia escursione. Nel 2014 ebbi modo di raggiungere la Khimki Arena, all’epoca deputata ad ospitare le gare interne di CSKA e Dinamo in attesa della costruzione dei rispettivi stadi di suddette società. Non ne rimasi certo impressionato. Anzi. Una vera e propria cattedrale nel deserto, dagli spalti aridi e dalla scarna partecipazione del pubblico. Eppure, quegli esili temporanei sono serviti come il pane ai russi per organizzarsi in vista dell’ultimo mondiale, allorquando l’inaugurazione dei nuovi impianti ha offerto dei veri e propri gioiellini. In cui, peraltro, il tifo non è mai stato messo a repentaglio.
Che poi i nostalgici come il sottoscritto preferiscano di gran lunga i vecchi, fetidi e decadenti stadi sovietici è un altro discorso. Ma ragionando con logica sarebbe di una cecità spaventosa comparare i metodi di costruzione e concezione italiani (vedasi Juventus Stadium) a quelli autoctoni. E questo non perché l’erba del vicino debba essere per forza la migliore, ma perché è evidente come nel Belpaese ormai si faccia a gara ad ostacolare lo sviluppo e la vita del tifo organizzato: settori ospiti sempre più esosi e distanti dal campo, progetti per stadi nuovi dove si pensa esclusivamente alla zona vip o lounge e mai (sottolineo mai!) a facilitare l’accesso degli unici che sulle gradinate ci vanno sempre: i tifosi di curva.
La prima tappa mattutina è il Centralnyj stadion Lokomotiv, posto nella zona est della città e casa della Lokomotiv Mosca dal 1935. Il club, come si evince facilmente dal nome, è stato per anni (e lo è in parte ancora oggi) legato al Ministero dei trasporti, con un grande apporto proveniente dai ferrovieri che, agli albori della sua vita, fornivano alla società decine di giocatori dei circoli dopolavoro. L’apertura dell’impianto avvenne nel 1935, con il nome “Stalinets”. Tuttavia già nel 1966 fu oggetto di importanti lavori di ammodernamento e, infine, nel 2002 venne completamente ricostruito nella forma attuale. Da qualche anno, per ragioni di sponsorizzazione, il nome ufficiale è divenuto “RZD Arena”. Naming legato agli ingenti finanziamenti “piovuti” delle ferrovie russe (Rossiyskie Zheleznye Dorogi) per i lavori del 2002.
La stazione metro Cherkizovskaya è posta proprio dietro lo stadio. In una zona semiperiferica, in cui spiccano palazzoni in stile socialista e diversi mercati ancora mezzi vuoti, che si andranno a riempire verso l’ora di pranzo. Ne approfitto per prendere d’assalto uno dei tanti forni gestiti da azerbaigiani (o caucasici in generale), in cui mando giù una frittella di formaggio per qualche rublo e mi avvio verso l’entrata dello stadio.
Il grande miscuglio antropologico dovuto all’impero zarista prima e al comunismo poi, fanno sì che ci siano settori della società russa occupati quasi sempre dalle stesse etnie. Quando si parla di cibo state pur certi che su dieci ristoranti/chioschi almeno cinque saranno di origine caucasica, pronti ad offrirvi ottimi e bollenti khinkali (un tipo di raviolo diversamente riempito tipico di quelle zone, che fa da contraltare ai più prettamente russi pelmeni). Se invece vi doveste imbattere in venditori di tessuti, le origini si sposteranno ancora più ad Est. Al mercato di Izmailovo, ad esempio, è facile scambiare chiacchiere e pensieri con ragazzi dal chiaro DNA centro-asiatico: uzbeki, kazaki, tagiki e turkmeni ormai figli dell’ultra centenaria russificazione delle proprie terre. Non è un caso che giustappunto nei loro Paesi sia passata per millenni e passi tutt’oggi la Via della Seta.
La Lokomotiv Mosca è stata storicamente il club più debole della città. Solo con la dissoluzione dell’URSS e l’istituzione di un nuovo campionato nazionale i Železnodorožniki (ferrovieri) sono riusciti ad emergere, conquistando tre titoli e partecipando con una certa regolarità alle competizioni europee.
All’ingresso c’è un tizio della sicurezza. Inizialmente mi nega l’ingresso con un secco “Niet”. Decido di utilizzare un vecchio trucchetto che diverse volte ho letto nei libri di Tiziano Terzani sui suoi viaggi nell’ex Unione Sovietica. Tiro fuori la tessera stampa e dico: “Ital’yanskayapressa” (stampa italiana). Lui guarda il tesserino e mi dice “Pryamoy” (dritto), indicandomi l’ingresso della tribuna stampa. Una cosa praticamente senza senso, se si pensa che oggi qua non ci sarà nessuna partita e lo stadio è di conseguenza chiuso (tribuna stampa compresa!). I cancelli sono infatti serrati. Provo a girare tutto il perimetro, passando diverse volte davanti al vecchio treno a vapore che accoglie i tifosi dall’ingresso principale. Ma niente!
Alla fine decido di entrare dall’unica porta aperta, vale a dire quella della palestra. Spiego che vorrei semplicemente visitare lo stadio per fare qualche foto e scrivere un articolo per un giornale italiano. Ovviamente la comunicazione è pessima e la bella signorina della reception cerca di aiutarmi come può, ma tra inservienti e vigilantes è tutto un “Niet” o “Ya ne znayu” (non lo so). Ok, ringrazio ed esco estenuato, accontentandomi delle foto fatte dall’esterno.
Ormai ho imparato una cosa fondamentale dei russi: quando ti ficchi nel classico mix di incomprensione linguistica e indolenza lavorativa è meglio voltare le spalle e andarsene. E pensare che a Mosca queste “credenziali” sono anche minori rispetto al resto del Paese.
Chi si ricorda la Torpedo?
La seconda tappa giornaliera è lo stadio della Torpedo Mosca. Destinazione che mi incuriosisce molto, essendo praticamente l’ultimo impianto moscovita ad aver mantenuto la forma originaria, non essendo stato interessato da nessun restyling.
Dalla zona nord-est della città mi sposto così a sud, con l’ormai immancabile tragitto nell’efficientissima metropolitana. Altra prerogativa dei locali è quella che ho ribattezzato “siesta in movimento”: durante i viaggi, spesso lunghi, sull’underground locale i moscoviti sono infatti soliti addormentarsi. Uno strano effetto soporifero (da cui vengo sovente contagiato) che pervade stazioni e treni, producendo occhi chiusi in buona parte del vagone. Salvo poi scattare in piedi per scendere precisamente alla propria fermata.
La mia è Avtozavodskaya, che in italiano significa letteralmente “fabbrica di automobili”. Non è un caso che proprio là vicino sorga lo stadio della Torpedo. Il club – fondato nel 1924 come Proletárskaya Kúznitsa (Forza Proletaria) – assunse l’attuale nome soltanto nel 1936, sei anni dopo esser diventato di proprietà della Avtomobilnoe Moskovskoe Obscestvo, azienda statale che si occupava della produzione di camion e macchine. Come per la stragrande maggioranza dei club panrussi, anche i bianconeri sono dunque la propaggine sportiva di un ente legato allo Stato.
Se oggi ai novelli calciofili la Torpedo Mosca appare come un nome anonimo o sconosciuto è soltanto perché dopo la caduta dell’Unione Sovietica e il distaccamento dalla storica proprietà, il club ha avuto un importante declino, conoscendo – qualche anno fa – la prima retrocessione in seconda divisione della sua vita. Ma la storia degli Avtozavodtsev (produttori di macchine) ha marciato per anni assieme a quella dei vertici calcistici sovietici. Oltre ai tre campionati conquistati, alle storiche battaglie con Spartak e Dinamo e alle reiterate apparizioni europee, con la maglia bianconera hanno militato vere e proprie colonne di quella compagine che nel 1960 vinse gli Europei e sei anni più tardi sfiorò la finale dei Mondiali in Inghilterra: il capitano Voronin, Metreveli, Ivanov. Nonché Eduard Streltsov, leggenda del calcio russo a cui oggi è dedicato il nome dello stadio.
La figura di Streltsov è ammantata di un’aurea mitologica non solo per le sue prestazioni sportive, ma anche per il suo storico rifiuto di trasferirsi al CSKA e alla Dinamo, squadre controllate rispettivamente dall’Armata Rossa e dal KGB. Scelta che – assieme a un atteggiamento irriverente tenuto in occasione di una festa al Cremlino – gli valse cinque anni di lavori forzati in una miniera siberiana. Decisione foraggiata da una falsa dichiarazione che il calciatore fu costretto a firmare e in cui “confessava” di aver commesso violenza carnale ai danni di una ragazza proprio in occasione di quella festa. In molti associano la sua morte per cancro, avvenuta nel 1990, alle misere condizioni patite durante la permanenza nel gulag.
La sua statua campeggia all’ingresso dello stadio, in un complesso dal sapore tipicamente socialista. Il campo è posto esattamente a valle di un parco polifunzionale, dove tutto sembra esser rimasto fermo agli anni ottanta. Dai giochi per i bambini alle costruzioni prefabbricate che oggi ospitano lo shop del club (ovviamente chiuso, malgrado sul sito sia indicato il contrario). Tutto attorno spiccano i murales, probabilmente realizzati dai tifosi. Malgrado il declino, la Torpedo conta infatti sull’appoggio dei suoi fedelissimi supporter, con una frangia ultras conosciuta in Russia per la sua intransigenza.
Osservo e scatto, camminando attorno al perimetro del campo da gioco, gettando uno sguardo al malinconico letto della Moscova – che qua si riempie di orribili ciminiere dall’intenso fumo bianco – e riconquisto lentamente l’uscita. Il solito guardiano armato di metal detector, grosso colbacco e aria smaccatamente scocciata mi guarda impassibile, quasi a chiedersi cosa ci faccia uno straniero da quelle parti. Intanto il freddo è leggermente aumentato, mentre dirigendomi verso la stazione della metro penso a quanto il forte odore di smog sia costante in questa città dalle vie grandi come autostrade e dalle centinaia di macchine e mezzi pesanti intenti a percorrerle a ogni ora del giorno e della notte.
Ultima stazione: Spartak!
Sono le 16 e il sole già comincia a dar segni di cedimento. Devo ancora pranzare, passare sull’Arbat (la via dello shopping) per riportare qualcosa di commercialmente pacchiano a casa e poi raggiungere l’ultima meta odierna: lo stadio dello Spartak, dove stasera i padroni di casa ospiteranno i Rangers Glasgow per l’Europa League.
Una sfida dall’alto contenuto storico-calcistico se si pensa ai due club in questione.
Lo Spartak è per eccellenza il club più amato/odiato di Russia. Nonché la prima squadra moscovita in fatto di titoli. Sono 12 i campionati sovietici vinti e 10 i successi festeggiati nell’attuale Prem’er-Liga (l’ultimo due stagioni fa, sotto la guida tecnica dell’ex difensore atalantino Massimo Carrera, dopo ben sedici anni di digiuno).
Questa sua popolarità, oltre che ai successi sportivi, è fortemente legata alla sua estrazione sociale. A differenza degli altri club cittadini, riconducibili a marchi di aziende statali o settori militari, i krasno-belije (biancorossi) vennero fondati nel 1922 dai dirigenti di un sindacato operaio, che nel celebre e ribelle schiavo romano Spartaco aveva individuato il proprio nome, dopo aver consultato degli opuscoli tematici redatti dallo scrittore italiano Raffaello Giovagnoli. È simpatico, dunque, constatare come un pizzico d’Italia sia nel DNA del club. E come proprio un nostro connazionale sia stato l’artefice del ritorno al successo per lo Spartak.
Non è un caso, quindi, che il principale soprannome con cui la squadra è conosciuta in patria sia Narodnaja komanda: letteralmente “squadra popolare”. Mentre alla lunga sponsorizzazione di una nota fabbrica di scatolame sovietica si deve un altro nickname: mjaso, che significa per l’appunto “la carne”.
Sempre analizzando l’alone storico con cui occorre confrontarsi quando si parla dello Spartak, menzione va fatta dell’episodio sicuramente più tragico e cruento cui il club è legato: la tragedia del Luzhniki, di cui ho ampiamente parlato nell’articolo di CSKA-Roma e in cui morirono 66 tifosi. Il fango sotto cui questa vicenda restò per molti anni ha logicamente favorito lo sviluppo di una fortissima memoria collettiva presso i supporter biancorossi, che ogni anno ne ricordano la triste ricorrenza.
Al Luzhniki è legata anche la stragrande maggioranza della gara disputate dallo Spartak. Prima dell’inaugurazione della Otkrytie Arena il club non aveva mai avuto uno stadio proprio, sfruttando quasi sempre quello più grande e famoso di Mosca. Trascorsi che hanno ovviamente lasciato un legame emotivo a tutti i tifosi, sebbene siano stati ben lieti di metter piede in un impianto tutto loro. Peraltro colpisce il fatto che il governo abbia deciso di concedere il terreno per la sua costruzione a titolo totalmente gratuito.
Arrivarci non è propriamente la cosa più comoda di questo mondo. La stazione Spartak – aperta nel 2014 – si trova quasi alla fine della Linea Tagansko-Krasnopresnenskaja, nella parte nord-ovest della città, dove sorge l’aeroporto di Tušino: un impianto usato con una certa frequenza dai sovietici durante la Guerra Fredda per pubblicizzare e sperimentare prodotti legati all’aviazione socialista.
Oltre alla lunghezza del viaggio (quasi un’ora dal centro) riesco anche a sbagliare l’uscita dalla stazione della metro, percorrendo buona parte di una strada totalmente opposta alla mia direzione. Provo ad interpellare gli steward, che stranamente parlano anche inglese. Ma le eccezioni finiscono qua. Il loro compito è meramente di auto-traduzione: “I don’t know”.
Mancano quaranta minuti al fischio d’inizio e solo una fortunosa interpretazione di un’indicazione in cirillico mi rimette sulle retta via. Con passo accelerato di chi è imbottito come l’omino Michelin per contrastare il vento che stasera spira gelido, riesco finalmente a guadagnare l’accesso quando mancano dieci minuti all’avvio delle ostilità.
Lo stadio è molto bello, costruito sul modello di quanto già visto al Luzhniki il giorno precedente. Nessuna barriera, nessun check-point eccessivo (ma uno fatto bene), curva di casa dotata di postazione per lanciare i cori e dove gli ultras sono vistosamente liberi di fare ciò che vogliono e manto verde in perfette condizioni.
Certo, non ci sarà il tutto esaurito. C’è malcontento tra il pubblico dello Spartak. Il recente esonero di Carrera ha fatto letteralmente inviperire i supporter moscoviti, legati visceralmente al tecnico di Sesto San Giovanni. Gli stessi hanno visto quest’atto come un attacco al presente e al futuro del club, non nascondendo la propria contrarietà con proteste “vocali”, scritte e plateali nei confronti del presidente Fedun e della dirigenza in generale, accusata di voler scaricare su Carrera tutte le responsabilità per un’inizio di stagione deludente, che però avrebbe tra le proprie cause tutte le componenti del club.
Ma oltre al discorso tecnico, il rapporto tra gli ultras e l’establishment societario sembra essere ai ferri corti nel complesso, come si intuisce da un comunicato unitario fatto uscire dal tifo organizzato biancorosso proprio qualche ora prima della gara (e per cui ho affidato la traduzione a Google, quindi abbiate pietà di me se qualche frase non sarà molto fluente):
Preferendo fare piuttosto che parlare, questa volta siamo costretti a ritirarci da questa regola, a causa di pettegolezzi e pettegolezzi riguardanti la nostra posizione su ciò che sta accadendo nella squadra, attorno ad essa e allo stadio.
La nostra posizione è stata sviluppata non in base agli “addetti ai lavori” e alle “informazioni accurate” di molti pseudo-giornalisti e conoscenti che perseguono il proprio interesse, spesso egoistico, ma sulle informazioni raccolte dopo numerosi incontri con tutte le parti interessate, inclusi i dirigenti e i giocatori del club (ovviamente, l’incontro con i giocatori della squadra si è svolto senza la presenza di alcuno dei dirigenti del club).
Oltre alle informazioni, così come le opinioni e gli argomenti ascoltati durante le riunioni, abbiamo maturato la nostra visione della situazione. In particolare, abbiamo ritenuto opportuno riferire alla dirigenza del club:
– la discrepanza assoluta tra la forma scelta per dare l’addio a Massimo Carrera e il contributo che lui stesso ha apportato alla nostra squadra;
– la necessità di cambiamenti fondamentali nel campo della politica di informazione del club;
– le qualità morali ed etiche dei giocatori, che consideriamo requisiti imprescindibili dei giocatori futuri o attuali della squadra;
– la necessità di cambiare la politica dei biglietti del club.Di conseguenza, abbiamo preso la decisione che al momento, momento difficile per lo Spartak, sia giusto continuare comunque a sostenere la squadra allo stadio per unire gli sforzi, il prima possibile per superare la corsia nera, in cui è entrato il nostro club.
Allo stesso tempo, ci riserviamo il diritto di cambiare la nostra posizione se non vediamo cambiamenti positivi nelle politiche di trasferimento, informazione e biglietti dichiarate dalla dirigenza del club dopo la riunione.Senza imporre la nostra posizione a nessuno e senza costringerci a seguirci, ci riserviamo il diritto di seguire il nostro corso.
Squadre PF e ULTRAS Spartak:
Sette (Scuola, Avanguardia, Alieni, Lucky Punchers, MS, Kindergarten, Druzhina, Sunrise, Sparta, Forbidden, Incognito Team, KB Regions), Boxers Team, West End, Supporters Group (Supporters Overhead, NTG , Furious Ultras, Gruppo creativo, Settore, South Crew, Scuola sportiva, IG Spartacus).
I presenti sono circa 20.000 (in uno stadio che ne può contenere 44.000), mentre dalla Scozia sono giunti in 800. Un numero più che buono e da cui avrò anche una discreta impressione. Sono onesto: non amo le tifoserie britanniche e dalle stesse, oltre a non aspettarmi niente, non pretendo davvero nulla. Eppure quest’oggi gli ospiti non si limiteranno ai classici 6/7 cori per tutti i 90′, ma si contraddistingueranno per un tifo tutto sommato costante (sempre tenendo presente la loro cultura da stadio, che non prevede cori per 90′), guidato dagli Union Bears, gruppo ultras che da qualche anno si occupa di organizzare il tifo ad Ibrox Park. Seppure si tratti di una forma alquanto embrionale, il loro sforzo è apprezzabile.
Tornando sul fronte casalingo, quando le squadre fanno il proprio ingresso in campo, la parte inferiore della curva è piena e si esibisce in una bella e fitta sciarpata, seguita dal resto dello stadio. Il tifo è sugli standard visti la sera precedente dai “colleghi” del CSKA: una buona partecipazione, con nessun momento di sosta. Permane però, anche qua, quella sensazione che manchi sempre qualcosa per mettere quella marcia in più che li renderebbe maggiormente”frizzanti” e incisivi. Forse, almeno in parte, dovremmo addurre questa sensazione alla netta differenza – se vogliamo anche stereotipata – tra popoli mediterranei e genti del profondo nord-est. Fatto che difficilmente potrà mai far collimare appieno la concezione curvaiola di un italiano e quella di un russo.
Però mi sento anche di dire che non è esattamente vero quello che pensiamo “di loro”: non stanno sulle gradinate esclusivamente per mostrare i muscoli accumulati in palestra. O almeno io non sono riuscito a vederli così in queste due serate di calcio moscovita. Ok, le loro “battaglie nei boschi” restano delle epiche buffonate, ma credo che dentro lo stadio incida di più il vero e proprio DNA. Ovviamente non comparabile neanche con i Balcani, che pur rappresentando il primo fronte slavo per noi, attingono moltissimo (sia culturalmente che a livello di vivere calcistico) da Paesi come l’Italia e la Grecia.
Questa disamina vorrei approfondirla sentendo le opinioni dei ragazzi che attualmente danno vita al movimento ultras russo. Come spesso accade c’è troppa letteratura “di rimando” sulla questione, e pochi approfondimenti fatti con i diretti interessati.
Mentre si susseguono le mie valutazioni, in campo le squadre danno spettacolo: alla fine lo Spartak avrà la meglio con un pirotecnico 4-3, facendo gioire il suo pubblico e andando a raccogliere gli applausi sotto la curva. Ovazione anche dal settore ospiti, che riconoscono alla propria squadra l’impegno profuso.
Il fatto che si giochi due ore avanti rispetto all’Italia mi fa quasi dimenticare che la partita finisca quasi alle 23. Ho un’altra ora di metro per tornare in ostello, che peraltro si dilata dovendo raggiungere la fermata precedente a Spartak per evitare la lunga fila disposta agli ingressi di quest’ultima.
Stavolta la “siesta in movimento” per poco non mi fa perdere la stazione di cambio. Il marmo sfarzoso della metropolitana sembra riflettere a giorno la luce dei lampadari dorati. Mentre decine di persona corrono letteralmente da una linea all’altra sotto lo sguardo attonito e svogliato dei vigilantes posti all’inizio di ogni scala mobile.
Ho il tempo (ma forse più la voglia) di tracannare l’ultima vodka di questo mio soggiorno russo. La mando giù con calma, per poi rientrare schivando le gocce di pioggerellina che da qualche minuto hanno iniziato a scendere.
Saluto Mosca con la certezza di farvi ritorno quando possibile. E per portarmi ancora più in là all’interno di questo bislacco Paese. Il calcio è davvero una scusa, ma ancora una volta sono convinto che aiuti a comprendere molteplici sfaccettature di una società.
A chi è arrivato fin qui: grazie per la pazienza!
Simone Meloni