C’è una luce particolare che filtra tra gli alberi del Morskata Gradina di Varna (il grande parco cittadino che dà sul mare, anche conosciuto come Sea Garden) dopo aver riflettuto sulla calma piatta del Mar Nero. Trasmette tranquillità e sembra volerti raccontare le storie infinite di questo particolare specchio d’acqua. Un luogo dove la storia d’Europa è passata e si intreccia tutt’oggi, spesso cruenta e repentina. Un mare dove si sono avvicendate battaglie e conquiste, popoli e culture. Ma anche dove – forse in pochi nel nostro Paese lo sanno – è piacevole trascorrere il periodo estivo. Con le sue spiagge bianchissime e la sua acqua azzurra, quasi caraibica in taluni tratti, questa costa si offre come valida e dignitosa alternativa ai tanti luoghi ormai letteralmente assaliti e impraticabili nella stagione più calda. E forse il mio desiderio di assistere a questo derby, che torna dopo tredici anni, nasce proprio in vacanza. Nasce vedendo le scritte degli ultras disseminate in buona parte della città e informandomi sulla storia dei due club, che rappresentano di fatto il terzo centro abitato del Paese (330.000 gli abitanti stimati) e danno vita a una stracittadina sentita e “rozza”, come il più classico dei duelli tra gente di mare.
A Varna ci arrivo al termine di un trittico che mi ha visto inizialmente presenziare al derby di Graz e successivamente a Bucarest, per la sfida di campionato tra Rapid e Farul Costanza. Senza voler fare opera di captatio benevolentiae, vi invito a leggere gli appositi racconti. Sia per seguire il filo conduttore di questa mia “escursione europea”, sia per coglierne le sfumature tragicomiche che mi hanno accompagnato. Sta di fatto che dal fastidioso freddo della Capitale romena mi allontano con uno dei tipici furgoni a nove posti utilizzati nell’est europeo. Sono le quattro del mattino e in uno dei miei fraudolenti momenti lontano da casa, dopo aver approfittato dell’ospitalità di un ostello incustodito – dove avevo dormito la notte precedente – per buttare giù le prime bozze del viaggio a computer e schiacciare un breve pisolino, proprio mentre una signorina slovacca si cimentava in una discutibile carbonara con spaghetti scotti e spezzettati (vade retro, che l’universo ti perdoni!), mi accingo a chiudere il cerchio di questa mia avventura autunnale. In circa tre ore si attraversa il confine segnato dal Danubio e si raggiunge la costa bulgara del Mar Nero. Il sole ha fatto capolino da un paio d’ore e una Varna in tenuta domenicale mi accoglie con la sua vita tutt’altro che movimentata. Ci vogliono carboidrati per assorbire la notte quasi insonne, e allora al primo forno disponibile faccio scorta di banitsa (una pasta sfoglia al cui interno ci sono di solito carne, spinaci e formaggio) e ayran (bevanda a base di yogurt, lascito degli ottomani). I sensi si riprendono completamente e, prima di espletare qualsiasi compito, non resta che incamminarmi verso il mare e dare un’occhiata a quella distesa azzurra da cui, ad occhi chiusi, posso individuare le coste romene, ucraine, russe, georgiane e turche. C’è molto della storia dell’umanità moderna – e non solo – davanti a me.
Varna è una città che affonda le proprie radici in un passato millenario. Basti pensare che camminando sul suo lungomare di tanto in tanto ci si imbatte in terme naturali, là convogliate dai romani e ancora oggi utilizzate da aitanti vecchietti che, a costo zero e con fare sornione, si godono questo spazio rudimentale con vista mare. La scorsa estate ho provato ad entrarci e solo dopo dieci minuti di sguardi sinistri uno di loro mi si è avvicinato, diventando simpatico e affabile una volta appresa la mia nazionalità. Potere di Pupo, Albano, Ricchi e Poveri e ovviamente Toto Cotugno! Si scherza (ma neanche troppo). La realtà è che la Bulgaria non è un Paese facile per chi è abituato a vacanze pentastellate e strutture lussuose. Qua il turismo estero è arrivato da poco e soprattutto nelle zone interne la gente può sembrare spesso scorbutica e indisponente. Credo che oltre a una forte vocazione contadina, paghi molto anche le ingenti difficoltà economiche in cui ancora oggi versa (la nazione è tra le più povere di tutta la UE), malgrado risorse paesaggistiche davvero immense. Sebbene poco conosciute. Personalmente sono i luoghi che più apprezzo. Senza lustrini, senza ipocrisie: meglio un’occhiataccia da parte delle signore col fazzoletto in testa, infastidite di vederti curiosare nei loro mercati, che giovanotti in giacca e cravatta che ti attirano nei locali per spendere un occhio della testa e uscire a stomaco vuoto e mente offuscata.
Tuttavia il vecchio adagio secondo cui la gente di mare è sempre più aperta difficilmente sbaglia. E questa giornata me lo confermerà ulteriormente. Parliamo di uno dei porti più importanti del Mar Nero, ma soprattutto di una città che – come detto – vanta una storia davvero di tutto rispetto. Fondata dai greci nel 580 a.C. col nome di Odessos e adibita a colonia commerciale, è famosa soprattutto per la necropoli del Calcolitico in cui gli archeologi rinvennero il più antico tesoro aureo del Mondo, chiamato per l’appunto Oro di Varna. Quando mi trovo più di un giorno in una città nuova amo andare a correre per le sue vie, al mattino presto. Proprio così mi imbatto nel bellissimo impianto termale romano che giace in una posizione leggermente rialzata rispetto al mare. Il quarto del Globo per grandezza e il più importante sito archeologico del Paese. Chi ha più confidenza con la storia, invece, abbinerà sicuramente Varna all’omonima battaglia combattuta nel 1444 tra turchi e crociati di Ladislao III di Polonia. Scontro finito con un vero e proprio massacro di questi ultimi, polverizzati dai 120.000 ottomani guidati da Murad II, che in tal modo ebbero via libera per la definitiva conquista di Costantinopoli. Dominio turco che verrà interrotto solo da quello russo a metà ‘800, quando all’interno del Principato di Bulgaria, Varna era la seconda città del Paese, alle spalle di Ruse (centro strategico situato sulle rive del Danubio, prima del confine con la Romania). In seguito alla riunificazione con la Rumelia – e dunque al completamento territoriale perlopiù attiguo alla Bulgaria moderna – furono Sofia e Filippopoli (l’attuale Plovdiv) a conquistare i primi due posti.
Ma oltre al suo ruolo chiave in ambito bellico, Varna è da sempre un centro culturale di rilievo. Non a caso qui hanno sede prestigiose accademie di balletto – dal 1964 si svolge un’importante rassegna internazionale di questa disciplina – e diversi conservatori. Lasciti, questi, di una dominazione russa che da metà ottocento fino al crollo del Muro di Berlino ha imperversato sul territorio bulgaro in modo importante. Curiosità: dal 1948 al 1956 la città assunse il nome di Stalin, cosa che – come vedremo – si riflesse anche nel calcio.
Ecco, è proprio introducendoci nell’argomento calcistico che troviamo difficoltà nel descrivere sia l’evoluzione del football che delle vicissitudini curvaiole di questa città. Spartak contro Černo More (che nelle lingue dal ceppo slavo, altro non significa che Mar Nero). In un Paese dove la corruzione è un fenomeno endemico e in cui l’universo politico e sociale degli ultimi cento anni ha conosciuto numerosi stravolgimenti, uno sport popolare come il calcio non poteva che fungere da vero e proprio specchio. Tralasciando vicende che meriterebbero articoli a parte (da squadre che nascono, muoiono, si fondono, si duplicano – al momento in massima divisione esistono due CSKA Sofia, tanto per dirne una – e vengono manovrate sfacciatamente dalla politica locale e nazionale) quando si parla di Varna e della lunga assenza del suo derby, è doveroso parlare anzitutto dello Spartak. E non per una questione di maggiore importanza rispetto ai rivali cittadini, ma per una storia recente che dice molto di come funzionino le cose in Bulgaria. Non troppo tempo fa avevamo pubblicato un’intervista agli ultras delle Sokolite (i falchi) che ci avevano raccontato la loro battaglia per far risorgere il club, finito in mani poco raccomandabili nella stagione 2007/2008. Ma partiamo dal principio.
Il sodalizio viene fondato nel 1918 col nome di Bulgarski Sokol (Falchi Bulgari), mutato poi in FC Shipchenski Sokol dopo la fusione con lo Sport Club Shipka. Nel 1932 arriva il primo – e unico – titolo bulgaro, prima che il governo costringa la dirigenza a inglobare altre due squadre cittadine: il Laveski e il Radetski, assumendo così la denominazione di Spartak Varna. Nomenclatura – è proprio il caso di dirlo – che verrà sostituita dal 1949 al 1956 dal più propagandista Spartak Stalin, mentre negli anni sessanta – dopo aver fatto convogliare in società un altro club, la Lokomotiv, il nome diventerà JSK Spartak, fino a tornare quello attuale nel 1985. Gli anni ’80, peraltro, rappresentano un periodo fortunato per i falchi, non tanto in termini di successi, quanto di ottime prestazioni e incontri europei di livello. Oltre a club con una tradizione continentale di tutto rispetto come Rapid Bucarest, Monaco 1860, Łódź, Montpellier, nella semifinale di Coppa delle Coppe del 1984, infatti, affronteranno il Manchester United. A tutt’oggi lo Spartak è l’unica squadra bulgara ad aver fronteggiato i Red Devils. In quel periodo spicca anche un terzo posto in campionato, mentre negli anni successivi frequente sarà la partecipazione all’Intertoto. Si tratta, però, del preludio al baratro. L’affacciarsi a un burrone che passo dopo passo porterà al fallimento del 2010. E qua entrano in scena i tifosi.
Nell’intervista di cui sopra, gli stessi sottolineano come a partire dalla stagione 2007/2008 il club abbia cominciato a esser gestito dal malaffare cittadino, alludendo sia alla parte politica che a quella economica. Di fatto il club sparisce e riparte dalla Terza Divisione Nord Orientale, rischiando persino di esser cacciato dal proprio stadio nel 2017. Rischio che i tifosi definiscono calcolato e voluto, per far sì che al posto del vecchio Stadion Spartak venga costruito un centro commerciale. Aggiungo, rimpolpando quanto detto in precedenza, che a queste latitudini non è propriamente facile far breccia nel cuore dei media quando incombono situazioni poco chiare ad appannaggio di “potenti” locali. E ancor più difficile è portare avanti una battaglia per difendere la tradizione del proprio club, cercando di non farla distruggere e rilanciarla solo con le proprie forze. Siamo abituati a vedere tifosi tedeschi, austriaci, scandinavi e inglesi combattere il cosiddetto “calcio industria”, aiutati anche da istituzioni e apparati sociali che non si girano dall’altra parte. Farlo in Bulgaria – come, per certi versi, farlo in Italia – richiede il doppio degli sforzi. Pertanto nessuno me ne voglia se sto dedicando tempo e spazio a questa storia, ma serve anche a capire quanto il tifoso di calcio riesca a forgiarsi persino nelle più dure avversità. Intanto è importante volerlo, questo è fuori discussione.
Ma come? Nel 2010, innanzitutto, dopo il fallimento viene fondata una squadra gestita dai tifosi e iscritta al campionato di quarta divisione. Riuscirà a incontrarsi con lo Spartak 2018, club fatto ripartire dalle incriminate autorità cittadine dalla terza divisione. Questo nuovo progetto calcistico è reso possibile anche da vecchie facce della dirigenza biancazzurra, che danno manforte a una lotta che si protrarrà per quasi dieci anni. Un situazione che man mano ha fatto scalpore nel calcio nazionale, non potendo più essere ignorata anche dai media nazionali. Nel 2017 i tifosi, di fatto, si sono “impossessati” del club, stabilendo tutta una serie di linee guida affinché la situazione degli ultimi due lustri non si ripetesse. Ciò ha portato anche alla fine dell’esilio dal proprio stadio, riconquistato in pompa magna (e ristrutturato nel 2019) e divenuto teatro della scalata alla prima divisione, riottenuta nel 2021/2022.
Ma come è notorio la lotta si paga. In termini numerici, di libertà e anche di aggregazione, soprattutto quando di fatto si è stati derubati della propria squadra e per difenderne il blasone e promuoverne una ripartenza si ricorre a ogni mezzo: manifestazioni, scontri con le autorità e massiccia campagna informativa. Appare chiaro, dunque, come per gli ultras dello Spartak il calvario patito dal 2007 sia stato un vero e proprio bivio per la propria esistenza: continuare a vivere o mollare e lasciar morire anche la propria squadra. Si è optato per la prima scelta e alla fine, malgrado difficoltà palesi, è risultata la migliore. In questo turbinio di avvenimenti è stata in particolar modo la sigla Sindicat 12 – nata per compattare tifosi semplici e organizzati – a rappresentare il fronte unitario dei falchi. Dietro questo nome, dunque, si sono riconosciuti anche tutti i gruppi: Brigade Hools – che attualmente è senza dubbio il più importante della Tribuna Sokol – , Spartak Youth, Flower Hood, SVUD e Mlados Boys 1995, il più vecchio gruppo ancora in attività -, mantenendo così un legame importante col resto della tifoseria e riuscendo a superare il periodo più nero della loro storia calcistica.
A proposito della loro tradizione curvaiola, così parlavano i ragazzi nell’intervista: “Mladost Boys ’95 è il gruppo ultras più vecchio di Varna, creato nel 1995, ma già attivo all’inizio dei Novanta. Sono stati i fondatori della cultura ultras nello Spartak Varna e per lunghi anni sono stati il motore di praticamente tutto quello che succedeva nel nostro settore, insieme a un altro gruppo che ancora esiste, seppur non molto attivo attualmente – ‘S.V.U.D.‘, nato nel 1997. Un ottimo gruppo, del tipo casual firm, creato nel 2004 è la ‘Spartak Youth’. Si sono dati molto da fare sulle tribune e per strada, esistendo (come formazione) per un arco di 10-12 anni. Alcuni dei suoi membri si fanno ancora notare di tanto in tanto. Un altro gruppo grande e con potenziale è ‘Flower Hood’, fondato nel 2007 circa. In diversi periodi hanno dimostrato di avere buona iniziativa, contribuendo allo sviluppo del settore e alla partecipazione di strada. Nel 2020 hanno cessato la loro attività di gruppo, però si vedono ancora in curva. In generale il nostro movimento ultras è in costante evoluzione, abbiamo idee e voglia di aggiornarci”. E quest’ultima frase è vera, come avrò modo di raccontare successivamente. Per quanto anche a Varna si rispecchino alcune peculiarità in voga in questo spicchio d’Europa, alcuni fattori – sfumatura politica su tutti – appaiono meno preponderanti. Qua, ancor più che nella capitale Sofia, si nota la commistione tra lo stile italiano, il folle oltranzismo balcanico e l’occhiolino storicamente strizzato all’hooliganismo inglese di vecchia data. Varna città di mare, aperta e mélange di stili e modi di pensare. Ovviamente anche allo stadio.
Varna, per l’appunto, città divisa da una rivalità accesa, che torna ad ardere dopo lungo tempo e che dall’altra parte della barricata vede i biancoverdi del Černo More, anch’essi custodi di una storia che merita d’esser raccontata e che contestualizza ancor meglio la realtà descritta. Benché la data di fondazione sia ufficialmente corrispondente al 1913, il club ha assunto l’attuale nome solo nel 1959, in seguito a tutta una serie di sconvolgimenti dovuti alla Seconda Guerra Mondiale, al cambiamento dell’assetto politico nazionale e cittadino e a numerose fusioni. Nel 1913 presso una scuola superiore viene fondato il Galata, che da lì a poco si trasforma in Reka Tiča (antico nome del fiume Kamčija, che scorre nei pressi di Varna) e successivamente, dopo essersi fuso con lo Sportlist, dà vita allo Sports Club Tiča, colori rosso e bianco (in realtà la prima divisa era composta da una camicia bianca, pantaloni neri e calzettoni bianchi. Successivamente la camicia divenne viola/beige con strisce diagonali. Solo nel 1920 il club ricevette la sua prima divisa biancorossa da un equipaggio inglese contro cui giocò un’amichevole). Nella stagione 1937/1938 il club si aggiudica il campionato.
Nel 1916, invece, nasce lo Sporting Club Napred (tradotto letteralmente “Sporting Club Andare Avanti”) che dopo un paio d’anni diventa SC Granit ma fino al 1919 non può iscriversi ufficialmente al campionato, venendo quindi considerato una costola dell’SC Tiča. Solo nel 1921 il club può “emanciparsi” e partecipare al torneo in autonomia, modificando ulteriormente il proprio nome in Vladislav Varna (in onore al re polacco Władysław III, che nel 1444 aveva trovato la morte proprio nella battaglia di Varna), colori bianco e verde e quadrifoglio come simbolo. Tra il 1925 e il 1934 la squadra conquista ben tre titoli nazionali, disputando anche campionati di vertice. Si arriva così al 1945 e alla necessità di riformare la struttura calcistica bulgara. Il proliferare di squadre cittadine non è ben visto dalle autorità, così nel febbraio di quell’anno Tiča e Vladislav sono costretti a fondersi dando vita al TV-45, divenuto dopo un paio di anni TVP-45 in seguito all’inglobamento di un altro club, il Primorec. Due anni dopo il nome cambia nuovamente, stavolta in Botev Stalin (chiari riferimenti al poeta Hrsto Botev, considerato un eroe nazionale per la sua fervente attività in favore dell’indipendenza nazionale dagli ottomani, a metà dell’ottocento, e al politico sovietico). Mentre l’ultimo, definitivo, “mutamento” arriva nel 1959 quando fondendosi con il Černo More assume l’attuale denominazione.
Questo excursus ha chiaramente generato molte dispute sulla reale data di fondazione del sodalizio, mentre gli scudetti conquistati dalle società precedenti vengono formalmente ascritti al Černo More. Sebbene all’epoca il calcio nel Paese fosse ancora in fase embrionale, viene riconosciuto al Reka Tiča il merito di aver pubblicato il primo manuale di regole calcistiche della Bulgaria. Ragion per cui il club attuale fa riferimento al 1913 come data di fondazione. Di fatto l’attuale società dovrà aspettare il 2015 per alzare un trofeo, si tratta della Coppa di Bulgaria, ottenuta battendo in finale il Levski Sofia. Storica rimane la prima partecipazione a una coppa europea, l’Intertoto del 2007, interrotta dalla Sampdoria in virtù di un doppio 1-0 (con goliardica e significativa presenza blucerchiata in riva al Mar Nero) mentre nella stagione seguente il club è eliminato al terzo turno della Coppa UEFA dallo Stoccarda. Terza e ultima partecipazione a una kermesse continentale – l’Europa League – è quella del 2009/2010, quando i varnesi sono buttati fuori, sempre al terzo turno, dal PSV Eindhoven. Come nel caso dello Spartak, parliamo di partecipazioni che sono vissute come eventi e in cui poter sfidare club storici e blasonati provenienti da Italia, Germania e Olanda, riempie di orgoglio l’intera tifoseria.
Il ricordo abbastanza nitido della gradinata dello stadio Tiča – dove i biancoverdi disputano le proprie gare casalinghe – intenta a sostenere i proprio giocatori contro la Samp, mi fa da sponda per parlare del tifo organizzato dell’altra metà di Varna. Una storia che, parallelamente a quanto successo nel resto del Paese, ha il suo primo embrione negli anni ottanta. Una modo di andare allo stadio fortemente influenzato dalla sottocultura hooligans. Un mito britannico che tutt’oggi si riflette ancora in parte, con l’Union Jack che spesso e volentieri campeggia nel bel mezzo del settore. Turbolenze al di fuori degli stadi e poca cura per tutto ciò che riguarda il tifo e l’organizzazione dello stesso, quindi. Le cose cambiano a inizio anni duemila, quando il gruppo No Surrender prova a importare tra le fila dei Moryatsite (Marinai) un modo più inquadrato di frequentare le gradinate. Poco dopo nascono i Chaika Hool’s, gruppo ancora attivo e perlopiù ispirato dalla scena inglese. Mentre di recente formazione sono Green Youngs e Seaside Boys, insegne dietro cui attualmente si raggruppa la parte più giovane della tifoseria. Sebbene in passato ci siano stati buoni rapporti con i ragazzi della Dinamo Mosca, attualmente gli ultras – che hanno unito le proprie forze dietro il nome Ultras Černo More – non annoverano gemellaggi ufficiali. Chiaramente la rivalità più grande è quella cittadina, seguita da CSKA e Levski Sofia. Esiste un rispetto reciproco con i supporter della Lokomotiv Plovdiv.
Tredici anni dopo è arrivato il grande giorno della stracittadina. L’autunno in riva al Mar Nero mitiga quello che in altre zone della Bulgaria comincia a essere un clima già meno “dolce”. Malgrado di tanto in tanto il vento trasporti qualche “simpatica” nuvola carica di pioggia, tutto sommato all’aperto si sta ancora bene e le due tifoserie possono organizzare i rispettivi cortei che raggiungeranno lo stadio dello Spartak. Un impianto aperto al pubblico nel 1964, con una capienza di circa 6.000 posti e un’aria che rimanda in tutto e per tutto indietro di qualche decennio. Tra i grigi palazzoni di periferia, gli ingressi alla buona, i muri di cinta bassi e diroccati e i fari altissimi che già si intravedono a diverse centinaia di metri. Uno stadio in pieno stile sovietico insomma, che per quanto risponda a un genere di architettura tutt’altro che incentrata sul senso del bello, contribuisce a creare un ambiente retrò e genuino.
Con tutta probabilità il movimento calcistico bulgaro è uno dei meno “sviluppati” nel Vecchio Continente, e questo ricade giocoforza anche sull’impiantistica (non che l’Italia possa permettersi grandi opere di narcisismo in tal senso, sia chiaro). E pensare che la nazionale guidata da Penev in panchina e Stoichkov in attacco, sfiorando una una finale Mondiale (inciampando sugli azzurri di Sacchi) nel 1994 e terminando la rassegna iridata al quarto posto fece credere a molti in un trampolino di lancio per un Paese che all’epoca era appena uscito dall’orbita comunista e faticava non poco a trovare una propria dimensione. Come già detto, la corruzione e il malaffare non hanno certamente favorito un’evoluzione anche in ambito sportivo (tra le tifoserie organizzate una delle cose che più suscita scalpore è la pubblicità di agenzie di scommesse presente su quasi tutte le maglie dei club e vista come cavallo di Troia per avallare ancor più gare truccate o poco limpide. Chiaramente è una vox populi, che tuttavia potrebbe avere un suo fondo di verità). E ancora oggi se ne pagano pesantemente le conseguenze. Rovescio della medaglia per il sottoscritto: partecipare a una gara di massima divisione nazionale in campi simili, con un clima senza troppi fronzoli, con asfissie mediatiche e televisive praticamente inesistenti e inservienti che ti accolgono a braccia aperte agli ingressi, è senza meno rasserenante. Del mio accredito non c’è traccia, ma la cosa non sembra preoccupare nessuno: il fido magazziniere mi apre la porta carraia e come se fosse un normalissimo Lumezzane-Pievigina entro sul terreno di gioco con a malapena una pettorina e la possibilità di andare dove voglio e fare ciò che ritengo più opportuno. Scusate la piccola soddisfazione, ma quando si è abituati ad alcuni commissari di campo italiani, tutto ciò fomenta e non poco!
Sin da metà mattinata, dunque, le tifoserie sono raggruppate nei rispettivi punti di incontro. Tra cori, birre e sfottò nei confronti dei rivali, il tempo passa fin quando non ci si incammina verso lo stadio. La polizia controlla i movimenti, ma sembra abbastanza rilassata. Benché il clima sia quello della grande giornata, la tensione sembra essere ben gestita da tutte le componenti e in questo credo che svolga un ruolo fondamentale la differente attitudine al calcio a cui sono abituato in Italia. Da noi un derby è un evento quasi religioso, nonché un eterno banco di prova per Questure che puntualmente – raffazzonando il proprio lavoro – schierano migliaia di agenti incattiviti o allo sbando, contribuendo ad alzare il livello di tensione. Vero, qua siamo in una città molto più piccola rispetto alle nostre metropoli, ma parlo anche sulla scorta del derby di Sofia, visto qualche anno fa. Con una grande differenza che però riconosco a questa sfida: le due tifoserie, rispetto alle corrispettive sofiote, non sembrano esser più interessate ad apparire nei video e sui social durante i loro cortei e il loro tifo. Tutto è commisurato, chiaro, ma nella Capitale ho avuto la vera e propria sensazione di assistere a un “evento” più che a un derby. Intendiamoci: bello dentro lo stadio, nulla da dire. Ma per spontaneità e veracità, paradossalmente ho preferito il pomeriggio di Varna!
A rendere l’idea di quanto questa sfida sia stata attesa e bramata, basti pensare che qualche settimana prima, in occasione di una partita tra le giovanili dei due club, le tifoserie hanno presenziato dando vita a qualche schermaglia. Nulla di veramente rilevante, ma pur sempre un modo per aumentare l’adrenalina e la tensione in vista del derby vero e proprio. Eventi che chiaramente ho potuto seguire solo dalla “fuga di notizie” avvenuta mezzo social e che, in un primo momento, mi aveva preoccupato circa lo svolgimento della gara senza alcun tipo di restrizione. Ragionamento da italiano ossessionato e vittima di restrizioni sesquipedali, dato che in Bulgaria (sebbene l’accordo di quest’anno tra le due società di Plovdiv affinché in occasione dei derby sia sempre preclusa la trasferta agli ospiti, conferma che ormai lo strumento del divieto sta prendendo sempre più piede ovunque) difficilmente si procede con chiusure di settori e trasferte vietate.
Sempre sul terreno del confronto con i nostri derby (che per me rimane improbo per varie motivazioni): non vi aspettate finestre agghindate con i colori delle squadre o muri ricoperti di scritte con sfottò. Palese che la commistione tra hooligans e ultras abbia pesato molto sullo sviluppo di una cultura folkloristica del tifo, fermo restando che siamo pur sempre in una zona d’Europa che non può ricalcarci in quanto a colore ed esuberanza, ma che rispondendo a radici balcaniche ha senza dubbio un’importante concezione dello sport, un qualcosa utilizzato nei decenni anche come mero strumento propagandistico e che oggi, dal suo fronte più popolare, vive una stagione inversa, dove sono i tifosi a voler dare un’immagine “ribelle” rispetto a un passato in cui sistemi perlopiù autoritari tentavano sovente di manovrare le masse per formare il sistema-Paese a proprio piacimento. Il nazionalismo, la deriva talvolta estremista a destra e il voler a tutti i costi prendere le distanze da un comunismo – vissuto a queste latitudini come prigionia – sono parte integrante di quasi tutti gli stadi del blocco orientale d’Europa. Sebbene, come accennavo in precedenza, a Varna ciò è meno tangibile rispetto alla Capitale o a Plovdiv. Sia per quanto riguarda il tifo, che per stendardi e striscioni. Attenzione: non sto dicendo che qui non esista, ma che in una città come questa passi leggermente in secondo piano.
Quando comincio a girare la pista d’atletica per capire meglio dove mettermi e respirare a pieni polmoni l’aria della stracittadina, mi imbatto inizialmente nel settore ospiti, che ovviamente ha fatto registrare sold out, permettendo ai tifosi del Černo More l’acquisto di un ulteriore stock di cinquecento tagliandi per il settore adiacente, teoricamente adibito a cuscinetto tra le due tifoserie. Gli ultras biancoverdi sono in campo, intenti a preparare la coreografia e ben sorvegliati delle forze dell’ordine. Il resto dello stadio si sta riempiendo, con qualcuno che per assistere meglio al match decide di salire sulle torri-faro, dando vita a un’immagine molto anni ’70. Che in questo contesto sembra più che naturale. Così come i tanti ragazzi arrampicati sui muri di recinzione e le reti dei settori in parte arrugginiti. Mi fa piacere credere che sia stata la salsedine del mare a eroderli, rendendo l’impianto un monumento varnese – lo è sicuramente Tiča – al cento percento. Non l’ho nascosto e lo ribadisco: l’odore, l’ambiente e la gente di questa città mi piacciono, perché sono qualcosa di particolare in Bulgaria. Loro, come i vicini (e rivali) di Burgas, l’altra grande città marittima del Paese. Hanno un’aria mista tra la nostalgia di chi guarda costantemente l’orizzonte sapendo forse di non poter vedere mai l’altra sponda, e l’orgoglio di chi sa di avere nelle vene la fierezza e la libertà di chi bacia quotidianamente un mare chiuso ma aperto, collegato da una strettissima lingua al resto del Mondo. Il mare non è uguale ovunque, ognuno ha un suo tipo di gente e dei ritmi ben scanditi.
Fatta questa riflessione, continuo a camminare sul tartan della pista d’atletica. Passo sotto alla tribuna “popolare”, che lentamente si sta riempiendo. Diversi ragazzini mi chiedono una foto, ricordandomi in tutto e per tutto le scene che di solito avvengono dalla C in giù, nel mio Paese. Non felicissimo – lo ammetto – li immortalo un paio di volte e poi tiro dritto verso la curva dello Spartak. Anche qui i ragazzi stanno lavorando perché all’ingresso delle squadre sia tutto pronto. Dando un’occhiata agli striscioni esposti, non posso far a meno di notare quelli dei gemellati della Botev Plovdiv (Bultras) e nientepopodimeno che dei genoani, presenti con un drappo per i diffidati. Un’amicizia, quella con i Grifoni, che si protrae ormai da diversi anni (i primi contatti risalgono addirittura al 2014) e che viene puntualmente rinsaldata da vicendevoli visite. Ho sempre detto che non sono un grande estimatore delle amicizie con tifoserie estere, dato che sovente mi sembra siano in piedi più per una sorta di “dovere social” che altro. In questo caso però ho colto una bella fratellanza, sulla scorta della descrizione fatta del popolo varnese. Perché ok, anche qui trovi i palestrati cronici dell’Est Europa (non ci si può fare niente, è come chiedere a un italiano di non mangiare pasta), ma al contempo ci sono tanti ragazzi e ragazze che hanno la semplice voglia di rappresentare i propri colori e vivere in aggregazione il momento curvaiolo. Per dirla brevemente: nel pre partita meno facce seriose e “pompate” rispetto a quanto si possa pensare e più persone impegnate a divertirsi e parlare di ultras.
In linea generale poi, come movimento italiano rimaniamo un punto di riferimento. Qui sanno tutto di noi e ci studiano ancora come fossimo la Mecca del tifo. Benché nel loro DNA rimanga una notevole traccia di hooliganismo, l’importare modus vivendi e attitudine da stadio degli italiani è stata la logica evoluzione negli ultimi anni. Ecco spiegate le diverse amicizie nate tra alcune delle nostre tifoserie e alcune delle loro. Non giudico le altre – neanche mi interessa in questo contesto – ma il rapporto con i ragazzi di Genova mi è parso avere basi sincere.
Tornando alla sfida: quando manca poco al fischio d’inizio, prendo posizione e attendo che le formazioni guadagnino il terreno di gioco per iniziare la mia opera di foto e video. Nel settore occupato dai sostenitori biancoverdi fa capolino una coreografia che rappresenta il Porto di Varna, completata dal messaggio: “Varna e il Mar Nero (che ovviamente gioca con il nome del loro club), sinonimo da secoli!”. Con mia sorpresa, invece, né ora né successivamente ci sarà uno spettacolo pirotecnico. Questo perché sulla testa dei Moryatsite pendono alcune sanzioni della polizia che hanno fatto desistere i gruppi nel portare massivamente torce e fumogeni. Da queste parti è insolito, ma sulla scorta di quanto detto ha una sua spiegazione logica. Tuttavia, una volta calata la coreografia, il contingente si raggruppa dietro il lungo striscione Nie sme zelenata agitka, che tradotto sommariamente significa un qualcosa tipo “Siamo i tifosi verdi della curva”. Se da una parte il materiale degli ultras del Černo More appare un po’ trascurato, molto anni ’80 – così come la gente nel settore richiama molto la composizione sociale visiva che predominava nei nostri impianti fino a inizio anni duemila – dall’altra mostrano davvero un’ottima intensità e continuità nel tifo. Ok, non avremo chissà quale quantità di cori diversi ma la performance è di assoluto valore. Tra battimani, cori a rispondere, canti eseguiti saltellando e numerose provocazioni nei confronti dei dirimpettai, i marinai mi convincono appieno.
E i padroni di casa? Prima del fischio d’inizio il loro settore si colora con una densissima e imponente fumogenata biancoblu, sotto la cui coltre si nascondono migliaia di cartoncini di medesimo colore e si staglia uno striscione che a grandi linee è traducibile così: “Tredici anni non ci hanno fermato! Con la fede e la lotta ti abbiamo fatto rinascere! Adesso sei il simbolo di Varna!”. Nella Tribuna Sokol il tifo è coordinato da un lanciacori che, coadiuvato da un impianto di amplificazione, cerca di coinvolgere l’intero settore. Chiaramente non è facile, i numeri qua – ma in Bulgaria in generale – sono generalmente più bassi e oggi c’è da convogliare tanta gente che allo stadio viene davvero di rado. Non a caso il sostegno canoro dei Sokolite è come un diesel: parte in sordina per poi andare a crescere con il tempo. Di tanto in tanto anche le tribune ai lati vengono coinvolte. E il tutto appare molto rudimentale e vecchio stampo. Per intenderci: qua una musichetta i gol o la presentazione dei giocatori con speaker dalle urla squinternate sarebbe a dir poco impensabile! Nella ripresa altra coreografia, composta stavolta da un telo che raffigura un ultras dello Spartak con alcune pezze sottratte ai rivali in mano e la scritta “La nostra città, il vostro incubo”, seguito da una maxi torciata che risulta sempre un belvedere agli occhi esterni.
Anche nel settore ospiti vengono esposte alcune pezze e sciarpe rubate ai biancoblu, ma sicuramente particolare menzione la meritano i diversi striscioni che le due curve si dedicano con tema gli incontri “extra stadio”. C’è chi denuncia il dirimpettaio di non presentarsi agli appuntamenti e vendere i propri sodali per qualche Leva, chi rinfaccia agli avversari di aver aggredito dei bambini. Uno potrebbe anche dire che “tutto il mondo è paese” e che le tematiche, alla fine, sono sempre le stesse. Replico che però gli striscioni in un derby non sono propriamente una peculiarità straniera e per quanto i nostri siano irraggiungibili (anche perché toccano spesso temi storici, campanilistici e sociali) ho apprezzato molto questa sfaccettatura, che ad esempio non ho trovato in altri famosi derby continentali. Perdonatemi, io sono nato e cresciuto con Roma-Lazio e penso che nessuno si offenderà se dico che per quanto riguarda lo sfottò per anni non abbiamo avuto rivali!
Venendo invece al tifo di entrambe le curve: lo stile è chiaramente quello italiano. Tamburi, bandiere (forse un po’ poche, se devo fare una critica), manate e incitamento per novanta minuti. Di certo l’unico vero spettacolo della giornata, se si pensa a una partita terminata 0-0, dominata dalla tensione e davvero bruttissima calcisticamente parlando. Ma fortunatamente non sono venuto fin qui per giudicare tattiche e calciatori, dubito ci sia qualcuno che lo faccia considerato il livello davvero infimo. Per lo Spartak, ultimo in classifica e fino a questo punto con una sola vittoria all’attivo, è comunque un ottimo risultato. Non a caso dopo il triplice fischio i giocatori vanno a guadagnarsi l’abbraccio dell’intero popolo al seguito dei falchi, evidentemente soddisfatto per una prova arcigna e per non aver prestato il fianco all’odiato avversario. Logico che anche dall’altra parte i calciatori in maglia biancoverde si rechino dai propri tifosi prendendo i giusti ringraziamenti. Il derby è sempre una gara a parte e anche arrivarci da favoriti non significa vincerlo sicuramente.
Mentre scrivo questo articolo, la nuova stagione in Bulgaria è già iniziata e qualcuno potrà pensare che abbia davvero troppo postdatato il pezzo. Può darsi, ma scrivere di queste giornate significa dispendere molte energie in ricerche e consultazione dei contatti. Mentre scrivo questo pezzo lo Spartak ha ricominciato il suo campionato in seconda divisione, dopo la retrocessione patita ai playout dello scorso campionato e dopo aver perso il derby di ritorno con un rocambolesco 3-2. Il Černo More è invece sempre un’insidiosa squadra della Părva Liga, che per qualche mese ha persino sfiorato un titolo finito nuovamente nelle mani del Ludogorec, altro club tutt’altro che esaltante di cui ho avuto modo di parlare nel pezzo relativo alla sfida di Europa League contro la Roma della passata stagione.
Di certo oggi ripensare a questa partita di inizio novembre mi dà spunti innumerevoli per analizzare ciò che ho visto e ciò che vorrò vedere in futuro. Riavvolgendo il nastro: guardo lo stadio sfollare lentamente, fino a che non è vuoto. Amo gli stadi vuoti dopo le partite, sono un tempio di cui si può respirare a pieni polmoni la sacralità esattamente quando i fedeli hanno svolto le proprie funzioni. Carte che rimangono a terra, biglietti strappati, giornalini letti e accartocciati. Persino qualche oggetto personale. Una scena di vita vissuta, in tutto e per tutto. L’ultima, prima di avviarmi verso l’autostazione da dove il mio pullman per Sofia mi porterà in aeroporto. Non ho potuto optare per il treno a causa di orari scomodi, ma ho avuto comunque modo di visitare la stazione. Uno scalo ferroviario di termine, esattamente come quello di Burgas. L’ideale sensazione che in riva al mare si fermino tutti i treni, quando invece da qua si può proseguire ancora per la Romania, circondando il Mar Nero.
Proprio dalla Romania mi porto dietro ancora una boccetta di pálinka fatta in casa. La bevo quando il mio torpedone parte alla volta della Capitale. Stavolta Varna me la sto lasciando alle spalle definitivamente, non come qualche mese fa, in estate, quando non potevo lontanamente immaginare un mio ritorno, spinto dalla curiosità. Ancora un goccio di pálinka e mi ritrovo tra le braccia di Morfeo, stremato dalla giornata e, più ampiamente, da questi giorni passati lontano da casa e con il mio solito spirito zingaresco. Quando arrivo a Sofia sono nettamente in anticipo rispetto al mio volo, ma è notte fonda. Di prendere un taxi e litigare con il tassista che come di consueto mi vorrà appioppare un costo fuori luogo, proprio non ne ho voglia. Per un momento mi balena per la testa l’idea di farmela a piedi. Sono circa 15 chilometri, ma il mio zaino è troppo pesante e le strade troppo buie. Decido di attendere la prima metro e parlando con una ragazza peruviana – che guarda caso attacca bottone proprio per lamentarsi dei tassisti e chiedermi se sapessi più o meno il costo di una corsa fino in centro – alla fine mi incammino con lei fino alla Basilica di Aleksandr Nevskij, parlando del più e del meno e scoprendo che si trova qui, perché abitando ad Amsterdam aveva voglia di fare un giretto e venire in un posto dove non era mai stata. Direi che il Mondo è un posto pieno di folli, se io non fossi l’ultimo a poter parlare.
Il tempo tuttavia passa abbastanza velocemente e quando la metro apre, posso raggiungere con facilità l’aeroporto. Tasto il mio zaino e ad un tratto mi accorgo di avere ancora una bottiglietta di Boza, una bevanda realizzata con la fermentazione di alcuni cereali e molto celebre in diversi Paesi colonizzati in passato dagli ottomani. La bevo tutto d’un fiato e poi raggiungo il gate. Memore dell’esperienza di Bucarest (se volete sapere leggete il racconto di Rapid-Farul) programmo almeno otto sveglie sul mio cellulare e mi siedo attaccato al desk dove verrà effettuato il check-in. Stavolta di perdere l’aereo non posso proprio permettermelo.
L’ultimo sapore che avverto è quella sensazione di libertà propria di ogni viaggio di questa portata. Oltre alla certezza di poter di nuovo scrivere e raccontare quanto visto con i miei occhi. Mi addormento di nuovo, ma questa volta mentre l’aereo alla volta di Treviso ha spiccato il suo volo. In Italia ci sarà ancora una coda dell’estate ad accogliermi e questo mi fa apprezzare sempre un minimo il Paese che per primo ha fatto scuola al mio modo sragionato di spostarmi e fare nuove esperienze. La salsedine del Mar Nero ha lasciato nelle mie narici il suo ultimo impulso stagionale, ed è una fragranza che voglio perdere il più tardi possibile. Nella speranza che un po’ della sua forza arrivi anche a chi avrà avuto la pazienza di arrivare sin qui. Del resto non potevo lasciare sguarnito il mio luglio di racconti e pubblicazioni!
Simone Meloni