Contando con gli occhi, siamo di nuovo pochi. Qualcuno trova giustificazioni nel primo vero freddo della stagione, che terrebbe lontano “le famiglie”, ma c’è chi è pronto a smentire l’ipotesi: «tre anni fa col Catania faceva lo stesso freddo e non eravamo pochi [curva nord sold out, ndr]. Era fine novembre come oggi – osserva Gaetano –, me lo ricordo perché era la prima partita dopo la morte di mio padre. 2 a 0 per noi, poi 2 a 2, al 94° il 3 a 2 di testa di Bellocq su calcio d’angolo. Quedda palle mborte l’ha mise papà».
Lo stadio non è un semplice ammasso di cemento. È uno dei posti che più mettono in discussione la nozione di non-luogo proprio perché, anche se viene attraversato solamente una ventina di volte l’anno – salvo eccezioni di un calcio a noi ancora sconosciuto – ridisegna le geografie del significato di interi territori. Anche se si cerca di trasformare questi spazi per riempirli delle solite cose che vediamo ormai ovunque in giro per il mondo, per omologarli a quello che già viviamo quotidianamente, sarà forse per il loro essere così diversi nel rappresentarne la rarità che tanto ci affascina. E che, insieme alle battaglie che si consumano al loro interno, li rendono posti leggendari. Che diventano non solo il teatro degli scontri sportivi ma anche della produzione di memoria, quella popolare con i suoi eroi e i suoi volti che in certi anfratti non conoscono oblio. Era accaduto qualche settimana prima per Massimo Battista, tifoso carismatico che ha lottato tanto per la sua terra e che è stato strappato alla vita dal male che a Taranto fa parte del pacchetto e non fa più notizia. Ed è accaduto di nuovo sabato pomeriggio allo Iacovone: sono passati venti anni dalla morte di Antonello Sibilla, un murales nell’antistadio della Curva Nord lo ritrae in una posizione diventata ormai iconica: occhiali da sole, petto nudo, sciarpa al collo, braccia protese al cielo e urlo a sostegno del Taranto. E la capacità di consegnare una posizione stereotipicamente ultras alla leggenda con stile. Applausi e cori toccanti mantengono la memoria di una figura che ha lasciato il segno nella tifoseria tarantina.
Sugli spalti, dunque, siamo forse poco più di un migliaio. Se escludiamo una gigantografia di Antonello supportata da una storica pezza rossoblù «Antonello vive» e uno dei più bei bandieroni che sono mai stati sventolati in Curva che lo raffigura, vige lo stesso piglio che ha caratterizzato le ultime giornate casalinghe. Il solito striscione monocromo «Liberate il Taranto», poche sciarpe quasi celate, nessun’altra bandiera, sistemati nell’anello superiore a lasciar vuoto quello inferiore, come a presentificare l’assenza, come a prendere le misure rispetto a quello che si spera possa svilupparsi col cambio societario, a prendere le distanze da quello che c’è ora, anche se c’è qualche segnale che lascia aperta la porta della speranza. Anche se, riprendendo Monicelli, la speranza è come le squadre B, una cosa inventata dai padroni:
la speranza di cui parlate è una trappola, una brutta parola, non si deve usare. La speranza è una trappola inventata dai padroni. […] Sì siete dei precari, ma tanto fra 2 o 3 mesi vi riassumiamo ancora, vi daremo il posto. State buoni, andate a casa e… stanno tutti buoni. Mai avere speranza! La speranza è una trappola, una cosa infame inventata da chi comanda.
Sembra che nulla come il Taranto insegni questa importante lezione, anche a costo di erodere la capacità di sognare. Ma proprio la speranza è quello che permette ad alcuni tifosi di rimanere stupiti dalle poche presenze allo stadio. Basterebbe inquadrare la situazione per avere la risposta: il Taranto, al momento, è ultimo con appena 3 punti, anche se “sul campo” ne ha conquistati 13. In settimana – l’ennesima tribolata – sono arrivati altri punti 6 di penalizzazione, che si aggiungono ai 4 già comminati, senza dimenticare gli altri 4 della stagione precedente che hanno strappato il secondo posto in classifica. In tutto fanno 14, tutti a causa di una quasi ex società che è stata protagonista di uno dei più odiosi crimini sociali, il mancato e tardivo pagamento degli stipendi in una categoria dove molti calciatori guadagnano cifre normalissime. La Curva, come al solito, lo ricorderà a più riprese. Senza dimenticare le tre pappine sul groppone con cui la squadra è tornata da Cava de’ Tirreni appena sei giorni prima; il bellissimo striscione dei locali contro la tragedia sociale dell’Ilva non fa che rendere la sconfitta ancora più indigesta, non solo per l’assenza nel settore di nostra competenza ma anche perché, con questo gesto, si confermano tra i nostri migliori nemici in assoluto. La società entrante non è ancora riuscita a tendere la mano ai tifosi, magari ritoccando un prezzo dei biglietti francamente esagerato per lo spettacolo offerto, così come non sta brillando per la comunicazione. E col Benevento, una squadra attrezzata per la categoria che ha alle spalle una società modello, era prevedibile un’imbarcata di quelle storiche, come quella ad agosto per la coppa italia di serie C, un 6 a 0 che passerà purtroppo agli annali.
Certo, la palla è rotonda e la partita – sì, insomma, davanti a tutto questo sembra quasi superfluo parlarne – sembra quasi dimostrarlo. Il Taranto erge un fortino. Resiste ad un Benevento che sembra essere sempre sul punto di segnare ma che più passa il tempo più entra in difficoltà. Anche sugli spalti si prende coraggio. Ogni punizione guadagnata è un sospiro di sollievo. Ogni fallo laterale è un applauso di incoraggiamento. Un incredibile errore a porta vuota dei sanniti, quasi allo scadere del primo tempo, proprio sotto i nostri occhi, viene omaggiato da un’esultanza collettiva che sembra quasi quella di un gol segnato. Fino a quando, intorno alla metà del primo tempo, un paperone di Del Favero permette al Benevento di sbloccarla. La partita, sul campo, finisce lì. Sugli spalti ne comincia un’altra. Si inizia a cantare «Ritorneranno gli amici miei / e tutti insieme torneremo a fare guai!», cui avevamo già parlato e che, come coro che fa da collante, si candida davvero a diventare l’inno della nostra tifoseria, che, come tutte, è martoriata emotivamente dalla scomparsa di sempre più persone care e da una repressione che non concede sconti, a cui si aggiunge il peculiare lato sociale e politico dell’emigrazione di massa che ormai la caratterizza. E proprio mentre si cantano queste parole, il Benevento raddoppia. Nessun tifoso può esulare al gol delle streghe, complice l’ennesimo divieto che ha normalizzato l’assenza degli ospiti. Ma, a rimarcare il suo significato, i decibel sul coro si alzano, come accaduto a Potenza, verso la fine, sotto di 5 a 0. Sempre con lo stesso coro che, come in questi casi, fa prevalere la sua portata nostalgica, definendo un quadro commovente. Metterci la voce significa metterci il corpo e, prendendo questo limbo prossimo all’inferno, significa abitare la contraddizione. E spesso si rivela una forma di resistenza.
Triplice fischio. Squadra e curva si salutano freddamente. Prima di scendere i gradoni, un piccolo ultimo saluto allo stadio così come lo conosciamo. Tra qualche giorno cominciano i lavori di demolizione propedeutici alla sua ristrutturazione. «Sarai sempre la nostra casa!», ripetiamo malinconicamente. Continuando a mescolare ricordi personali alla memoria collettiva. Con la promessa di non consegnarli all’oblio.
Testo di STiT
Foto di Fabio Mitidieri