Ho imparato a conoscere questo campionato di serie B di hockey sul ghiaccio, tra luci e ombre: la parte bella riguarda il fatto di avere due campi vicino casa e di avere anche a che fare con realtà di tifo organizzato; la parte brutta è la scarsa qualità della competizione, che può valere un posto in serie A, anche se poi la scelta di partecipare o meno sarà affidata al club vincitore dei play-off.
Ad avvalorare quanto dico c’è il fatto oggettivo che spesso, per problemi prettamente economici, alcune squadre rinunciano a disputare qualche partita in trasferta, prendendosi la relativa penalizzazione. È il caso, per esempio, proprio dell’Hockey Club Chiavenna, rinunciatario, fino ad ora, nelle trasferte di Pergine ed Alleghe. Ed è un peccato. Infatti i verdeblu hanno una delle poche tifoserie organizzate del campionato, con la loro Fossa dei Beoni e il Vecchio Alcool. E mi dispiace di aver scoperto della loro esistenza in circostanze tutt’altro che allegre. Gli ultras della provincia di Sondrio, infatti, sono risaliti alla ribalta della cronaca proprio in occasione del derby di andata, in casa, contro Como dove, colpevoli di aver acceso alcuni fumogeni, hanno rimediato ben sette diffide.
Chiavenna conta 7.000 abitanti ed è situata fra Sondrio e Como, in una incantevole valle ritenuta un luogo strategico per le comunicazioni tra la il Lario, la Valtellina e la Valle del Reno in Svizzera, ma ciò nonostante isolata dai grandi centri abitati (la sola Como dista 90 km, Sondrio 60). Essere ultras, in un centro così piccolo, dove il palazzetto contiene appena 450 spettatori, non dev’essere cosa gradita a molti, neanche se eserciti questo stile di vita come un diritto di gioventù. Al punto che, quando successe il “fattaccio”, gli ultras furono costretti a dire “scusa non lo faremo più” sui giornali locali. In un posto di 7.000 anime l’occhio sociale vuole sicuramente la sua parte, e gli ultras hanno fatto “penitenza” (come se ci fosse qualcosa di cui pentirsi) pur di professare ancora il proprio modo di essere.
Se oggi qui a Como, per quella che risulta essere la trasferta loro più vicina ed un derby sentito, i Chiavennaschi sono in pochi rispetto al loro potenziale, fondamentalmente lo si deve alle diffide piovute. Ma un secondo fattore, determinante per trascinare con gli ultras anche il pubblico più “freddino”, è costituito dai pessimi risultati della squadra, penultima con 4 punti in 16 partite giocate (con due di penalità) e senza alcune ambizioni di entrare tra le otto partecipanti ai play-off. Possibilità intatte, invece, per il Como, nonostante il pessimo terzultimo posto con 8 punti, ma con le due dirette antagoniste più su di appena un paio di lunghezze. Basta una vittoria dei Lariani, oggi, per rientrare tra le prime otto, ad appena cinque giornate dalla fine della stagione regolare.
Per arrivare all’impianto di Casate mi bastano soli pochi minuti di macchina, un tragitto talmente breve da farmi infischiare del continuo maltempo. Entro senza problemi nel palaghiaccio e mi posiziono dove già mi ero messo contro Pergine, con la sola raccomandazione, da parte di un dirigente del Como, di fare attenzione al famigerato dischetto (il puck). Gli ultras ospiti, una ventina più svariati tifosi normali, hanno già preso posto, con lo striscione del “Vecchio Alcool” ben in evidenza.
Quando le squadre entrano in pista gli ospiti si compattano e cominciano a sostenere la loro squadra, in maniera peraltro molto assidua. Le loro bandiere verdeblu spiccano in maniera insolita nel buio consueto di questa pista di ghiaccio, la quale (bene ricordarlo) non è esattamente un palazzetto, ma un impianto all’aperto con relativa tettoia per proteggersi dalle intemperie. Il repertorio degli ospiti non è solo per sostenere la squadra, ma dedicato anche alla goliardia e ad enumerare le numerosissime rivalità: tra quelle che ricordo, cito Pergine, Varese, Alleghe, Valpellice, Milano, il “Tirolo” in generale e, ovviamente, Como. E qua apro una parentesi. Che per loro sia un derby, nonostante ci siano ben 90 chilometri di distanza tra i due centri, ci sta eccome. Ciò che non capisco è a chi siano dedicati gli svariati cori offensivi, data l’affluenza quasi inesistente del pubblico comasco e dato che non mi risulta che Como abbia mai avuto una realtà di tifo per quanto riguarda l’hockey su ghiaccio. Magari sbaglio.
La partita in campo mette in evidenza i limiti oggettivi delle due squadre. Parte inaspettatamente meglio il Chiavenna, ma più passano i secondi e più la supremazia comasca viene fuori. Ciò nonostante i padroni di casa ci mettono più di metà periodo per sbloccarsi, per poi prendere il largo al 19°, andando negli spogliatoi sul parziale di 2-0. Malgrado il passivo non ho riscontrato particolari pause nel tifo degli ospiti, organizzato piuttosto bene ed intenso quanto basta.
Nel secondo periodo la musica resta la stessa, tanto che il Como si porta a tre reti contro le zero di color verdeblu. La partita sembra ormai segnata, e ai tifosi ospiti non resta che sventolare i propri vessilli ed onorare, come se niente fosse, questo derby sentito solo da una parte. E da chi sta in campo, visto che l’agonismo è alto e non mancano scorrettezze reciproche.
Nel terzo periodo, invece, succede un po’ di tutto, anche al sottoscritto. Prima di tutto il Chiavenna, in apertura, trova la marcatura e prova a crederci. Un contestatissimo penalty, però, porta il Como sul 4-1, e da lì a scatenare il finimondo è un attimo. A pochi centimetri da me, davanti alla panchina del Como, inizia una rissa molto violenta, particolare perché coinvolge nello stesso tempo più giocatori. Quando le acque sembrano essersi calmate, la rissa riprende addirittura all’interno della panchina. Una faccenda molto difficile da dirimere per gli arbitri. Mentre mi divertivo ad immortalare, tra l’altro a due passi da me, gli highlights di questo rendez-vous, vengo strattonato ad un braccio da un dirigente del Chiavenna, col quale inizia un battibecco acceso; a sentire il tizio, non avrei diritto a stare là e mi dovrei allontanare. Ne è seguito non solo un rifiuto, ma anche momenti di, chiamiamola, “polemica più accesa”. Non contento, il dirigente chiama uno degli arbitri che, senza pensarci su, mi invita ad allontanarmi, senza sapere chi sono e perché sto là. Non l’avesse mai fatto. Fermo restando di aver avuto pensieri piuttosto turbolenti, mi sono contenuto ricordando all’arbitro la mia “impressione” su di lui e perché si ritrova ad arbitrare in questa categoria (cioè, a voi sembra normale che, mentre a pochi centimetri i giocatori si stanno ammazzando, questo pensa a buttare fuori me perché scatto delle foto, tra l’altro in una fase tipica dell’hockey?). La diatriba si conclude quando un dirigente del Como, con modi decisamente più garbati, mi chiede di assecondare l’arbitro, quasi scusandosi. Del resto là la situazione è sfuggita di mano a tutti. Nonostante il siparietto sia finito, quando mi allontano la rissa non è ancora terminata. “Resteremo a picchiarci per tutta la notte”, avrebbero cantato quelli del Pergine. A me di fare foto in tribuna ai tifosi del Chiavenna di spalle non va. E altre postazioni decenti non ve ne sono. Mi tengo il mio cartellino rosso e lascio più che volentieri l’impianto.
Testo e foto di Stefano Severi.