“Ogni gol è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice:
ogni gol è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità”
Pier Paolo Pasolini
Una partita bellissima, come poche negli ultimi anni, sta giungendo al termine. Taranto e Benevento hanno segnato due gol per parte e anche se non sembrano accontentarsi il tempo è tiranno. Il cronometro segna il minuto 94. Il Taranto si è appena divorato una clamorosa occasione in contropiede. Dal canto suo, il portiere del Benevento, Paleari, accarezza la sfera che gli è stata comodamente consegnata. Un paio di rimbalzi per guadagnare qualche prezioso secondo e recuperare l’affanno. Poi rilancia lungo, lontano, oltre il centrocampo. Lo scopo è chiaro: “Che venga guadagnata una punizione, spizzicata la palla in avanti. Trovare il modo di perder tempo”. Possa qualcuno narcotizzare definitivamente la partita. Ormai è fatta, mancano una manciata di secondi. C’è Calvano, però, che pretende di sovvertire il diabolico piano sannita. Il centrocampista si lancia in una scivolata come un leone su una gazzella morente durante una carestia, come se trovasse una fontana dopo giorni di cammino nel deserto; o, forse, più come se la palla stesse per varcare la linea di porta in una finale di Champions. Scardina il piano dell’avversario togliendola dalle sue grinfie, la fa carambolare sui piedi di Fiorani, che la prolunga di prima per Orlando che a sua volta di sinistro inventa un magnifico filtrante alto. È perfetto sulla linea del fuorigioco lo scatto di Simeri che si ritrova a involarsi verso la Curva Nord con solo il portiere avversario davanti, mentre la bandierina del guardalinee continua a garantirne l’equilibro della corsa. L’attaccante coglie l’attimo e con un piccolo calcetto che accompagna la danza del pallone che ha appena rimbalzato, disegnando una parabola perfetta scavalca la disperata uscita di Paleari il quale, una volta scavalcato dal pallone, schiaffeggia l’aria con un movimento inconsulto, degno dell’encefalopatia spongiforme bovina: i giornali la chiamarono mucca pazza. Tutto lo stadio rimane col fiato sospeso.
La Curva ha dato tutto, soprattutto nel secondo tempo. Il dispendio di energie si fa sentire ma non si molla, anzi ci si incita a vicenda a cantare. Imbecille: così dovremmo definire chi pensa che gli stati collettivi di esaltazione siano perdita di coscienza anziché coscienza sociale potenziata. Il cronometro segna quasi trenta secondi oltre il minuto 94. Fomentarsi con la battaglia che dal campo si espande sugli spalti fa sentire o intuire il compagno che compie le medesime cose e ti contagia. Questo non fa perdere il senso della realtà che ci circonda: lo intensifica. Lo rende più reale del reale.
Il pallonetto di Simeri s’inarca, supera la linea di porta e affonda nella ragnatela che la addobba. Come può questa sequela di eventi produrre una sincrona esplosione di energia rimane un mistero. Nel corpo di migliaia di persone sembra sperimentarsi un nuovo Progetto Manhattan. In campo parte una festosa caccia all’uomo per Simeri, doppietta all’esordio. Lui non sa che fare. Classico dilemma di chi si trova a gestire un picco di adrenalina raramente sperimentato. Dalle sue spalle e dalla panchina i compagni lo raggiungono, tentano di acchiapparlo ma lui come un All Black che cerca la meta, si divincola dalle morse e si dirige prepotentemente verso il portellone che divide il terreno di gioco dalla Curva Nord.
Dall’altra parte della barricata succede di tutto. Le voci si tramutano in un urlo di incredulità. Alcuni non riconoscono la propria voce, come se il loro corpo fosse impossessato da un oscuro incantesimo. Sconosciuti che si abbracciano. In molti si strattonano. Pochi rimangono in piedi. Alcuni piangono. Un uomo abbraccia suo figlio e singhiozza. Il bimbo butta fuori un urlo che gli svuota i polmoni e gli riempie il cuore, mentre la sua vocina si fonde con quella di migliaia di persone. Il boato è un rumore bianco che contrasta il dimenarsi folle dei corpi e si libra nell’aria scardinando l’antipatico cielo di febbraio che insiste serale sulla Salinella. Nel casino un ragazzo cade male e forse si “squascia” una caviglia ma questo non gli impedisce di continuare a festeggiare, neanche dopo l’intervento degli infermieri richiamati non si sa come in mezzo al bordello: dalla barella continuerà a dimenare le braccia esultante. Una ragazza e due bambini intuiscono il movimento di Simeri e sono i primi a raggiungere il portellone della Nord. Loro e Simeri, compressi gli uni dalla foga dei curvaioli e l’altro da quella dei compagni, si ritrovano divisi solamente da un plexiglass infame. Da una parte e dall’altra centinaia di mani battono sulla spessa plastica che neanche le scimmie allo Zoo Safari. Nessun coro riesce a prendere piede, la scompostezza della gente è un fiume in piena che travolge qualsiasi possibilità di coordinazione. Un paio di bomboni esplodono nell’antistadio. Alcuni fumogeni colorano di rosso alcune chiazze tra la folla in estasi. Il caos regna sovrano per lunghissimi attimi. Persone stravolte mostrano come reliquie i loro vestiti strappati dalla foga degli abbracci deliranti. Altre immagini come queste si fanno strada ma tentare di non tralasciarne alcuna significherebbe astrarsi da quello che accade. Ricordarle tutte sarebbe, anzi, forse miserabile; così come, allo stesso modo, quello che accade rende meschine le figure dell’imperturbabilità.
Niente di tutto questo è in realtà accaduto. O meglio, tutto vero fino al perfetto scatto di Simeri. L’attaccante però perde il tempo per lo scavetto e colpisce la palla quando è già troppo tardi. Il tentativo di pallonetto è innocuo per Paleari che blocca la sfera con facilità. Una manciata di secondi e l’arbitro manda tutti negli spogliatoi. La Curva è una carrellata di bocche aperte e volti sgomenti. Sembrerebbe la metafora perfetta della storia del Taranto, di quella sconfortante lezione di sport – e di vita – che un istinto bastardo ci suggerirebbe di imparare. Ci arriviamo spesso a un centimetro dalla gioia ma è lì che ci fermiamo, come se fosse scritto nel nostro destino.
Un’esultanza come quella che abbiamo immaginato assomiglia molto a delirio orgasmico e caotico: non ha la forma del gesto autoerotico isolato, quanto più quella dell’orgia, dove la dimensione tattile e prensile dell’altro – l’abbraccio, la spinta, lo strattone – diventa parte costitutiva di una gioiosa trance-isterica collettiva. Se l’esultanza decisiva è un orgasmo orgiastico allora quello che abbiamo sperimentato fin troppo spesso è l’intervento di un destino perbenista che si comporta come una retata della buon costume che interrompe tutto sul più bello per riportare tutti alla compostezza, al disciplinamento dei corpi, alla parsimonia delle emozioni, al ripristino delle buone maniere. Interventi contro il desiderio e il piacere collettivo così infami che chiedersi quale sia la vera indecenza.
Dicono che la storia non si faccia con i “se”. Ma dove sta scritto? Gli studiosi affermano che non è una pratica storiograficamente rigorosa. Barbero dice che sono “chiacchiere da bar”, ma allo stesso tempo ammette che, in fondo, lo facciamo continuamente. Pensare a quello che sarebbe potuto essere o a quello che sarà è, insieme alla risata, forse l’unica cosa che ci distingue dagli altri esseri viventi, con tutti i contro che questo comporta. Perdersi in fantasie può essere deleterio, ma in fondo tutte le cose belle conservano questo rischio. In qualsiasi caso, però, fantasticare ha il potere di stimolare i nostri desideri e nutrire l’immaginario collettivo. Quando gli venne chiesto cosa fosse l’utopia, Eduardo Galeano – uruguaiano, socialista, cantore del calcio – rispose: “Lei è all’orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare”. L’utopia è una specie di luogo onirico popolato dai nostri migliori desideri. Immaginare è un modo per nutrirli e tenerli vivi più che mai. Un po’ come ha fatto la gradinata, che esterna il desiderio fortissimo e disperato di una parte di comunità che in cuor proprio non s’arrende: “Daspo a vita per Acciaierie d’Italia”, recita lo striscione. E forse vale più del terzo gol di Simeri. Meno di niente vale invece l’ennesimo stupido divieto comminato alla tifoseria ospite, in questo caso i beneventani, ai quali prima era stata aperta la trasferta, poi a tagliandi già venduti e all’ultimo momento, preclusa la stessa possibilità di cui sopra. Di alimentare cioè con sogni e desideri la velleità di poter cambiare lo sterile stato delle cose, di animare con la propria presenza, con la propria passione, con il proprio colore quell’arido deserto in cui hanno trasformato il calcio, sempre più pieno di sterile e stupida retorica, sempre più vuoto di sentimento.
Testo di STiT
Foto di Fabio Mitidieri