Incrocio fugacemente lo sguardo della sciarpa che mi lancia un’occhiata di rassegnazione. È capitato che nel nome del dress code casual, in trasferta sia rimasta al sicuro. Ma stavolta rimane riversata sul divano. È una sensazione strana quella di lasciarla lì per una partita in casa mentre l’avevo presa con convinzione solo qualche settimana prima per la manifestazione di protesta contro l’attuale società.
Un comunicato dei gruppi della Curva annuncia che non diserteranno, come la stragrande maggioranza delle persone si sarebbe aspettato, ma entreranno allo stadio, anche se con l’obiettivo di contestare. Io e Antonio abbiamo acquistato il tagliando di curva solo poco prima dell’inizio del match anziché accaparrarcelo, come da tradizione, non appena aperta la prevendita. Come se fossimo indecisi fino all’ultimo. Al solito bar dove li acquistiamo, il deserto. Appena rientrato in macchina con i lasciapassare cartacei, Massimo mi guarda: “Ma ce cazze ste sciam a fa?”. La risposta, dentro di noi, la conosciamo entrambi.
In passato abbiamo disertato con convinzione, un sentimento dettato anche dalla presa di posizione della curva che aveva assunto una postura oltranzista. Nel 2017 aveva funzionato, nel 2022 invece no. Non ci siamo mai sentiti delle pecore, spinti come siamo da una visione leninista della “linea di partito”, anche se siamo cani sciolti.
Per noi andare allo stadio è una concezione del calcio e del tifo assolutamente peculiare, significa farlo soprattutto partecipando a una pratica collettiva secondo una certa postura: in piedi, con le mani e con tutta la voce che abbiamo in corpo. È il modo tipico di tifare: nello scomporsi, facendolo insieme. Senza gli ultras questo non è possibile e tutto perde di significato, con loro tutto assume una valenza estetica unica, imparagonabile a qualsiasi altra pratica, anche quando c’è solamente scoramento per una situazione sportivamente drammatica per non dire infame.
Saliamo i gradoni dopo aver superato nervosamente i quantomai pervasivi controlli di sicurezza. Siamo pochi, pochissimi, poco più di un migliaio. Sembra passato un secolo dalla caccia al biglietto e dall’entrata-a-spinta dell’ultima casalinga col Vicenza. Una situazione che per gli steward circondati dal voyeurismo delle guardie sembra fomentare invece uno stimolo alla perizia, con controlli minuziosi che fanno strage di accendini. E metti giù il mio inalatore!
Gli spalti restituiscono la dimensione dello sconforto. La gradinata conta una ventina di persone. La tribuna pochi di più. Il settore ospiti, ancora sotto sequestro, regala l’ennesima presenza dell’assenza, anche a causa dell’ennesimo divieto che ormai ha i canoni della normalità. In curva, invece, il “nostro posto”, che di solito è affollato, espone solo cemento. “Ce cazze amme venute a fa?”, non lo diciamo ma lo pensiamo. Siamo costretti a convergere verso il centro, così come fanno anche i gruppi ormai decimati dalle diffide, che provano così a ridurre i vuoti colmati anche grazie a piccole maree di ragazzine e ragazzini che, in una città che gli ignora, con la loro impertinente presenza rivendicano spazi e voce. Alcuni non arrivano forse neanche all’adolescenza. Un luogo diventa significativo non solo grazie alle prassi e ai segni che lo riempiono ma, forse, soprattutto quando mancano. La curva è spoglia, sulla balconata un unico ma eloquente “Liberate il Taranto” a caratteri cubitali, scritto nero su bianco, come se fosse un manifesto funebre. Un luogo che reca i segni delle sue assenze anche nei tanti volti che mancano e in quelli che ritornano, come un noto ultras che rimette piede in curva salutato da uno striscione a lui dedicato, questa volta su sfondo rossoblù: “Bentornato professore”. L’inizio è caratterizzato da cori contro la proprietà e, lo so già ma è bello riscoprire, (che) la forza con cui li canto mi permette quasi di giustificare la mia presenza: io sono lì per quello. Un manipolo di ragazzini senza alcun adulto ci guarda straniti. Un po’ mi rivedo in loro e provo ad essere da esempio. Sarei soddisfatto se nei loro racconti fossi un personaggio tipo “ti ricordi quel pazzo che cantava contro il presidente???”.
Nel post-Vicenza, interrogandoci su alcune strategie, sottolineavamo come non potesse non contare moltissimo in termini di esperienza l’assenza dalle trasferte per tanti anni per la maggior parte della tifoseria. Come non può valere lo stesso per le partite in casa? I ragionamenti infatti partivano dal presupposto che la diserzione – per quanto una scelta giusta che ci rivendicavamo con profonda convinzione – aveva comunque dei costi enormi nella dispersione di capitale umano. Perché ad essere tifoso e ultras non è una cosa che si impara sui libri e neanche in mezzo alla strada – anche se sono due cose che possono sempre aiutare – ma si impara solo e solamente vivendo lo stadio in un certo modo. Tifare è una pratica situata. Allora permettere a tanti ragazzini di sperimentare una contestazione lascerà un’impronta che potrebbe cambiare la loro postura nei confronti della loro esperienza del mondo e della vita. E già questo, da solo, potrebbe rappresentare una giusta motivazione all’entrare allo stadio, anche se il costo è continuare a foraggiare, seppur in minima parte, la peggiore proprietà della nostra storia pallonara.
Ma, dicevamo, tifare è una pratica situata. Certo, i cori classici non attecchiscono, quei timidi e sporadici tentativi dalla balaustra centrale di alternare il registro della contestazione non contagiano e sembrano quasi morire sul nascere, nonostante gli sforzi di chi dedica le sue energie al tamburo. Ma nel secondo tempo, forse rinfrancati da un mix di birre e insperata situazione di vantaggio, probabilmente anche perché il Taranto attacca sotto la curva, una sorta di memoria esperienziale si insinua nel corpo tifoso ridestandolo da un incantesimo per instaurare il solito. “Mi diverto solo se… segna sotto la curva!”, ci coglie quasi come un tradimento. C’è anche il momento di “Forza cantiamo perché, sempre con te noi sarem!”, un coro dalle note drammatiche, quasi trascinato dalla forza della disperazione. Che non tarda a presentarsi. L’Altamura prima pareggia, poi assedia definitivamente il Taranto e conquista i suoi primi tre punti nel professionismo. Proprio allo Iacovone. Al fischio finale, la rabbia prende il sopravvento, anche se i giocatori vengono in qualche modo risparmiati. Non tutti però, almeno per quel che vale a titolo personale. Mi lancio istintivamente verso la balaustra nei pressi gli spogliatoi. Da casa sono arrivate le immagini dell’autore del nostro gol del vantaggio, uno sconosciuto di cui non ho neanche voglia di scrivere il nome, che per festeggiare fa un gesto provocatorio. Gliene voglio dire quattro. Devo esserci riuscito: un amico che è per la prima volta a bordo campo mi ha confessato la sua sorpresa nello scoprire che, chi calca il rettangolo verde, sente ogni singola parola. Quasi come se ci fosse l’acustica di un antico anfiteatro. Solo che, forse loro malgrado, gli spettatori sono quelli che calpestano l’erba.
Se fossimo d’accordo con Eco quando dice che la soggettività semiotica è negli avverbi, be’, allora quella di chi era allo stadio per la partita casalinga con l’Altamura, la prima a porte aperte della stagione, non può che essere “nonostante”: avverbio esplicativo delle prassi della militanza. Come se fosse manifestazione plastica dell’ostinazione: «una disposizione a perseverare in una direzione decisa in precedenza, senza lasciarsi scoraggiare dagli ostacoli. Presenta la particolarità di mantenere il soggetto in stato di continuare a fare, fare malgrado x» (Greimas e Fontanille, Semiotica delle passioni, pp. 55-56). Assistere a questo schifo, in prima persona, coi nostri corpi, forse è masochismo ma anche una delle possibili declinazioni della militanza. E non è raro che le due cose finiscano per coincidere. Nell’attesa spasmodica di giorni migliori. Per non lasciare che il tifare il Taranto non si trasformi definitivamente, più di quanto non lo sia già, in una passione triste.
Torniamo a casa meno sconsolati del previsto. Come se in fondo conoscessimo già il nostro destino. La morte del gioco, certo. Ripenso a quel “Liberate il Taranto” che, nero su sfondo bianco come ogni striscione di protesta, mi ricorda un manifesto funebre. Alla fine quello che stiamo vivendo, sia chi c’era ma anche chi ha giustamente deciso di disertare, è una morte annunciata e quello che stiamo facendo è praticamente l’elaborazione collettiva e individuale di un lutto. E come ogni lutto, ognun si senta libero di viverlo, sperimentarlo, elaborarlo come meglio crede. Ma, a parte questo, a morire è anche la nostra voce. Anche questo è un segno inequivocabile. Non sappiamo se è giusto, non sappiamo se sarebbe stato meglio rimanersene a casa. Però forse una convinzione l’abbiamo maturata: hanno creato un deserto, certo. Ma non c’è modo per lasciare che lo chiamino pace.
Testo di STiT
Foto di Fabio Mitidieri