PremierGreedErrare è umano. Ovviare è necessario. Ma perseverare è diabolico. Riflettendoci, l’istantaneità di un adagio è la sola risposta che si possa trovare all’agire delle nostre istituzioni. La solerzia è una costante del complesso statale italiano nello sbrigare faccende di second’ordine e (talvolta) non strettamente urgenti. Affanno e farraginosità sono, invece, caratteristiche altrettanto frequenti nell’operato dei politicanti dell’Emiciclo parlamentare. Di certo non si può dire che ci sia mancanza d’attivismo.

È buonsenso, però, meditare sull’evidenza che l’efficienza dell’attività non coincida con lo zelo profuso perché questa si attui. Sembra una contraddizione, eppure è così. In tutti questi anni, sono riusciti a distruggere l’autonomia del tifo organizzato – tramite vessazioni amministrative disparate – e, sotto la coltre del contestualmente lecito, hanno concretizzato la ragione del loro impelagarsi nelle tenaglie dei tecnicismi. Ossia, che gli stadi si svuotassero, che i catini di passione disinteressata finissero segregati nei ripostigli del ricordo, che gli appassionati iniziassero a preferire un sabato sera alternativo davanti ad un 40 pollici Full-HD, ingozzando di utili gli spietati signorotti delle televisioni. Più semplicemente, che le emozioni confezionate in un coro che accompagna una sfera in fondo al sacco venissero mercificate, avessero un prezzo e consequenzialmente concorressero in un’ampia gamma competitiva. Nella più nefanda delle logiche mercantiliste. Perché, d’altronde, il profitto campeggia imperante.

A fronte delle premesse, è ancora radicata la convinzione che la sciagura della Tessera del Tifoso occorra ad offrire qualche vantaggio particolare? Partendo dai presupposti fondanti dell’articolo 9, c’è qualcuno che affermi con fermezza che abbia reso flessibili le procedure di accesso, che abbia elasticizzato i termini di sottoscrizione di un tagliando, o che, genericamente, abbia incentivato le famiglie ad avvicinarsi alla realtà degli spalti?

Diciamocelo francamente, senza scomodare mezzi termini o estetismi retorici: il decreto Maroni ha prodotto una serie irrefrenabile di inadeguatezze che, ovviamente, nel lungo periodo hanno partorito disagi e disapprovazioni pressoché organiche.

Cosa ancor più grave è che questo scempio si sia alimentato di disinformazione e di decodificazione del veridico, nell’arco di un quinquennio. Pennivendoli al soldo del potente di turno non hanno mai considerato profondamente la questione, scadendo nell’improduttiva argomentazione di un divieto sporadico, piuttosto che approfondire i moventi. Il punto non è che i corpulenti governanti dal culo radicato allo scranno vietino trasferte, che vincolino a rispettare dettami privi di fondamento giuridico e di consistenza di legittimità, oppure che mostrino con costanza l’inopportunità nel legiferare, nell’eseguire e nell’amministrare.

No. Questa è una battaglia campale per riappropriarci della nostra libertà, che trova espressione in un’unica maniera: tifando. Animatamente, visceralmente, tumultuosamente. Appunto, liberamente. Esorcizzando – ad esempio – il timore di essere perseguiti insensatamente ad un accennato “Napoli colera!”, di essere incriminati perché si approva l’operato impavido e spregiudicato dei Vigili del Fuoco, di essere tacciati di razzismo al minimo urlo.

Le responsabilità sono palesi: burocrazia, politica e palazzi vivono in connivenza e hanno tutto l’interesse affinché la pantomima prosegua. L’asse succitata non opera a tutela della salvaguardia della folcloristica cornice di pubblico, ma a garanzia della spettacolarizzazione commerciale delle sensazioni, ove una marcatura di pregevole fattura venga inquadrata da qualsivoglia angolazione e l’inetto suddito, appollaiato sulla sua comoda poltrona, possa a più riprese gustarsi la spregevole sensazionalità di essere uno spettatore, sterile nella dinamica empatica della gara e redditizio per le percentuali di guadagno dei Tycoon delle Via Cavo. Serve aggiungere altro?

Alex Angelo D’Addio.