Le idee sullo sviluppo cognitivo di Jean Piaget si sono rivelate tra le più influenti teorie psicologiche dello sviluppo. Secondo Piaget, l’essere umano passa attraverso una serie di stadi fissi in cui costruisce attivamente la sua comprensione del mondo attraverso le interazioni con l’ambiente e con gli altri. Proprio per questo può dar gusto prendere queste teorie come una scusa per guardare al nostro passato e proiettarci i nostri desideri di tifosi nel notare come possano aver scandito e caratterizzato le fasi del nostro sviluppo.
Nei primi due anni di vita, l’essere umano esplorerebbe il mondo attraverso i sensi e le azioni (guardare, toccare, succhiare, afferrare). Abbiamo pochi ricordi di questa fase, se non nessuno. In questa fase, è difficile trovare qualcuno che abbia anche solo la capacità linguistica di definirsi tifoso. Ma poi entra in gioco la seconda fase, che ci riguarderebbe fino al settimo anno di vita: è vero, iniziamo a pensare simbolicamente e ad usare parole o immagini per rappresentare cose, ma la logica è ancora intuitiva e non sistematica. Iniziamo a conservare i primi ricordi e tra questi ce n’è sicuramente qualcuno legato alla squadra del cuore. Tuttavia, secondo Piaget, abbiamo difficoltà a vedere le cose dal punto di vista degli altri, qualcosa che assomiglia a un naturale egocentrismo. La nostra squadra del cuore, fino ai 7 anni, a pensarci bene è una cosa che ci appartiene quasi in modo esclusivo. Per quelli come noi per i quali la prospettiva di diventare calciatore è rimasta solamente un sogno accarezzato nell’intimità più profonda, a guardarci indietro, la cosa meno egocentrica che possiamo aver fatto è immaginare la curva sì ricolma… ma di nostri stessi cloni. Superati i 7 anni, invece, saremmo capaci di articolare pensieri più logici e sistematici e di diventare meno egocentrici. È la fase in cui chiunque tra noi ha sognato almeno una volta di diventare il capo-curva e lanciare i cori davanti a migliaia di persone come un maestro non d’orchestra ma di un popolo. Dai 12 anni in su, infine, riusciremmo a pensare astrattamente e criticamente e ad aprirci interamente alla vita sociale. È la fase dove iniziamo a coltivare quell’idea che il nostro apporto come tifosi diventa indispensabile nell’ambito di una partita, di un coro, o di influenzare l’andamento mettendo a disagio l’arbitro. Iniziamo, insomma, ad apprezzare la presenza dell’Altro che, insieme a noi, compie le medesime azioni per un obiettivo comune.
Ma sono molte le critiche che sono state rivolte alle teorie di Piaget. Intanto, l’idea che lo sviluppo dell’essere umano sia lineare: è come se fosse una storia già scritta, orientata dunque al mantenimento di status quo e modi di vita. Dall’altra c’è un marcato etnocentrismo occidentale (non è detto che in altre società e culture vengano vissute le stesse fasi), e comunque rimangono sottostimate le influenze ambientali che aiutano le capacità di ogni individuo (è quasi inevitabile rintracciare differenziazioni di classe, genere, etnia). Inoltre, per altri studiose e studiosi, l’essere adulti non sarebbe che un’invenzione piuttosto recente, che mira a far diventare l’essere umano composto, rigido, disciplinato da un modello di società che imbriglia il desiderio mentre impone il consumo: “non fare il bambino!”. Se tifare – soprattutto se lo si fa in modo estremo – vuol dire partecipare in prima persona plurale a un gioco, anche se “solamente” dagli spalti, allora significa anche un po’ combattere quella fine infame verso cui sarebbe destinato un essere umano consumato dal consumo e colpevolizzato nei suoi desideri, dinamica che George Bernard Shaw descriveva così: “Non smettiamo di giocare perché invecchiamo; invecchiamo perché smettiamo di giocare”.
Figuriamoci, allora, quant’è diversa la prospettiva di chi invece il calcio lo vive sul rettangolo di gioco. Definire l’industria multinazionale del pallone come un gioco è un’astrazione verso la quale ridere dovrebbe essere considerato bon ton. Ma rispetto a tante altre mansioni che esistono nella nostra società è forse quella che più gli si avvicina. Giocare è un po’ come rimanere bambini, magari in quella fase egocentrica dove il tuo sogno è innanzitutto quello: quello di segnare giocando per la squadra e nello stadio della tua città. Figuriamoci, allora, cosa può aver provato Francesco Orlando, tarantino di Roccaforzata, quando sabato sera ha segnato praticamente a tempo scaduto il gol decisivo, sbloccando la sfida contro un rognoso Monterosi che sembrava destinare i rossoblù jonici a un pareggio contro il fanalino di coda e alla quarta partita senza vittoria. Per una piazza smaccatamente umorale come quella tarantina sarebbe stata l’ennesima settimana di passione. E invece Orlando si regala la più grande delle gioie: solo l’abbraccio dei compagni non gli ha permesso di correre e godersi l’urlo di sollievo di una Curva che non ha smesso di cantare fino alla fine – come ha detto Capuano, che invece sotto il settore caldo si invece è fiondato, immortalato da un video che è diventato subito virale.
La foto di Orlando, con gli occhi lucidi mentre si gode l’abbraccio della sua gente dopo il fischio finale, è qualcosa che ci porteremo dentro un po’ tutti. Perché tutti abbiamo sognato una serata del genere. Ma tranquillo, Francesco, nessuna invidia: quella palla, anche se accarezzata soltanto dal tuo piede, ci piace pensare che l’abbiamo messa in porta insieme. La nostra idea, forse genuinamente malata, è che tifare significa partecipare con tutti i mezzi che possiamo – leciti o meno – a questa cosa strana che chiamiamo calcio, cioè un turbinio di emozioni, palpitazioni e spreco volontario di energie che forse esprime uno dei sensi più intensi dell’essere umano. Tifare è quel modo un po’ strano e fanciullesco di giocare, tornare bambini, rifiutare un certo modo di diventare “adulti”, provare a negare il disciplinamento dei corpi di una società che mira alla pacificazione sociale mentre il mondo cade a pezzi e imperversano le guerre. È lo spirito libero che ha accompagnato e contraddistingue Massimo Altamura, storico ultras tarantino che non se la sta passando bene e a cui la Curva ha dedicato cori, applausi e un altro striscione. Del resto, come osservava Eco: “Se scaglio un sasso per il puro piacere di scagliarlo ho sprecato calorie accumulate attraverso l’ingurgitazione di cibo, realizzate attraverso un lavoro. Ora questo spreco – sia chiaro – è profondamente sano. È lo spreco proprio del gioco. E l’uomo, come ogni animale, ha il bisogno fisico e psichico di giocare. C’è dunque uno spreco ludico a cui non possiamo rinunciare: esercitarlo, significa essere liberi, e liberarsi dalla tirannia del lavoro indispensabile”.
D’altra parte, il calcio è forse la modalità con cui il capitalismo ha sintetizzato e impacchettato tutte queste cose: il piacere di stare insieme, la partecipazione ad una battaglia, l’eccitazione di far parte di un fenomeno collettivo, il bisogno di giocare. Un insieme di elementi che evidentemente danno piacere e muovono i desideri di centinaia di migliaia di persone. Qualcosa che ha valore, insomma. Un valore che però un sistema economico multinazionale non esita ad estrarre in barba a tutto quello che invece finge di rappresentare, ad esempio organizzando un mondiale distruggendo mezza foresta amazzonica o un altro non rispettando le più elementari regole di equo pagamento e di sicurezza sul lavoro. Ma questa, forse, è un’altra storia.
Testo StiT
Foto Fabio Mitidieri