Non vorrei mai essere un tifoso del Taranto in questo momento – penso al terzo gol del Catania. I calciatori ospiti in maglia bianca si abbracciano proprio sotto di me come se fosse ben riuscito uno schema in allenamento. Anche il festeggiamento al primo gol è stato relativamente blando. Forse è questa la peggiore umiliazione. Intorno, il deserto: lo stadio “Iacovone” in procinto di essere trasformato è chiuso per 7 degli 8 spazi che mette teatralmente a disposizione per seguire gli andamenti del pallone sul più grande spicchio d’erba del quartiere Salinella. Rimane aperta solo la tribuna. I riflettori illuminano uno stadio che non m’è sembrato mai così cadente. Forse una prospettiva simile a quella di autorità, “vip” e media innesca un meccanismo percettivo in cui prevale la vista – effettivamente la partita da lì si vede benissimo – e quindi il giudizio delle cose. Forse è proprio quel punto di vista ad imborghesirti. Non vorrei essere mai un tifoso del Taranto in questo momento, mi dico. Il problema è che lo sono.

Ci diciamo spesso che Taranto – Catania non è una partita come le altre, ma mai come questa volta ci arriviamo con la mente altrove – questioni societarie su tutte – eppure una volta che sei lì sugli spalti non puoi far finta che non esista. Credo che non avrei mai potuto immaginare questa classica del meridione con un numero di spettatori così infimo (arriviamo al migliaio?) anche se l’assenza degli ospiti ormai la dobbiamo dare purtroppo per scontata, soprattutto se c’è solamente un settore agibile. Ma a far specie è soprattutto l’ingresso in campo. I gruppi stanno ancora salendo e sistemandosi mentre le squadre iniziano a calcare, come da rito, il terreno di gioco: intorno a loro una quiete surreale, un mutismo collettivo, quasi da lutto, come se ci fosse un minuto di silenzio. Arrivati a centrocampo, fischio dell’arbitro, saluti verso l’unico settore aperto e la risposta di un timido applauso. Tutto quindi ha un sapore diverso e non è sicuramente gustoso. Ci sistemiamo sulla sinistra, lato Nord. I seggiolini della tribuna col nostro attraversamento si rivelano inutili allo scopo, anzi dannosi. L’instabilità unita alle pozze d’acqua che galleggiano alla base li rendono addirittura pericolosi.

Anche l’ingresso è strano: la “tribuna delle autorità” non necessita di una area di prefiltraggio come quella della curva, così il primo controllo è della polizia, che ormai aveva delegato la cosa agli steward mentre rimanevano a guardare la procedura sullo sfondo. Superato questo primo ostacolo, la domanda: “State con la curva?”, come a predisporre uno screening in base all’appartenenza a un settore. Che rende l’idea dell’eccezionalità non solo della pratica ma anche di questa soggettività collettiva che anche in questi casi stimola la preoccupazione dei burocrati.

Non mi aspettavo un esito diverso dalla partita, anche se poi dal vivo è un’altra cosa. Il secondo gol arriva subito dopo il primo, con un errore marchiano proprio sotto i nostri occhi. È il 24° e un impeto di pietà dell’arbitro potrebbe già sancire la fine. Mi chiedo quale altro motivo potrebbe spingerci a rimanere senza cadere nel più bieco masochismo o nella più triste delle passioni. Il più è già fatto: lo striscione “Liberate il Taranto” è stato appeso; i cori contro la (speriamo ancora per poco) attuale proprietà sono stati scanditi; il resto del pubblico è stato invitato a partecipare e, anche se non salta, comunque canta e batte le mani (mi ricordo un coro che non sentivo da tanto, che in queste occasioni partiva sempre dalla curva direzione tribuna: “siete sempre un pubblico di m3rd4…”). E ora? Cosa fare? Resta solo una lenta agonia. Un ragazzo a pochi passi da me è senza maglietta. Incita gli altri a cantare quasi dalle retrovie, come il migliore dei gregari. Ho un’ottima risposta alla mia domanda.

Il gol dell’1 a 3 non è una magra consolazione – anche se, in presenza, il corpo inizia ingenuamente a credere al miracolo ma viene subito smentito – perché il Catania poco dopo segna il quarto e poi il quinto e potrebbe tranquillamente fare anche il sesto. Altri cori che non sentivo da tempo immemore si fanno di nuovo vivi: “andate a lavorare”, “se retrocediamo vi massacriamo”, ma il più scandito è “noi vogliamo gente che lotta!”. Non sono d’accordo quando si dice che questi ragazzi non si impegnano, è che sono semplicemente scarsi. Questo però non mitiga nulla: 5 a 1 in casa contro un Catania che non espugnava lo “Iacovone” da quasi trent’anni. Al fischio finale, un’altra eccezionalità: la squadra viene a salutare solo verso un settore invece del solito giro alla terza e lo fa solamente nei pressi dello spicchio degli ultras, come se interessasse solo la loro sanzione. Che è impietosa: fischi, urla, andate via, trovatevi un lavoro vero. La rabbia è la chiave per non trasformare la passione in qualcosa di più triste di quello che già è.

Uscendo dallo stadio mi dimentico di fotografare una targhetta che fa sorridere, non l’avevo mai vista né in curva né in gradinata e recitava qualcosa come “secondo l’art. X, bisogna rispettare il posto assegnato sul biglietto…”. Superati i cancelli, affondiamo nella città. Le luci dei palazzi sembrano disinteressarsi di quanto consumato. I lampioni delle strade, invece, sono in sciopero. Ci tuffiamo nel buio pesto e alla nostra destra la statua di Iacovone ci veglia nascosta dall’ombra e forse dalla vergogna. I fari delle camionette della celere concentrano il loro sguardo su stivali e divise delle forze dell’ordine dispiegate a difesa di non si capisce bene cosa, mentre sagome borbottanti si sparpagliano nel tessuto urbano.

Testo di STiT
Foto di Fabio Mitidieri