Micro-fisica di un dispositivo di controllo: il «decreto Stadi»

 

«La paura, per non parlare del panico, impedisce di pensare.
E noi vogliamo pensare;
la paura la lasciamo a chi si rinchiude nella propria casa,
nel proprio lavoro, nelle proprie regole,
ritenendo il mondo obbligato a pensarla in un unico modo.
Per fortuna non è così.
Sono secoli che Lor Signori ci provano, ma per fortuna ancora non ci sono riusciti.
Nonostante tutto, ancora non è così»

Valerio Marchi, Ultrà, uno stile di vita in La sindrome di Andy Capp.

 

«I violenti da stadio li tratteremo come i mafiosi»

Angelino Alfano

 


Quasi cinquanta giorni dopo la tragica scomparsa dell’ultrà napoletano Ciro Esposito, avvenuta a seguito degli incidenti che hanno preceduto la finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina, il Governo italiano ha approvato l’ennesimo «decreto Stadi» con un solo imperativo: «fuori i violenti dagli stadi, restituiti alle famiglie» (Piccioni 2014). Il sito istituzionale del governo così sancisce l’approvazione del provvedimento:

 

Con 164 voti favorevoli e 109 contrari il Senato della Repubblica ha approvato il 15 ottobre il disegno di legge di conversione, con modificazioni, del decreto-legge n.119 del 22 agosto 2014 sul contrasto ai fenomeni di violenza nelle manifestazioni sportive. Il provvedimento, già esaminato dalla Camera dei Deputati, entrerà in vigore con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (Governo italiano 2014).

 

Il decreto riguarda «disposizioni urgenti in materia di contrasto a fenomeni di illegalità e violenza in occasione di manifestazioni sportive» e contiene una serie di misure che, nelle intenzioni dei governanti italiani, dovrebbero restituire lo spazio-stadio alla libera fruizione di famiglie, ragazzini e amanti dello sport. Tra i provvedimenti adottati c’è l’inasprimento del Daspo (divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive) che può riguardare anche interi gruppi di tifosi violenti: «Il divieto di accesso varrà infatti per almeno 3 anni nei confronti dei responsabili di violenze di gruppo e da 5 a 8 anni nel caso di recidivi» (Governo italiano 2014). L’interdetto potrà riguardare «anche chi è stato denunciato o condannato per l’esposizione di striscioni offensivi o violenti o razzisti, per reati contro l’ordine pubblico e altri delitti gravi, quali rapina, detenzione di esplosivi, spaccio di droga» (Governo italiano 2014). La misura, quindi, riguarderà anche una serie di condotte e di reati non immediatamente (o comunque non necessariamente) correlati con l’esercizio della violenza da parte degli ultras (rapina e spaccio di droga sono reati comunemente perseguiti), che vengono astratti dall’ordinamento giudiziario per essere perseguiti attraverso un raddoppiamento della sanzione, qualora l’infrazione avvenga nel contesto-stadio. È come se i reati citati, per il fatto stesso di avvenire in quello che a tutti gli effetti è uno «spazio d’eccezione» -lo stadio– venissero puniti al quadrato: una volta in quanto comportamenti devianti sanzionati dall’ordinamento giuridico, un’altra per essere stati perpetrati all’interno dello stadio. Perché questa necessità? Non si elude la questione rispondendo che si tratta di un semplice inasprimento della sanzione. Il Daspo colpisce, dunque, comportamenti già sanzionabili quali la rapina, lo spaccio di droga e la detenzione di esplosivi: in tal modo è come se si ponessero due volte fuori dalla legge i frequentatori dello stadio responsabili delle infrazioni indicate. L’azione del potere sovrano, attraverso il carattere eccezionale delle misure giudiziarie, fa presa sul violento da stadio e lo bandisce dalla comunità ponendolo al di fuori del recinto della polis. Di fatto si realizza un’esclusione che sanziona l’impoliticità dell’attore-ultrà, ritenuto indegno di far parte del perimetro comunitario e, quindi, passibile di misure eccezionali. Se analizzate nel loro risvolto osceno, però, le misure emanate con carattere d’urgenza fanno del violento da stadio una figura necessaria per le logiche del potere, che se ne serve per strutturare una relazione d’eccezione in cui risalta la soggezione della vita di fronte alla legge, alla sua forza. In tal senso l’eccezione non interessa soltanto la natura delle misure adottate volta per volta al fine di gestire il fenomeno ultrà, ma anche la dialettica particolare che si instaura tra il potere sovrano e il violento da stadio: «chiamiamo relazione d’eccezione questa forma estrema della relazione che include qualcosa attraverso la sua esclusione» (Agamben 1995, p. 22). L’ultrà viene messo al bando, escluso dalla comunità dei soggetti sottoposti ordinariamente alla legge e, in questo modo, assume la funzione politicamente fondamentale di spazio d’iscrizione per l’esercizio della sovranità. Il bando esclude per includere.

Il carattere eccezionale delle misure adottate nel «decreto stadi» è particolarmente evidente con il citato «Daspo di Gruppo», cioè il divieto d’accesso allo stadio e alle zone ad esso limitrofe durante gli orari delle manifestazioni sportive per gruppi di tifosi individuati come responsabili di violenze di gruppo. Quanto la misura risulti problematica sotto l’aspetto giuridico -in particolare per quello che riguarda il principio della responsabilità individuale- è stato recentemente evidenziato dalla sospensiva attraverso cui il Tar del Lazio ha momentaneamente reso nullo il provvedimento di gruppo comminato nei confronti di 52 tifosi baresi puniti dopo la trasferta di Frosinone del 13 settembre 2014 (TuttoBari.com 2014). Decisiva per l’accoglimento del ricorso, la presa in atto del documento che evidenziava la richiesta di archiviazione proposta dal Pm e dal Gip di Frosinone per inconsistenza di prove specifiche che inchiodassero il pullman bloccato dalla Digos subito dopo gli scontri avvenuti in autostrada. I giudici del Tar hanno ritenuto problematiche, sotto l’aspetto giuridico, le palesi caratteristiche di generalità e indeterminazione delle condotte violente attribuite agli ultras baresi in gruppo (TuttoBari.com 2015).

Le procedure di emergenza adottate hanno come obiettivo una minaccia immediata e reale che bisogna eliminare anche a costo di sospendere per un tempo limitato le garanzie della legge o di renderne più sfumati alcuni principi fondamentali, come la responsabilità individuale nel caso appena citato. Le «ragioni di sicurezza» orientano le politiche di governo sul tema della gestione degli stadi che diviene, a tutti gli effetti, il laboratorio entro cui sperimentare tecniche di governo e dispositivi securitari che introducano di fatto l’esistenza-ultrà nello spazio indistinto in cui politica e diritto sfumano l’una nell’altro. In tal senso assumono un contorno più definito le misure a carico delle società sportive che, nella misura non inferiore all’1 per cento e non superiore al 3 per cento degli introiti complessivi derivanti dalla vendita dei biglietti, sono obbligate a finanziare i costi sostenuti per il mantenimento della sicurezza e dell’ordine pubblico in occasione delle partite. In particolare viene loro addebitata la copertura dei costi delle ore di lavoro svolto dalle Forze di polizia e le relative indennità di servizio. Il carattere eccezionale delle norme si materializza in tutta la sua evidenza allorquando viene esaminato l’ammodernamento dei mezzi a disposizione delle forze dell’ordine e la sperimentazione di essi che avverrà sul campo dove, tra l’altro, verrà testata la famigerata e inquietante pistola elettrica, detta anche Taser, «per lo svolgimento dei compiti di pubblica sicurezza e polizia». La precisazione che la sperimentazione «dovrà però avvenire con le necessarie cautele per la salute e secondo principi di precauzione» (gasport 2014) non riesce più di tanto a celare il sospetto, già espresso con toni netti da Agamben, secondo cui «la crescente moltiplicazione dei dispositivi di sicurezza pubblica» (Agamben 2014) testimonierebbe un cambiamento in atto della concezione politica, «al punto che si può legittimamente chiedersi non soltanto se le società in cui noi viviamo possano ancora essere definite democratiche, ma anche e innanzitutto se possono ancora essere considerate come società politiche» (Agamben 2014). In atto ci sarebbe un processo di de-politicizzazione che spingerebbe sempre più il cittadino contemporaneo verso «una zona d’indifferenziazione fra pubblico e privato o, per usare le parole di Thomas Hobbes, fra il corpo fisico e il corpo politico»(Agamben 2014). Il corpo fisico degli ultras che patisce, gioisce, soffre, urla e si scontra con gli avversari, diventa lo spazio d’iscrizione per l’esercizio del potere sovrano che su di esso collauda le tecniche di governo che verranno successivamente estese a tutti i cittadini dietro la motivazione della sicurezza.

Alla luce di ciò appare inquietante la misura, sempre prevista nel «decreto stadi», secondo cui «il rigore delle sanzioni nei confronti di coloro che commettano atti di violenza può arrivare alla misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale, misura fino a oggi prevista per i criminali più pericolosi, che appartengano ad associazione mafiose e non. E il rischio di vedersi impedite le trasferte per due anni dovrebbe ridurre i comportamenti violenti e vessatori» (Piccioni 2014). Ancora, sono previsti il blocco delle trasferte per uno o due campionati nel caso di gravi episodi di violenza e l’arresto differito consentito anche contro chi intona cori o innalza striscioni che incitino alla discriminazione razziale o etnica. Con provvedimento del ministro dell’Interno potrà essere chiuso il settore ospiti fino a due anni e potrà essere vietata la vendita di biglietti ai tifosi che risiedono nella provincia della squadra avversaria. Una rapida analisi delle misure emergenziali adottate per gestire la questione ultrà ci consente di condividere le osservazioni di Giorgio Agamben che, sulla scia di Deleuze, parla di una transizione dallo «stato di disciplina» allo «stato di controllo» per le nostre democrazie:

 

Lo Stato nel quale noi viviamo attualmente in Europa non è uno Stato di disciplina, ma piuttosto – secondo la formula di Gilles Deleuze – uno «Stato di controllo»: esso non ha come scopo quello di ordinare e di disciplinare, ma di gestire e di controllare. Dopo la violenta repressione delle manifestazioni contro il G8 di Genova, nel luglio 2001, un funzionario della polizia italiana dichiarò che il governo non voleva che la polizia mantenesse l’ordine, ma che gestisse il disordine: non credeva si potesse dire meglio. (Agamben 2014)

 

I dispositivi di sicurezza, una volta collaudati allo stadio, come nel caso della Taser, potranno essere estesi al corpo politico nella sua interezza, al fine di controllare, perimetrare e gestire qualunque comportamento deviante. «L’estensione progressiva a tutti i cittadini delle tecniche d’identificazione, un tempo riservate ai criminali» (Agamben 2014), è uno degli argomenti che meglio supportano la nostra tesi e che con più evidenza trovano attuazione nelle procedure d’urgenza con cui si gestisce l’ordine pubblico negli stadi: identificazione che avviene non soltanto attraverso la famigerata «tessera del tifoso», ma anche per mezzo dei pervasivi sistemi di videosorveglianza diffusi non soltanto negli stadi e nelle zone limitrofe ma anche nelle strade, nelle piazze, ai crocicchi. Come sottolinea Agamben: «uno spazio video sorvegliato non è più una agorà, non ha più alcun carattere pubblico; è una zona grigia fra il pubblico e il privato, la prigione e il forum» (Agamben 2014). Il «governo dei viventi» passa non soltanto per il controllo pervasivo del territorio ma anche per la riduzione del privato a pubblico, per la cancellazione delle differenze tra i due ambiti, per la costruzione di una identità politica modellata attraverso l’orientamento delle condotte e il condizionamento dell’immaginario. Dentro gli stadi si sperimenta un’inedita identità politica posta all’incrocio tra un «potere apparentemente “soft” (soft power), […] che si insinua, suggerisce, stimola» (Citton 2013, p.18) e un altro che vieta, corregge, sanziona. Un potere che si è sdoppiato per catturare la vita nella sua interezza.

 

Estranei alla massa: le retoriche dell’esclusione.

 

L’attuale società della sicurezza contemporanea -come afferma Agamben- si serve delle procedure d’emergenza: esse «mirano a una minaccia immediata e reale, che occorre eliminare sospendendo per un tempo limitato le garanzie della legge; le «ragioni di sicurezza» delle quali si parla oggi costituiscono al contrario una tecnica di governo normale e permanente» (Agamben 2014). Ma come creare le condizioni per l’esercizio delle misure d’emergenza? Non come troppo ingenuamente viene sostenuto dalle teorie complottiste attraverso la creazione artefatta di disordini provocati, o comunque sollecitati, da elementi disturbatori, ma lasciando che essi accadono per poi governarli: « “Governare” riprende qui il suo senso etimologico: un buon pilota – colui che tiene il timone (gouvernail in francese, ndt), non può evitare la tempesta ma, se essa sopraggiunge, deve essere capace di guidare la sua barca» (Agamben 2014). Emerge un inedito paradigma di governo

 

«che situa la sicurezza […] non nella prevenzione dei disordini e dei disastri, ma nella capacità di canalizzarli in una direzione utile. Bisogna misurare la portata filosofica di questo rovesciamento che sconvolge la tradizionale relazione gerarchica tra le cause e gli effetti: poiché è vano o ad ogni modo costoso governare le cause, è più sicuro e più utile governare gli effetti. L’importanza di questo assioma non è trascurabile: esso regge le nostre società, dall’economia all’ecologia, dalla politica estera e militare fino alle misure di sicurezza e di polizia. È ancora esso che permette di comprendere la convergenza altrimenti misteriosa tra un liberismo assoluto in economia e un controllo securitario senza precedenti». (Agamben 2014)

Ma come si dispongono le condizioni per governare gli effetti facendo digerire alla collettività le procedure d’emergenza e l’imposizione di misure lesive delle libertà individuali che normalmente non verrebbero accettate? L’obiettivo è raggiungibile attraverso la messa in opera di scenari che «svolgono un ruolo determinante nel funzionamento quotidiano e negli orientamenti generali delle nostre democrazie mediatiche» (Citton 2013, p.19). In tale ottica il potere deve essere pensato nella declinazione di condizionamento dei comportamenti, delle idee e non soltanto di esercizio della sovranità, di obbligo e di divieto. Come affermato da Foucault nel corso degli anni settanta: «governare, in questo senso, significa strutturare il campo d’azione possibile degli altri» (Foucault 1989, p.249). Accanto alla coercizione, al comando e alla repressione c’è un aspetto del potere che possiamo pensare come il suo risvolto osceno, la sua condizione di possibilità: quello di condizionare, di sedurre e di agire sulle condotte. In questa luce il potere «è un insieme strutturato di azioni che verte su azioni possibili» (Foucault 1989, p.248). Come? Disponendo le condizioni perché i governati scelgano liberamente il comportamento o la condotta più appropriata alla luce dei disegni di chi regge politicamente la società. La coercizione è così soltanto il secondo momento di una strategia che mira innanzitutto all’induzione, al condizionamento e al controllo del libero arbitrio. Il potere nell’attuale «società della sicurezza», evoluzione singolare della «società di controllo», «incita, seduce, rende più facile o difficile; al limite costringe o impedisce assolutamente; non di meno è sempre un modo di agire su un soggetto, o su dei soggetti che agiscono in virtù del loro agire e del loro essere capaci di azioni» (Foucault 1989, p.248).

Il governo degli uomini si manifesta attraverso la strutturazione di un campo di possibilità, quello entro cui i governati effettueranno la scelta possibile, sempre giusta, poiché pre-determinata e, quindi politicamente-corretta. Accanto al potere che si esercita esplicitamente attraverso la norma giuridica esiste dunque un potere «soft» che «conduce le condotte, situandosi al livello del flusso di desideri e di convinzioni canalizzato dalla rete di comunicazione mediatica» (Citton 2013, p.18). Le dichiarazioni che abbiamo visto fare da biglietto da visita per il «decreto stadi» fanno così parte integrante del dispositivo di controllo e mirano a stabilire dei perimetri e degli spazi di identificazione sociale, cioè dei non-luoghi retorici in grado di «creare una comunità» (Citton 2013, p. 85) attraverso il condizionamento dell’immaginario e la configurazione delle opzioni di scelta. Cos’è quindi la società-scenarizzata? E’ una collettività che si auto-riconosce in un certo numero di narrazioni, di saperi e di simboli che si articolano in giudizi possibili, cioè in ventaglio stabilito di opzioni e di valutazioni.

Affermazioni più volte ribadite dai media -come quelle del Ministro dell’Interno che paragona gli ultras a delle belve (Crescente 2014)- sollecitano e per molti versi partecipano della creazione delle «immagini che elaboriamo di noi stessi e del mondo – in questo caso quello ultras-, le storie nelle quali ci sentiamo coinvolti e lo stato di eccitazione affettiva che queste provocano» (Citton 2013, p.28). Il potere, dunque, si esercita indubbiamente attraverso il classico esercizio della sovranità, ma anche indirettamente attraverso la «regolazione» degli effetti di verità, dei discorsi e delle rappresentazioni attraverso le quali la «popolazione» si riconosce e si identifica. Questa forma di governo degli uomini che si attua secondo linee di tensioni molteplici, tra le quali soltanto le più evidenti coincidono con il classico esercizio sovrano dell’applicazione della norma, può essere descritta con il termine di «politica-di-controllo», che vede la «popolazione» governata secondo due direttrici: l’esercizio del potere sovrano e la disposizione, la regolazione e la normalizzazione delle «forme di vita» ammesse, in quanto riconosciute, dalla comunità come accettabili, normali, regolari. La società della sicurezza, attuale evoluzione della «società di controllo» contraddistinta da un esercizio politico che si fa supportare dalla « formula «per ragioni di sicurezza» («for security reasons», «pour raisons de sécurité»)» (Agamben 2014), si configura come un insieme di tecniche gestionali atte a disciplinare la popolazione attraverso procedure securitarie emergenziali, fatte digerire alla collettività attraverso e gli «effetti di verità» (véridiction) prodotti dal condizionamento dell’immaginario.

Questo potere che condiziona è definibile «biopotere» per i suoi effetti sulla vita biologica catturata a partire dall’elemento cognitivo che viene interessato in quanto le scelte degli individui «sono sempre il risultato delle “condizioni” in cui queste vengono compiute» (Citton 2013, p.69). La «configurazione dei parametri che determineranno le scelte a venire» (Citton 2013, p.69) interessa la «vita» in quanto tale, infatti «plasma, modifica e dirige non solo i corpi ma le fibre molli del cervello» (Cutro 2005, p. 10). Insieme alle convinzioni l’esercizio di induzione modella anche le sinapsi, i contatti neurali, in un processo di continua ri-definizione tra l’ambito biologico e quello psichico, interno e esterno. Se, dunque, la caratteristica distintiva del potere sovrano è il divieto, il biopotere si caratterizza per la messa in opera di criteri individuanti il corpo politico e di tecniche adeguate per governarlo attraverso gli effetti di verità e le sue ricadute sull’ambito biologico («le fibre molli del cervello»). La sua è un’azione pervasiva sul doppio versante delle singolarità, che vengono prese in carico attraverso la produzione discorsiva degli effetti di verità, e sulla collettività attraverso la regolazione dei modi di vita e delle condotte facenti funzione di norma. Il biopotere «è centrifugo, agisce su circuiti più larghi e su flussi. Agisce sulla realtà attraverso la realtà: cioè regola i fenomeni in base alle variabili che sono loro proprie» (Cutro 2005, p. 12).

L’ambito d’elezione del biopotere è la psichiatria, paradigma di un’ortopedia sociale tendente a normalizzare la collettività attraverso il peso autorevole, indiscusso, dei saperi medici. Il fine è chiaro: la riduzione delle caratteristiche anormali di quei soggetti che discostandosi dalla norma si pongono al di fuori della collettività. Anche la «società della sicurezza» ha bisogno dei suoi anormali per poter governare attraverso le misure d’emergenza che implicano la sospensione delle libertà normalmente vigenti. E’ necessario individuare, perimetrare ed escludere artificialmente dalla collettività un segmento della società su cui agire con procedure d’urgenza «per ragioni di sicurezza». Bisogna scenarizzare una forma di vita come artificialmente anormale per attivare le misure eccezionali di normazione. Foucault, molto chiaramente, riassume la questione affermando che «è la vita, molto più del diritto, che è diventata la posta in gioco delle lotte politiche, anche se queste si formulano attraverso il diritto» (Foucault 1999, p. 128). Normalizzare le condotte e «scenarizzarle» [scénarisation], cioè inserirle in una determinata «costellazione di senso», equivale a rendere partecipe il pubblico di una storia, con le sue trame, i suoi personaggi e i suoi concatenamenti attraverso cui «condurre le condotte di chi ascolta, a seconda dell’inclinazione conferita» (Citton 2013, p.18). In altre parole: controllare il sapere condiviso è la condizione necessaria per esercitare il «governo degli uomini» (Foucault 1997) nella «società di controllo» in genere e, più in particolare, nella sua declinazione: la «società della sicurezza». Lo stadio anche in questo caso si dimostra un laboratorio di sperimentazione per la costruzione di scenari attraverso i quali strutturare e identificare artificialmente una forma-di-vita denotata come anormale: il «Mondo ultras».

 

Non siamo di fronte a violenti, no: questi sono belve. Chi va in giro con spranghe e catene cercando lo scontro con le Forze dell’Ordine, per picchiare persone chiamate a difendere la sicurezza della gente, è classificabile solo come belva. Devo usare un termine grave, pesante, serve una bonifica preventiva (Crescente 2014).

 

Le parole sopra riportate appartengono al Ministro dell’Interno e sono state pronunciate poco dopo i tragici avvenimenti che portarono al ferimento di Ciro Esposito. Sono dure, chiare e evocano un clima ben preciso che non può essere tollerato, pena la messa in discussione dell’ordine sociale, della «sicurezza della gente». Nel medesimo discorso così prosegue il Ministro: «Io ho in mente l’immagine di me bambino che vado a vedere l’Akragas per mano a mio padre. Non si può negare una gioia del genere a un bambino. Allo stadio deve poter andare la parte sana del tifo che è la maggioranza. Gli altri devono stare fuori» (Crescente 2014). L’affiancamento dei due registri discorsivi non può che sollecitare la reazione affettiva e partecipata del pubblico che si riconoscerà nella necessità sociale di bonificare gli stadi per restituirli alle famiglie, ai bambini. Chi non sarebbe d’accordo? Ciò che si ottiene attraverso le emozioni, gli affetti, le passioni è il convincimento della popolazione che, per certi versi, impara a pensare affettivamente attraverso «l’adesione a un sapere, a un’informazione o a una dottrina» (Citton 2013, p. 51) che risulta avere tanto più credito quanto più forte è il coinvolgimento con i valori che trasmette. La retorica che accompagna -o precede- le misure normative come il «decreto stadi», in epoca «securitaria», ha la funzione di regolare, attraverso la normalizzazione, gli effetti di senso della collettività che, come ci ha insegnato Deleuze, sono delle «quasi-cause incorporee» che si muovono sulla superficie della storia contribuendo a determinarla. Il discorso ha valore performativo plasmando materialmente il regime di verità vigente in una determinata comunità che, per tale ragione, può essere identificata come una «costellazione di godi-senso»: una collettività regolata, normalizzata per mezzo di effetti di senso sollecitati affettivamente attraverso le narrazioni e le retoriche che spiegano, contestualizzano, illustrano gli avvenimenti. Le dichiarazioni che hanno accompagnato l’arresto di Gennaro De Tommaso hanno, per la collettività, pretesa di verità ed effetti di potere che determinano il «senso» dell’avvenimento, la cornice entro cui si situa. Se la legge ha un’efficacia eteronoma e fa valere il suo potere attraverso il disciplinamento dei comportamenti, il discorso con pretese di verità ha un valore «generativo. Non agisce negando, ma affermando, producendo, costituendo dei campi di oggetti, sui quali si dispongono affermazioni vere o false; costituisce universi morali e veritativi che in-formano (danno forma) alle soggettivazioni, a come i soggetti si vedono, si valutano, desiderano diventare» (Bazzicalupo 2010, p.36). Le dichiarazioni del gip – sbandierate con enfasi su diversi organi d’informazione- che descrivono Gennaro De Tommaso come un soggetto che «mostra totale disprezzo per l’ordine costituito riconoscendo solo nel calciatore del Napoli una controparte credibile per scongiurare ulteriori atti di violenza» (Ansa.it, 2014), hanno un valore «generativo», strutturano cioè artificialmente una figura paradigmatica di anormale e mostrano che «potere e sapere si implicano direttamente l’un l’altro» (Foucault 1976, p.31):

 

Ha agito per istinto primitivo, carisma e superiorità di posizione, in perfido e attivo disconoscimento sia della sensibilità civile sia dell’autorità della legge, privo, al pari del suo seguito, di istruzione basilare e delle più elementari capacità comunicative, verbali e scritte”. [Gennaro De Tommaso, in sostanza] ha un unico mezzo disponibile, quello della violenza, espressa di volta in volta attraverso gesti, segnali condivisi dal gruppo, slogan concordati divulgativi di istigazione alla aggressività e grida inneggianti a comportamenti di anarchia rispetto alla comunità civica (Ansa.it. 2014).

 

Descrivere con enfasi moraleggiante il ritratto della Carogna ha delle ricadute sull’immaginario collettivo che viene indotto ad interiorizzare una certa rappresentazione affettivamente contrassegnata. Le categorie morali, in tal senso, sono degli eccezionali artifici retorici in grado di condurre le condotte e le convinzioni, «ma sempre all’interno di un certo margine di adesione lasciato al soggetto che agisce» (Citton 2013, p. 68). Tra tutte, esse sono quelle più diffuse nell’immenso cumulo di racconti prodotti quotidianamente e sollecitano un processo di riconoscimento automatico, irriflesso nel lettore-ascoltatore, che si trova così immerso in una «costellazione di senso» familiare, di cui è più semplice condividere l’orizzonte generativo, i giudizi espressi. Il fascino irriflesso della morale è più che «sufficiente per catturare e per creare una comunità attorno allo stesso spiccare il volo dell’immaginazione» (Citton 2013, p.85). Si tratta adesso di sondare il paradigma anormale artificialmente strutturato su cui si è deciso di procedere in via eccezionale dopo i tragici avvenimenti di Napoli-Fiorentina.

Il paradigma «Genny A’ Carogna».

 

Abbiamo fin qui discusso di «scenarizzazione» per intendere quello sfondo non tematico entro cui i fatti vengono com-presi. Questo orizzonte non è mai dato in partenza, è quello che possiamo definire un «trascendentale-mobile» che si genera come effetto di superficie singolare in un groviglio intensionale fatto di immagini, parole, affetti, convinzioni, condizionamenti socio-culturali, credenze, situazioni, prospettive, desideri. Qualunque fatto è qualitativamente denotato da quest’intreccio intensionale non scomponibile ma entro una certa misura condizionabile: la posta in gioco del biopotere è proprio il condizionamento, l’orientamento, la stimolazione di questo groviglio che, utilizzando un concetto elaborato da Yves Citton, possiamo definire la «scenarizzazione» [scénarisation]. Il processo, che consiste nella strutturazione degli scenari entro cui prendono posto le realtà analizzate, è sempre in atto e non necessariamente deve essere pensato come pilotato metafisicamente; di certo per il potere sovrano, qualunque esso sia, coinvolgere il pubblico in una certa narrazione degli avvenimenti e orientarne le future valutazioni è fondamentale.

Un esempio di scenarizzazione è quello che ha dato senso ai tragici avvenimenti della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina. Le reazioni sdegnate, i giudizi e la comprensione dei fatti sono inscrivibili in quello che possiamo definire il paradigma «Genny A’ Carogna». Con questo sintagma, utilizzando le riflessioni di Giorgio Agamben, vogliamo indicare che di «Genny A’ Carogna», il capo ultrà napoletano diventato celebre per la trattativa dalla balaustra con Marek Hamšík, si è fatto «un paradigma in senso proprio: un oggetto singolare che, valendo per tutti gli altri della stessa classe, definisce l’intelligibilità dell’insieme di cui fa parte e che, nello stesso tempo costituisce» (Agamben 2008, p.19). In altre parole l’ultras partenopeo, nelle reazioni sdegnate, nei commenti e nelle storie che sono state prodotte per dare senso ai fatti dell’Olimpico, è diventato qualcosa di più e qualcosa di diverso rispetto all’uomo in carne ed ossa “Gennaro De Tommaso”. «A’ Carogna» è un artefatto simbolico-immaginario attraversato da flussi di desiderio, proiezioni emotive, credenze irriflesse, sollecitazioni affettive, frammenti pre-concettuali e soglie discorsive, attraverso i quali si denota (Bedeutung) il Mondo Ultras nella sua interezza. Genny la Carogna è l’ultrà in quanto tale, il paradigma in grado di identificare la «classe di cui fa parte». Per questo non può che essere un delinquente che, in quanto napoletano, deve anche essere un camorrista. D’altra parte ci siamo già soffermati sull’equivalenza ultras-mafiosi, ribadita con enfasi dai media in occasione delle presentazione del «decreto Stadi»: «i violenti da stadio li tratteremo come i mafiosi» (Bergamonews 2014). L’analogia, più volte fatta risuonare, contribuisce a creare uno «scenario» entro cui sviluppare le narrazioni che produrranno il «senso» attraverso cui rendere comprensibili le misure adottate.

Non meno rilevante per la costruzione dello scenario, la sottolineatura dell’aspetto estetico della «Carogna»; con furore lombrosiano viene più volte evidenziata dai media la presunta fisionomia bestiale: «maglietta nera, jeans sdruciti, braccia coperte da tatuaggi, sguardo truce e mascella volitiva» (SportMediaset 2014). Sul Secolo d’Italia viene descritto come «Pluripregiudicato. Capobranco. Istigatore di faziosi violenti, e non di veri tifosi. Fomentatore degli istinti primordiali ed estraneo alla società civica. Anarchico» (Secolo d’Italia 2014). È truce e nei comportamenti mostra una fierezza da capo-popolo che, più o meno immediatamente, rimanda a figure archetipe -il più celebre è Masaniello- sospese tra l’aura messianica e l’investitura popolare:

 

Gennaro De Tommaso, detto ‘Genny a carogna’, probabilmente per i modi e l’espressione ferina che lo accompagnano, spicca solitario sulle transenne della curva Nord dell’Olimpico: tratta, indica, comanda, ordina. E alla fine decide cosa fare e come farla. La finale di Coppa Italia si gioca. C’è il suo placet! (SportMediaset 2014).

 

Nel vestiario si dimostra un contestatore dell’ordine costituito: la ormai celebre t-shirt di protesta con la scritta «Speziale libero» è un inno anarchico che si pone al di là della legge, in quella zona di indistinzione che serve al nomos per auto-riconoscersi da ciò che è altro da sé. Il suo corpo è sovversivamente tappezzato di tatuaggi che non possono non rimandare ad un’epoca in cui il tatuaggio era un marchio per forzati, prostitute e diseredati; è ignorante, «aggressivo, maschilista, sciovinista, sfaticato, ubriacone, qualunquista, tendenzialmente xenofobo, cosmicamente alieno da ogni forma di acculturazione» (Marchi 2004, p.16); è lo stereotipo di quello «Stile Maschio Violento», elaborato dal sociologo Eric Dunning, che identifica quegli anormali che si riconoscono in «forme di comportamento che includono l’intimidazione fisica, la lotta, il bere, e rapporti sessuali di sfruttamento» (Marchi 2004, p.16). È una figura a tutto tondo che sintetizza tutti quegli elementi che in maniera irriflessa vengono percepiti dalla collettività come moralmente inaccettabili e riprovevoli: «deve sommare in sé tutte le brutture del mondo: deve essere violento, rozzo, amorale, subdolo. Deve essere un delinquente, un drogato, un razzista. Deve essere un traviatore di giovani, un tessitore di trame e complotti» (Marchi 2005, p.61). Questo ritratto è il candidato ideale per essere il catalizzatore delle angosce collettive, un «parafulmine per una società segnata da forti contraddizioni e distorsioni sociali, preda di sensi di colpa da tacitare con offerte sacrificali, […] con capri espiatori » (Marchi 1998, p.9).

«Genny A’ Carogna», in quanto paradigma, identifica il Folks Devil degli studi sociologici, quella figura indispensabile alla società per catalizzare le nevrosi e le angosce collettive non elaborate. Proprio per questo ha la necessità di elevare muri divisori, cortine e spazi d’esclusione entro i quali rinchiudere gli «indesiderabili, i deprecabili, i sanzionabili» (Marchi 1998, p.10). Di esclusioni e perimetri, d’altra parte, il neoliberismo, di cui la «società della sicurezza» è una piega, si nutre. Come affermava Baudrillard: «la società dei consumi vuol essere come una Gerusalemme accerchiata, ricca e minacciata» (Baudrillard 1976, p.32).

Indubbiamente il carattere più evidente del paradigma «Genny A’ Carogna» è la violenza: vera, presunta o soltanto mimata, è la condizione scatenante del Moral Panic e la causa principale dello sdegno collettivo nei confronti degli atteggiamenti e dei comportamenti rivendicati con fierezza ed esuberanza fisica dagli ultras. La «violenza calcistica» è un dato acquisito e, proprio per questo, è il centro di gravità irriflesso di ogni giudizio sul Mondo Ultras. Eppure la violenza nello sport -e nel calcio in particolare- riguarda comportamenti e azioni molto diverse, che vanno dall’aggressione alla terna arbitrale (come accadeva sovente tra gli anni cinquanta e gli anni settanta del secolo scorso, Roversi 1990, p.90), alle proteste fuori dagli spogliatoi nei confronti della squadra – propria o avversaria-, alle invasioni di campo solitarie, a quelle di gruppo per festeggiare una vittoria o per sfogare una delusione. Ci sono poi le scazzottate sulle tribune che, oggi come ieri, hanno coinvolto tifosi di diversa età e condizione sociale; il lancio d’oggetti, l’accensione di artifici pirotecnici, il tentativo di occupazione del settore dello stadio in cui è dislocata la tifoseria avversaria e, avvenimento più eclatante, lo scontro tra gruppi ultras rivali, più o meno programmato per tempo, all’interno dello stadio o nei suoi immediati dintorni. Le tipologie di fatti elencati non esauriscono la casistica possibile, ma dovrebbero rendere l’idea della molteplicità di situazioni sussunte nel sintagma «violenza calcistica». La violenza ultrà, in questa panoramica, ha un posto tutto particolare perché sollecita, per il suo carattere rituale, organizzato e simbolico, un «perpetuo senso di allarme, una carica fobica che sembra manifestarsi in una vera e propria epidemia paranoide» (Marchi 2004, p.193). Apparsa come segno distintivo di un movimento che fa della turbolenza e del confronto fisico un segno distintivo, è inseparabile dal clima culturale e dai rivolgimenti sociali che contraddistinsero gli anni sessanta del secolo scorso. A differenza della violenza politica di quegli anni, la «violenza ultras» si caratterizzava per essere il frutto di una «comunità che si ritrova intorno a un ideale-totem (la squadra) e a un territorio liberato (la curva)» (Marchi 2004, p.196). Questa violenza, per quanto strano possa sembrare, non è senza regole; queste sono fondamentali per garantire la sopravvivenza simbolica del Mondo Ultras che in esse, attraverso esse, si riconosce. Non dobbiamo dimenticare che la comunità ultras è prima di tutto una «costellazione di godi-senso» che si regge nella condivisione di immagini e di simboli affettivamente contrassegnati. Anche la violenza, per essere condivisibile sotto l’aspetto del senso, non può essere priva di criteri attraverso cui ordinare una trama che diversamente risulterebbe caotica, anarchica, ferina. Per questo, l’esercizio della violenza ultras rispetta le regole non scritte di un codice tacitamente riconosciuto dai frequentatori delle curve. Un codice che pone dei limiti e delle esclusioni tra chi si riconosce come «ultrà» e i «cani sciolti» che in questo universo di senso non trovano posto. Usare le «lame» negli scontri, rubare gli striscioni o le pezze dell’avversario senza averle conquistate sul campo, non rispettare la parità numerica, attaccare donne, bambini o i semplici tifosi, sono soltanto alcuni dei comportamenti violenti che si pongono fuori dalle regole che fungono da criterio dirimente.

Gli studi sulla «violenza ultras» in Italia sono pochi; diversa la situazione per l’Inghilterra attenzionata in particolare dalle scuole di sociologia. Il fenomeno «hooligans» non è completamente sovrapponibile a quello «ultras», anche se nell’immaginario comune entrambi fanno riferimento alla «Terrace Culture, ovvero un gioco collettivo violento che non prevede la rissa estemporanea e individuale, bensì la volontaria [corsivo nostro]contrapposizione di due gruppi che mantengono lo scontro al proprio interno e lo interpretano secondo regole proprie» (Marchi 2005, p.14). La violenza è un elemento caratterizzante di questa che, a tutti gli effetti, è una controcultura che si riconosce nella partecipazione ad una sorta di «campionato parallelo a quello delle squadre che mira a un primato da raggiungere attraverso uno scontro codificato e limitato a quanti intendono partecipare al “gioco”» (Marchi 2005, pp.51-52).

Per valutare questa violenza si è solitamente adottata la grammatica morale, quella che offre maggiore riparo nel confronto con le situazioni che scatenano l’ansia sociale e le paure collettive. Lo stadio, più propriamente, essendo un laboratorio fondamentale per la comprensione delle logiche di governo nell’epoca del soft power, merita categorie diagnostiche più avvedute e utili, in grado di far risaltare le pato-logie che affliggono il segmento sociale in termini di immagini, discorsi e retoriche attraverso i quali si pratica l’arte del governo dei viventi.

 

 

Lo spettro della sovranità.

Resta un interrogativo –tra i tanti possibili- sullo sfondo di questa trattazione: perché il potere che induce, sollecita e condiziona le condotte ha bisogno di procedure d’emergenza attraverso le quali sospendere momentaneamente l’ordinamento vigente e le libertà solitamente riconosciute? E, di converso, perché il potere che ordina, vieta e amministra ha la necessità di scenarizzare la propria azione attraverso la formula «per ragioni di sicurezza» con tutto ciò che essa comporta? Un interrogativo che si raddoppia, dunque.

Secondo Foucault l’essenza del governo nella modernità consiste nel passaggio dalla sovranità alla biopolitica, un cambio più o meno netto che Foucault non chiarisce fino in fondo se e quanto sostituisca o completi il precedente modus operandi, ma che riassume così: «Insomma se il vecchio diritto di sovranità consisteva nel diritto di far morire o lasciar vivere, il nuovo diritto che viene instaurandosi sarà quello di far vivere e di lasciar morire» (Foucault 1997, p.207). Un potere che si fa carico della vita al posto di uno che somministra la morte. Questo cambio di paradigma, che una lettura veloce e superficiale potrebbe interpretare come escludente, deve più correttamente essere colto alla luce delle trasformazioni politiche che producono la democrazia-liberale da una parte e degli sviluppi economici dall’altra che determinano l’affermazione del liberismo e della sua soggettività: l’homo economicus . Come afferma Christian Laval: «Il governo moderno, come mostrato da Foucault, ha per riferimento, bersaglio e materiale questo uomo economico» (Laval 2012). In questa che è una congiuntura di medio periodo – tra aggiustamenti e ristrutturazioni interessa gli ultimi tre secoli della civiltà occidentale – irrompe il neo-liberismo con il suo progetto di trasformare la società predisponendo le condizioni giuridiche, sociali e politiche per costruire una società di mercato in cui gli individui operano per massimizzare il loro interesse in un clima di guerra permanente al fine di acquisire quelle che vengono percepite come «risorse rare» (Laval 2012). Il modello di riferimento è l’impresa e la logica è quella di mercato che celebra la concorrenza spietata e la competenza degli attori in campo di re-inventarsi continuamente (flessibilità) per massimizzare gli utili possibili. In tutto ciò, contrariamente a quanto sostenuto dalla vulgata, lo Stato non arretra per cedere il posto a quella categoria metafisica che è il mercato ma opera per pre-disporre le condizioni trascendentali affinché la «società di mercato» si realizzi effettivamente. Per trasformare questa società lo Stato si serve tanto del vecchio potere-sovrano, quanto del nuovo potere di induzione che «consiste nel guidare le possibilità di condotta, e nel regolare le possibili conseguenze» (Foucault 1989, p.249). Lo Stato e il mercato non sono due entità che si escludono a vicenda ma anzi concorrono per affermare la medesima logica trascendentale che ha come modello di riferimento l’impresa. La declinazione soft del potere funziona veramente solo se sullo sfondo resta, ed è ben presente alla collettività, lo spettro della sovranità positiva, quella che ordina, vieta e punisce: il classico diritto di vita e di morte. Come viene tenuto in vita questo spettro? Attraverso le procedure emergenziali della «società della sicurezza» che abbattendosi su un segmento della società identificato come anormale mostra per converso al resto della polis la misura del potere possibile. Le «procedure di emergenza», nel mentre mirano ad una «minaccia immediata e reale che bisogna eliminare sospendendo per un tempo limitato le garanzie della legge» (Agamben 2014), suggeriscono e rendono presente alla collettività «la vecchia potenza della morte in cui si simbolizzava il potere sovrano» (Foucault 1999, p.123). La carota ha sempre bisogno dell’ombra del bastone per essere più allettante.

C’è però dell’altro. Lo Stato per trasformare la società ha anche bisogno di procedure d’emergenza, cioè di atti legislativi eccezionali che adeguatamente scenarizzati diventino una tecnica di governo normale e permanente. Per strutturare una collettività di uomini-economici che pensano, agiscono e desiderano in un regime di perenne concorrenza serve una politica decisa, in grado di tagliare corto con le discussioni infinite e gli impaludamenti tipici della dialettica parlamentare. Una volta normalizzata la procedura inizialmente legittimata attraverso la formula «per ragioni di sicurezza» è aperta la via per l’applicazione «normale e permanente» (Agamben 2014) della decretazione d’urgenza. Oggi gli stadi, domani – chissà – le scuole, la sanità.

 

 

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