Nonostante un doppio caffè mandato giù di fretta, a pochi metri dal terminal degli autobus, il sonno domina ancora il mio corpo e la mia mente. Salgo sul pullman quasi distratto, convinto di poter chiudere gli occhi fino a destinazione. La partenza è prevista per le 7,40. Proprio quando uno scossone fa oscillare il torpedone a destra e a sinistra. Il mio cuore si gela. Capisco che non si tratta della semplice vibrazione relativa alla messa in moto. E infatti pochi secondi dopo il cellulare comincia a vibrare freneticamente. “Hai sentito la scossa? Questa era fortissima”. Le voci si rincorrono, l’Ansa non aggiorna immediatamente il suo sito e qualcuno parla addirittura di un terremoto superiore ai sette gradi. Non fatico a crederlo, avendolo sentito in maniera così forte e repentina a Roma. So che nella mia città può aver causato qualche crepa, ma immagino immediatamente gli ulteriori disastri che può aver provocato nei luoghi ormai flagellati da questa piaga. Nessun morto per fortuna, apprenderò più tardi. Ma ancora il cuore dell’Italia infilzato senza pietà. Ancora la paura, le case che vengono giù e la disperazione per chi in un momento ha perso tutto o quasi. Mi si perdoni, ma non riesco proprio a iniziare questo pezzo in altro modo. Anzi, capirò solo più tardi che forse il passare una giornata “normale” è il migliore degli antidoti per chi questo dramma lo vive sulla propria pelle ogni giorno.

Sterzo bruscamente verso il faceto. Vicenza è una delle piazze calcistiche che ho segnato sulla mia cartina per questa stagione. Di motivi ce ne sarebbero tanti. Da quella banda di ragazzi guidati da un certo Francesco Guidolin, che nel 1997 mi fece avvicinare definitivamente a un certo tipo di calcio, alla storia lunga e ultracentenaria di un club tra i più prestigiosi nella Penisola. Finendo con lo stadio: il Romeo Menti. Custode di novelle e favole pallonare, nonché tra i più belli e affascinanti del nostro Paese. Non ci sono mai stato, ed è una grave pecca per chi sbava appresso a un certo tipo di impianti. Per me la vera emozione non è trovarmi di fronte agli occhi lo Juventus Stadium o l’Allianz Arena, ma poter vedere sacri templi dove hanno giocato icone del calcio italiano, ma anche perfetti sconosciuti che ho imparato a pronunciare grazie agli album Panini o ai primi turni di Coppa Italia visti in televisione. Lo stadio è un qualcosa di animato, è una persona che diventa sempre più affascinante ogni anno che passa; perché può raccontare tratti di vita vissuta e catapultarti in un passato sconosciuto. E il Menti, dal 1935, troppe cose avrebbe da dire.

Certo, gli anni d’oro di quel Vicenza di Guidolin sembrano ormai lontanissimi ricordi, che tendono a svanire stagione dopo stagione, per colpa di gestioni scellerate, campionati mediocri e obiettivi sempre e comunque al di sotto di quello che meriterebbe una città che ha visto esplodere Roberto Baggio e Paolo Rossi. E questo anche gli ultras lo sanno bene. A loro ho legato uno dei primi ricordi d’infanzia. Un Roma-Vicenza stagione 98/99. 3-0 per i giallorossi, un risultato che permise a Zeman di uscire dalla sua classica crisi invernale. Dal mio posto in Distinti Sud si vedeva nitidamente il settore ospiti. Se chiudo gli occhi mi pare ancora di distinguere lo striscione dei Vigilantes e qualche bandierina agitarsi durante l’incontro, mentre alla mia sinistra i tamburi ritmavano i cori del Commando. Mi fa sempre piacere ricordare quella giornata, sia per la sinergia con mio padre, seduto vicino a me, sia perché per me era stata una vittoria importante: avevamo battuto i detentori della Coppa Italia 1997, nonché semifinalisti di Coppa Coppe contro il Chelsea di Zola. C’è poco da fare, quando in una semplice partita riesci a farti i film e vedere una masnada di cose, anche poco inerenti, già da moccioso, vuol dire che il tuo cervello ha proprio qualcosa fuori posto.

Per farla breve, girare attorno al Menti mi emoziona. Noto peraltro come, a differenza della maggior parte degli stadi, qua si sia usata una mano abbastanza leggera nell’apposizione di recinzioni e cancelloni, strumenti che quasi ovunque hanno deturpato la bellezza vetusta dei nostri impianti. Sicuramente il fatto che non si tratti di una gara a rischio, fa sì che il clima rimanga vivibile e gioviale, senza schieramenti di eserciti e plotoni più degni di una zona di guerra. Tra vicentini e perugini non ci sono acredini, e oggi a tener banco è forse il mero aspetto sportivo. Se da una parte gli umbri stanno attraversando un periodo di grazia, interrotto solo dal capitombolo interno contro il Carpi, dall’altra i veneti impegnano le zone basse, dopo la bruciante sconfitta di Brescia, maturata in rimonta negli ultimi minuti. Contro una rivale storica.

Bisogna partire da questo presupposto per fare qualsiasi tipo di analisi. Incastonando il tutto nell’attuale contesto sociale e curvaiolo. Il fatto che già un paio d’ore prima della partita attorno al Menti circolino diversi tifosi, radunatisi davanti a una birra o un grappino, fa capire come le delusioni non abbiano scalfito una fede e una tradizione che sono rimaste impregnate nel tessuto di questa città. Il Vicenza Calcio si fonde con la sua popolazione. La Città del Palladio, tra i suoi palazzi, la sua Cattedrale, la sua Basilica e i suoi due fiumi che l’attraversano soavemente, respira calcio ed ha ancora voglia di respirarne a livello importante. E partite come quella di oggi sono forse l’emblema massimo di come i tifosi biancorossi  non vogliano rinunciare al proprio amore, anche se questa situazione di stallo li sta portando letteralmente all’esasperazione.

Per ritirare gli accrediti passo davanti al settore ospiti. Da poco sono arrivati tre pullman di tifosi perugini. So che più di qualcuno ha rinunciato alla trasferta, essendo stato colpito dal sisma in prima persona. Fondamentalmente si tratta di una presenza composta dai tre principali gruppi della Nord, come sempre molto ordinati nel disporre i propri striscioni, accompagnati dai gruppi più piccoli e dai soliti club che non lasciano mai solo il Grifo. Valico l’arco monumentale che dà accesso al Menti notando con piacere quanto da queste parti gli steward siano rimasti cordiali e tranquilli, senza eccedere nel proprio ruolo. Una volta strappato il biglietto sono dentro e posso salire lentamente le scalette.

L’ora legale fa sì che alle 17,30 le luci del giorno siano quasi tutti andate via, lasciando spazio a un’umidità che ti entra nelle ossa.  Le squadre stanno per terminare il riscaldamento, mentre le tifoserie cominciano il loro, con cori e bandiere. Il 30 ottobre del 1977 se ne andava Renato Curi, storico giocatore del Perugia stroncato da un arresto cardiaco durante la sfida tra i biancorossi e la Juventus. Curi per i supporter del Grifo è molto più di un giocatore. È un’icona, un simbolo di riconoscimento, un orgoglio. Al Comunale di Pian Massiano, ora intitolato a lui, viene spesso ricordato con striscioni, e oggi sono numerosi i cori che ne invocano il nome e la memoria. Emblematico è il bandierone degli Ingrifati, sventolato con orgoglio in ogni partita.

Guardo con curiosità tutto il perimetro dello stadio. Avrò visto centinaia di volte le fototifo del Vicenza degli anni ottanta. Ricordo, e onestamente non so perché, in particolar modo le sfide con Triestina, Verona e Atalanta. Quello stadio che sembrava avere due anelli, quegli striscioni semplici e senza fronzoli, i tamburi poggiati su tutta la balaustra. Sono immagini che danno la misura di quel tempo, anche per chi non l’ha vissuta. Spesso mi chiedo come facciano i più anziani a metter ancora piede nelle curve di oggi? Ci vuole coraggio, oltre a un amore immenso per tutto quello che si fa. La società italiana è mutata in maniera incredibile negli ultimi quarant’anni, al punto che permettere un collegamento continuativo tra nuove e vecchie generazioni dovrebbe essere l’obiettivo maggiore di tutti i fenomeni aggregativi, per non lasciare il nostro Paese in mano a una classe di rimbambiti, incapaci di sperare, sognare e lottare per quello che gli viene quotidianamente tolto. Compreso il diritto ad assistere a una partita da tifoso libero.

Rispetto al recente passato è cambiato anche il settore ospiti, non più confinato in un angoletto, ma ampliato a tutta la Curva Nord. Forse uno spreco, visti i numeri relativamente bassi delle trasferte contemporanee. Di certo rimane discutibile la scelta di aggiungere ulteriori barriere tra questa parte dello stadio e i Distinti, dove sono sistemati dei gruppi vicentini. Si dovrebbe capire che nel 2016, con tutte le telecamere esistenti e il lavoro di terrore che è stato fatto nei confronti del tifo calcistico, varrebbe almeno la pena abbattere tutte le barriere esistenti negli stadi. E magari evitare di rimpinzare gli stessi con gli odiosi seggiolini numerati, che vanno a togliere il fascino delle gradinate. Ma qua parliamo di estetica, e chi si occupa di gestire gli impianti sportivi, con tutta probabilità ha un senso della stessa pari a zero.

Tornando alla sfida del tifo, tanto vale assolvere subito al giudizio sui perugini. Il successo finale per 4-1, con una gara mai in discussione, offre agli ospiti la possibilità di seguire il match senza troppi patemi. Tuttavia la Nord in trasferta è una macchina perfetta: bandieroni, manate, sciarpate e cori a rispondere. Eseguiti da tutti e sempre in maniera impeccabile. Ottime le esultanze e ovvio il ringraziamento finale a una squadra che sta facendo davvero un ottimo torneo.

Su fronte berico il discorso è certamente più complesso. Nella prima frazione, che si conclude sullo 0-3, gli ultras del Lanerossi cercano di scuotere i propri giocatori come possono, mentre nella ripresa optano per il silenzio, seguendo il match da seduti e risvegliandosi negli ultimi cinque minuti per contestare. Ora, personalmente non sono un grande ammiratore delle contestazioni tout court, e se uno prendesse il singolo campionato potrebbe anche giudicare la stessa abbastanza preventiva. Credo che invece vada fatto un lavoro di comprensione più ampio. Come detto in precedenza, anni di insuccessi e umiliazioni hanno chiaramente sfinito il pubblico di casa. E di primo impatto neanche si direbbe, a giudicare dai buoni numeri casalinghi e dalla bella macchia che la Sud è solita produrre in trasferta. Appare tuttavia palese che una piazza come Vicenza sia giunta al limite della sopportazione e in questa serata abbia mollato gli ormeggi, lasciando trasparire tutta la propria amarezza. Lo sanno anche i giocatori, che a fine gara vanno sotto al cuore del tifo tentando di chiedere scusa.

Ma i fischi si sprecano, a testimoniare la rabbia che di colpo pervade tutto l’ambiente. Il mio treno partirà dopo appena mezz’ora, non ho tempo per metabolizzare subito quanto visto. Ma lascio lo stadio con una sensazione di infinita curiosità e soddisfazione per aver messo piede in un questo luogo, finora visto solo in televisione. La realtà è sempre ben differente da uno schermo al plasma, e anche in questa situazione ho potuto respirare a pieni polmoni l’aria creata dai tifosi di casa, le bestemmie durante la partita e le frasi urlate in dialetto stretto. Il calcio è questo. È cultura, società e storia. Non me ne accorgo certo oggi, seppure passando sotto le scalette che portano al Monte Berico ne ho l’ennesima conferma.

Simone Meloni.