Devo essere onesto, ho accolto con molto scetticismo questo libro e l’ho letto più come debito di riconoscenza verso chi me l’ha regalato che non per reale voglia o convinzione di farlo.

La quarta di una copertina molto bella, che ricorda un vecchio “match programme” inglese, sostiene: «Un modo diverso di rimanere “fedeli alla tribù”. Ian Plenderleith è l’anti-John King di cui avevamo bisogno»; ma io non ho mai sentito il bisogno di un anti-John King e, messa così, mi sembrava un po’ arrogante come dichiarazione di intenti.

Posto che per me King è uno scrittore sicuramente interessante (oltre alla trilogia hooligans ho letto anche “Human Punk” e l’ho trovato ugualmente efficace, anche fuori dalla sua “corsia preferenziale”). Restando comunque ai soli argomenti dei libri “incriminati”, posso anche capire che la violenza ideologica o fattiva enunciata possa non piacere, ma restituisce comunque un ritratto fedele e credibile di quella che era l’Inghilterra degli stadi di quegli anni. O almeno di una parte di essa.

In un paragrafo, Plenderleith si scaglia più precisamente contro l’editoria hooligans, e non può che avere tutta la mia solidarietà: più volte ho espresso lo stesso parere, si tratta di una chiara bolla speculativa e letto uno, si può dire di averli letti tutti. Ma almeno quell’uno bisogna leggerlo per avere un’idea di massima su quel dato fenomeno. Magari dopo essersi fatti ben consigliare. Certo dopo aver fatto la tara agli episodi più prossimi alla fantascienza che al realismo sottoculturale, però bisogna leggerlo. Setacciando nella melma qualcosa da salvare c’è: l’analisi di Plenderleith è insomma un po’ tranciante, ma tant’è.

Superata la diffidenza iniziale e metabolizzata la differenza di approccio al calcio, bisogna riconoscere tutto il valore di questo “The Quiet Fan – il tifoso tranquillo”, di cui in senso assoluto, la cosa più bella è la tagliente ironia con cui è stato scritto: se amate il tipico humor britannico, oltre che il calcio, fatevi un favore e leggetelo!

Tradotto da Adriano Angelini e pubblicato in Italia da Alcatraz (prezzo di copertina 16 €, ISBN 9788885772243, 269 pagine per esaurire i dati tecnici), si tratta di un lungo diario personale dell’autore che, partendo dall’infanzia, ripercorre tutta la sua vita parallelamente alle partite calcistiche che l’hanno accompagnato lungo la strada. Quelle del Lincoln City che caratterizzavano la sua infanzia, l’Aston Villa e le altre compagini di Birmingham dove si trasferì per studio, l’Arminia Bielefeld durante un’anno di scambio universitario in Germania, lo Zurigo che caratterizzò la sua parentesi lavorativa in Svizzera o il DC United dopo il trasferimento negli Stati Uniti, ecc.

Sapete quelle domande del tipo, “Dov’eri mentre crollavano le torri gemelle?”; io personalmente ero a seguire l’allenamento della mia squadra del cuore. Questo per dire che tutti gli appassionati di calcio hanno sempre una partita che fa da segnalibro della propria esistenza o, viceversa, un particolare momento della propria vita che si lega al ricordo di una partita.

Al di là del mero contesto sportivo-storico-personale, ognuno di questi spunti è il grimaldello che permette all’autore di aprire a tutta una serie di riflessioni o considerazioni sul calcio a 360°. Sul calcio giocato, sul calcio tifato, sul calcio parlato e scritto. E questa è la sua forza o quanto meno lo è per chi, come il sottoscritto, si approccia al calcio con quel contraddittorio spirito sospeso fra la disillusione e la passione mai sopita.

Più nello specifico, viene smontata a pezzi l’opprimente e stupida cappa di retorica con cui stanno assassinando tutti noi vecchi amanti del pallone di cuoio. Alimentata dai giornalisti soprattutto, pletora che con l’esplosione del web è aumentata a dismisura come un cancro irreversibile. Ma non di meno anche da quei tifosi che danno il pur minimo credito alle tante cialtronate partorite dai figli scemi di Buffa: non me ne voglia l’avvocato e non è nemmeno colpa sua se, sulla scorta del suo pur meritato successo, lo storytelling calcistico abbia preso questa deriva così perversa. Sui quotidiani sportivi invece, che ormai parlano più di gossip e vita privata che di calcio giocato, stendiamo invece un bandierone pietoso.

Ci sono diversi punti d’attrito con il tifoso più appassionato da cui l’autore dice di voler prendere le distanze, ma nascono da alcuni equivoci di fondo che andrebbero circostanziati. Uno è che il “tifo estremo” che Plenderleith vede come propria nemesi sarebbe più precisamente quello hooligan, che presenta differenze piuttosto sostanziali con il mondo ultras. Il secondo punto è che, a sua volta, anche lui, Plenderleith, subisce la retorica dominante sul “tifoso estremo” che egli stesso, all’interno di questo stesso libro, ha dimostrato quanto possa essere menzognero.

Alla fine, personalmente e al netto di alcune incolmabili distanze, credo che gran parte delle visioni sul calcio espresse collimino totalmente con il modo di vedere il calcio degli ultras. Tanto per restare in tema di retorica, fatti salvo quelli del “a noi della partita non ce ne frega un cazzo” (che poi dopo la prima serie di tre partite senza vittorie partono con le contestazioni), il mondo ultras primigenio è nato proprio per amore della squadra e gli ultras, prima ancora che essere ultras, erano appunto grandi tifosi di calcio.

Se amate il calcio ma non ne potete più dei tormentoni, dei bomber, degli ignoranti e del resto della banalità del male che ci ha avvelenato la vita usando il calcio come cavallo di Troia, questo libro potrebbe essere per voi una bella boccata di ossigeno. Leggero ma non stupido.

Matteo Falcone