C’è un episodio della mia militanza da ultras che m’è rimasto fortemente impresso. Non ero più da tempo quello che si definisce una nuova leva. Per età e per ruolo nella mia curva, mi toccavano alcuni obblighi, morali prima ancora che “istituzionali”, soprattutto verso le giovani leve.

Dalla nostra generazione alla successiva il modo di andare allo stadio aveva già subìto cambiamenti importanti: se parlavi con qualcuno dei ragazzini potevi riscontrare una conoscenza generale della materia ultras che alla loro età, fra noi della prima guardia, avevamo solo in pochi. Però per strada, nel frattempo, si era persa un po’ di quella genuina e sana ignoranza che faceva di noi un prodotto tipico della propria terra e del proprio contesto sociale.

Presi dalla sciocca utopia di voler cambiare il nostro piccolo mondo, ci infilammo in un vortice di riunioni e manifestazioni ultras in cui contavamo come il due alla briscola, ma che sinceramente ci permisero di crescere molto in consapevolezza e maturità. Peccato solo che tutto ciò, assieme ad altri incontri più ludici (memorial, raduni, feste ultras) ci portò ad assomigliare sempre più agli altri e sempre meno a noi stessi: anche il più ignorante fra noi era capace di sostenere un dialogo con un altro ultras, foss’anche per pochi minuti e retto su un paio di frasi fatte imparate a memoria, ma andò creandosi una sorta di “elitarismo” bieco per il quale perdemmo i più esterni al nostro zoccolo duro, che però erano capaci di sostenere confronti più importanti con altri ultras, in altri versanti, fregandosene bellamente di astruse regole di ingaggio, codici e interpretazioni che per sancirle era già ora di giocare il girone di ritorno.

Stavamo progredendo e stavamo regredendo allo stesso tempo. Per osmosi, si assunse un campionario di atteggiamenti e cori sulla falsariga “violenza & mentalità” quantomeno posticci: per noi vecchi, ai vecchi tempi, quelle parole non esistevano, esistevano atti, erano cose che o si facevano o non si dicevano. La violenza “simbolica” era per noi una stronzata, esisteva solo quella reale che tenevamo come estrema ratio, ritenendoci un gruppo non portato o preparato allo scontro ma che, consapevolmente, accettava il “gioco di ruolo” con tutte le sue regole. Nel piccolo cercavamo di restare coerenti con noi stessi e con le nostre possibilità, non ci creavamo nemici immaginari solo per riempirci la bocca e se ci capitava, e quando ci capitava, il confronto con questo nemico cercavamo di onorarlo al meglio. Non potevamo millantare rivalità col Real Madrid se da secoli ci barcamenavamo nel nulla calcistico, non potevamo buttarci come kamikaze in maniera gratuita sotto il treno in corsa della repressione, sputando in faccia alla polizia o lanciando loro torce addosso, se poi ci conoscevano tutti e ci avrebbero “bevuti” dopo due secondi. Bisognava farsi furbi, agire diversamente, il che non voleva dire odiare meno, ma odiare meglio, se possibile, per quanto il cieco furore degli adolescenti magari poteva non comprenderlo.

Bene, questo lunghissimo pistolotto, solo per contestualizzare un coro che partì incontrollato, fuori dalla regia del megafono e della balaustra dei più anziani. Era il noto “Mi diverto solo se vedo uno sbirro per terra…”, al che mi venne naturale ed istintivo prendere di petto i fautori del coro e chieder loro, alla luce dei 30/40 kg di media, se sarebbero stati là davanti con noi a darli sul serio i “calci e pugni nella schiena” o se ci saremmo trovati tra soliti noti quando il gioco si sarebbe fatto più complicato.

Venendo ai giorni nostri, più specificatamente all’indomani degli attentati di Parigi, tutti abbiamo potuto ammirare il rifiorire della mitomania più stupida, comprendente la decontestualizzazione di frasi i cui intenti primari volevano essere puramente goliardici.

Senza addentrarci in disamine politiche che richiederebbero altro tempo ed altri luoghi, con uno sforzo di comprensione si può pure arrivare a capire la dinamica che porta alla partecipazione commossa (seppur fine a se stessa) del dolore del vicino, incluso quello del suo cane la cui vita vale più di quella di una persona in Siria. Non per innescare una macabra gara a chi soffre o muore di più, ma per un’equa bilancia in cui le vite e le morti siano tutte uguali, quelle dei cani come delle persone, persino di quelle più lontane geograficamente o mediaticamente meno attraenti.

Misurate e discrete le parole di alcune tifoserie, altre non hanno saputo far di meglio che massificarsi ad un hashtag, ma passi pure. Non si riesce però proprio a comprendere quelle tifoserie che, forse dopo una crisi da sovraesposizione televisiva, si sono svegliate guerrafondaie ed hanno invocato bombardamenti via striscioni e cori, aizzando quegli stessi cagnacci che la domenica mordono il loro culo con la repressione, sbraitando contro un nemico astratto, avvolto nelle nubi del mistero e che più di qualcuno insinua (con valide motivazioni) che non sia altro che un fantoccio mosso da quelle stesse mani che hanno bisogno di sentirsi libere e legittimate a “esportare democrazia” sotto forma di bombe, reimportando profitti via petrolio.

Il confine è sottile, per cui non parliamo di politica, parliamo di ultras: è o non è il movimento degli ultras un movimento anti-sistema? Per quale assurdo motivo dovrebbe mettersi a fare da stampella alla sovrastruttura degli Stati, dei Governi, dei Ministeri, delle Polizie sotto il cui peso è anch’esso schiacciato? Cosa dite?!? È una “guerra culturale”?!? E quando mai la cultura dominante del nostro paese è stata inclusiva delle rivendicazioni ultras, quand’anche sacrosante? Dovremmo dunque dare ascolto a Paola Ferrari e i suoi amici (inutile persino rimembrare tutte le loro uscite contro gli ultras) mettendoci a fare i delatori e i cacciatori di nemici altrui? Aspetta, com’era la legge del beduino? Il nemico del mio nemico è…? Anch’esso il mio nemico?
Non parliamo neanche poi dei mitomani alla “Isis 50 vs 50 con le mani quando volete”, “Isis vi stiamo aspettando” ed altre perle spesso infarcite di orrori grammaticali, scritti in tutto maiuscolo o con una coda finale infinita di puntini di sospensione o punti esclamativi (con in mezzo qualche “1” sfuggito al tasto “Shift”). Per quanto le analisi grafologiche abbiano scatenato controversie all’interno della comunità scientifico-psicologica, qualche nesso interessante a corroborare tesi lo troverebbero sicuramente in mezzo a questi scarti da Reparto Psichiatrico.

Ad ogni modo, la domanda importante è: come si dovrebbe regolare lo scontro, secondo la legge islamica o “la legge degli ultras, si sa…”? Esattamente 50 e 50? Chi va in trasferta in 2/3 pullman deve poi costringere gli altri a guardare? Chi va con i furgoni 9 posti invece, fa con il portiere volante? Ci sarà anche la pesata prima di salire sul ring? Pesi massimi contro pesi massimi? Se c’è qualche peso welter che rimane spaiato come si fa? Sono drammi di natura pratica che devono trovare urgente soluzione prima di partire per una guerra.

Ancora: chi perde poi deve sciogliere il proprio gruppo? Non è che poi, anziché prendere e portare a casa, scrive un comunicato cercando di commuovere il web su come siano stati attaccati vigliaccamente, in inferiorità numerica, ecc.? Magari dando il la ad una guerra di comunicati incrociati sui quali poi le due fazioni faranno guerra di tastiere?

Scherzi a parte ragazzi, abbiamo sfondato il muro del ridicolo con certe cose: torniamo ad occuparci di quello che ci compete, dentro ed attorno le mura dei nostri stadi, di repressione, di caro-biglietti, di spazi sociali negati, settori chiusi, trasferte vietate. Tra i “No alla tessera”, “No alla pay-tv”, “No al sabato” e tutti gli altri “No” in cui ci siamo imbarcati in battaglia, non l’abbiamo spuntata nemmeno mezza volta, nemmeno nel più banale dei casi e adesso vorremmo risolvere le guerre e occuparci di geopolitica e di mondializzazione? Al fianco dell’esercito italiano domenicalmente schierato nei nostri stadi? A scodinzolare sotto padroni? Ma lo sapete che cos’è una guerra poi? Guardate che non è “Call of duty” alla Playstation!
Suvvia, ma di che parlate??? Siate seri, siate ultras che è il minimo richiesto e che molte volte nemmeno soddisfate.

Matteo Falcone.