Di solito aspetto qualche giorno per ragionare sulla mia esperienza, scelta dettata principalmente non da preferenze riflessive ma da questioni di tempo. Questa volta però è diverso e ci tengo a scrivere a caldo per diversi motivi. Innanzitutto perché, tra la diserzione della scorsa stagione e il mio “fuorisedismo”, non mettevo piede allo Iacovone da quel Taranto-Bari del maggio ‘22, utile solo agli annali e a scrollarci definitivamente di dosso il peso della trentennale assenza del Derby di Puglia. Anche se ho abbracciato la presa di posizione di un’intera stagione di gran parte della tifoseria nel disertare le partite casalinghe, mi sono sobbarcato insieme agli altri una quindicina di trasferte ma, come dicevo, questa volta è diverso. Non tanto per tornare a sperimentare la magia che conosce bene chi frequenta il proprio stadio da anni. E neanche per quella profonda sensazione di sentirti a casa che quel luogo ti regala. Questa volta è diverso perché, anche se vivo sempre la partita incastonando il mio corpo tra quelli degli altri, questa volta il muro umano è quello che caratterizza il nostro fortino, la nostra casa, dove poter vivere la partecipazione in rigorosa prima persona plurale che si traduce in una vera e propria performance, dispendiosa e nevrotica. Tutto questo rappresenta per una tifoseria il proprio biglietto da visita e per me ha neutralizzato, forse mai come questa volta, quella distanza necessaria per rendere oggetto della propria riflessione ciò che si vive e si guarda. Quella che alcuni considerano “la giusta distanza” per la comprensione delle cose, in alcune occasioni, viene del tutto vanificata. Ma questo a mio parere non significa necessariamente assenza di riflessione quanto piuttosto riflettere in altri modi. Anche perché, pensandoci bene, se quello che noi chiamiamo tifare non è altro che scomporsi nevroticamente e collettivamente nel tentativo di trasferire la nostra energia a chi in campo indossa i nostri colori, allora forse è proprio questo il modo giusto per concepire la faccenda.
Venerdì, ad esempio, il corpo pretendeva il suo ruolo di protagonista già qualche ora prima della partita, quando ansia e nervosismo cercavano autonomamente modalità di sfogo che neanche birre, borghetti e altre diavolerie riuscivano a narcotizzare. La partita e l’aria sugli spalti mi hanno fatto capire che la condizione era comune: cattiveria in campo e nervosismo sugli spalti per una partita importante che non si riusciva a sbloccare, avara di emozioni così come di tiri in porta. Le prestazioni di giocatori e tifosi, si sa, anche se a volte ci piace dire il contrario, viaggiano su binari paralleli. Così, dopo i primi quindici minuti di bolgia, la Curva si innervosisce, come spesso accade nelle partite più importanti, soprattutto se di fronte non hai neanche il gusto derivante da rivali degni di questo nome. Non esattamente, questo, il terreno più fertile per introdurre un nuovo coro, come si diceva sui social prima del match, e i picchi di tifo si raggiungono con quelli che ormai sono a tutti gli effetti i cori del momento. Il primo, «ritorneranno gli amici miei, e tutti insieme torneremo a fare guai!», che riesce a trascinare la Curva per la sua capacità di condensare desideri e nostalgie declinandoli in modi diversi e facilitandone l’immedesimazione sia per gli ultras che per i cani sciolti. Se «ritorneranno» si presta perfettamente ad assumere significati diversi all’interno di un comune frame della nostalgia, cioè oltre a una dedica ai diffidati può essere inteso come un pensiero a un amico fuorisede o anche a qualcun che non c’è più, anche «guai» possiede la stessa ambiguità di significato: tutta quella infinita lista di casini che non sono altro che deviazioni dall’ordinario degne di essere raccontate, cose piccole o grandi che rendono indimenticabile un’esperienza. «Guai», allo stesso modo di «ritorneranno», si presta a svariate interpretazioni, che si orientano non solo in direzione delle pratiche ultras in senso stretto, secondo l’idea probabilmente originaria, ma allargandosi anche verso certi tipi di esuberanze relative al seguire la partita o a ciò che c’è nel suo contorno: sclerare per una decisione arbitrale, infiammarsi per un coro, incitare gli altri a cantare, strattonare chi ti sta accanto per esultare a un gol, maledire il portiere avversario o il guardalinee, ricordare a quelli che giocano il peso che la maglia che indossano. Ma anche l’ubriacata inattesa, la trasferta disastrosa, lo spintone al «torneremo nella sud», il “vurpo” di troppo. Insomma, forse questa lista è un po’ il punto di forza di questo coro, la cui potenza è direttamente proporzionale alla sua interpretazione: potenzialmente illimitata. Le due strofe sono così caratterizzate da una ambiguità interpretativa che, combinando e mescolando la tonalità nostalgica della prima con la carica desiderante della seconda, definisce le basi per la sua ampia e trasversale popolarità.
Proprio nell’apice di una felice combinazione tra spalti e campo, nel momento in cui questo coro veniva scandito sulle ali dell’entusiasmo collettivo nei minuti successivi al gol, il Picerno inaspettatamente pareggia, portando lo stadio a quella che sembra essere la tipica reazione degli stadi meridionali ai gol ospiti: uno spettrale silenzio. Così finirà la partita, dopo altri picchi raggiunti con l’altro coro del momento: «segna per noi, dobbiamo vincere!», raggiunge il suo apice quando la squadra deve segnare, soprattutto nell’ultima occasione quando a cantarlo è quasi tutto lo stadio, quasi come se si fondessero tifosi e squadra in un collettivo speech-act, quello che in linguistica non è semplicemente l’atto di dire qualcosa ma piuttosto l’effetto pragmatico che le parole hanno in un contesto comunicativo.
Esco dallo stadio pensando a quando sia diversa l’esperienza del mondo quando la si vive così ravvicinata, così soggettivamente, che se raramente parlo della squadra e di chi la conduce, questa volta farò un’eccezione. Ha ragione Capuano, che preferisco più come allenatore che come personaggio, quando chiede a gran voce che diecimila persone riempiano lo stadio: i ragazzi se lo meritano, l’impegno è innegabile, e gli applausi a fine partita testimoniano che quest’aspetto è riconosciuto dalla comunità. La squadra, rispetto ad altre infami stagioni, stavolta c’è e si vede, e lo si sente pure durante la settimana perché si è tornati a parlare di Taranto ovunque e con grande trasporto. I cori che caratterizzano i saluti alla squadra in questa stagione sono pronti a testimoniarlo. Il primo che suona quasi come una dichiarazione d’amore per la città: «son qui per te! Io della mia città sono innamorato, rossoblù i colori che noi amiamo, non me lo so spiegar perché batte forte il mio corazón, sarà perché ti amo mio grande amor!» che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni. Ma è soprattutto il secondo a sanzionare positivamente l’impegno della squadra che quest’anno non è mai mancato: «Sai perché innamorato son? Ho visto il grande Taranto!». Anche questo, però, a pensarci bene, ha una doppia valenza, non solo un riconoscimento alla squadra spesso anche al di là del risultato, ma soprattutto evoca quel già passato e che in tante e tanti non abbiamo neanche vissuto, come a voler esprimere semplicemente l’auspicio e il desiderio di un Taranto finalmente vincente.
Insomma, come al solito sugli spalti si vive un denso mix di emozioni. Eppure sui gradoni siamo “solamente” seimila e cinquecento. Cosa manca allora, in questa fase di slancio della stagione, per arrivare ai diecimila? Ad onor del vero, i diecimila li abbiamo già avuti in due occasioni quest’anno, nel derby contro il Foggia alla prima giornata e con la Juve Stabia capolista a ottobre. Ma per viaggiare costantemente su quelle cifre c’è evidentemente qualcosa che riguarda quella “maggioranza silenziosa”, cioè quella parte di tifoseria che non fa parte dello zoccolo duro. Facciamo finta che non esistano tutte le attenuanti del caso – il venerdì sera, il freddo, i malanni di stagione, la diretta in chiaro. Mettiamo da parte un attimo le tipiche premesse sul calcio moderno, non che non esistano ma, almeno in questo immediato post-Covid si assiste a una specie di “rimbalzo”, con stadi e palazzetti che si riempiono più di prima, come se la gente si fosse ricordata quanto fosse bella e importante la partecipazione ad eventi collettivi solamente quando sono stati negati.
Mettendo per un attimo da parte tutti questi elementi, le altalenanti presenze di quest’anno allo Iacovone sono un mix di incredibilità e schizofrenia, tali da renderle quasi un rebus di difficile soluzione. Ma prendiamo i diecimila con la Juve Stabia, che hanno assistito, per certi versi, a un film già visto – anche se rispetto ad altre volte totalmente immeritato: sono decenni che quando il Taranto deve spiccare il volo definitivo viene invece colpito da una fase di stallo. La psicologia comportamentale si focalizza su come le mosse dell’essere umano siano influenzate dall’ambiente e soprattutto su come l’apprendimento si basi su dinamiche di rinforzo e punizione. Detto in breve, saremmo capaci di capire che una cosa è per noi sbagliata se non ne ricaviamo benefici o se comporta punizioni psicoemotive, imparando in questo modo a non rifarla. A pensarci bene è una cosa che fanno anche gli animali. Se toccando qualcosa ti scotti, l’intelligenza ti consiglierebbe di non rifarlo, come una sorta di principio cognitivo su cui si basa l’istinto di sopravvivenza. Se dovessimo ridurre tutto in questi termini, potremmo allora dire che ci sono tifosi e tifose del Taranto che, scottati ancora, e ancora, e ancora, si guardano bene dal rifarlo perché ne hanno tutte le ragioni. Gli altri, gli ostinati dello zoccolo duro, potrebbero essere dei masochisti oppure, cosa forse più affascinante, dei “cattivi studenti”. Tifare il Taranto rimane a tutti gli effetti una forma di resistenza a una lezione che proprio non si vuole imparare. Del resto lo dice la canzone stessa, «dobbiamo vincere»: non è più un desiderio, ma il peso di una vera e propria condanna, come se non ci restasse alternativa. Non possiamo che augurarci che la resistenza si tramuti in qualche forma di ribellione. L’ideale sarebbe quella di rifondare l’esperienza di apprendimento, rendendola più orizzontale, ancora più partecipativa e inclusiva, tornando soprattutto a non criticare continuamente quelle tante persone che tengono al Taranto ma che sono rimaste troppo scottate dalle precedenti esperienze. Sarà forse un nostro difetto di prospettiva, ma a tutto questo conosciamo solamente un antidoto: le esperienze di apprendimento dei subalterni possono cambiare di segno solo se si fanno collettive.
Ma se quest’anno le carte in regola per giocarsela ci sono, evidentemente manca qualcos’altro, e forse questo qualcos’altro è una semplice quanto banale questione di fiducia, che viene sicuramente da lontano ma che ha anche degli elementi che continuano a ripresentarsi. Non c’è totale fiducia, evidentemente, in una società che, nella migliore annata, propagandando una programmazione triennale iniziata questo settembre, si priva nel bel mezzo del campionato del suo terminale offensivo senza avere ancora l’idea di un sostituto, evidenziando come, ammesso che un miglioramento tecnico-progettuale ci sia stato, questo non sembri ancora sufficiente a dare alla gente l’unica cosa che desidera: una squadra che lotti davvero per quella serie B che manca ormai da oltre trent’anni. Non può esserci, per tutti questi motivi, totale fiducia neanche dopo aver espugnato Foggia se solo un paio di giorni dopo, nella settimana di avvicinamento alla partita fino a questo momento più importante della stagione, il presidente afferma che l’anno prossimo, a causa dei lavori allo stadio, il Taranto potrebbe giocare le partite casalinghe dell’intera (e forse anche della successiva?) stagione a Vibo Valentia o a Teramo, a diverse centinaia di chilometri di distanza. Assenza di fiducia e incertezza sono due bestie che si alimentano. Probabilmente, a queste condizioni, non riusciremmo a fidarci del tutto neanche volendo. Non solamente della proprietà ma forse proprio del futuro che ci attende. Siamo con tutte le scarpe in quel pantano che ci porta ad aggrapparci alla nostalgia di un futuro passato che non c’è mai stato. È tutto così incerto, come lo è il futuro di Taranto, molto lontano da quella rinascita solamente sbandierata dalla politica. Le nostre vite assumono una forma sempre più sfumata, come individui e collettività. Basti pensare alla querelle del siderurgico, nell’incertezza di cosa sarà e soprattutto delle macerie che resteranno. Ma questa dinamica si ripresenta non solo sotto il nostro naso ma riguarda il mondo intero in diverse sfaccettature, in Medio Oriente, nel Mar Rosso, che se sembrano posti esotici distano in realtà solamente poche centinaia di chilometri da dove scomodamente, sotto una scricchiolante campana di vetro, proviamo a sopravvivere alle nostre stesse esistenze. All’interno di questo quadro, 6mila persone che continuano ad alimentare una comunità nell’ostinata convinzione che quello che stanno imparando sia profondamente ingiusto, nonostante la ragione suggerirebbe di allontanarsi per spirito di autopreservazione, è qualcosa che assomiglia molto a un miracolo sociale.
Davanti a queste evidenze, agli assenti mi verrebbe da dire: una vostra ragione, in fondo, ce l’avete. Ma noi a questa ragione, fredda e distaccata, continuiamo ad opporre il calore collettivo della nostra passione che è una ribellione al nostro infame destino. In certe storie, e anche in diversi momenti della storia, stare dalla parte del torto e ribellarsi a quello che sembra immutabile è un dovere. Il destino è un’invenzione di comodo degli dèi. Quando arriverà, per noi, il momento di scoperchiare il vaso di Pandora?
Testo StiT
Foto Fabio Mitidieri