L’illusione di riavere una Serie A vera, dura, passionale e palpitante è svanita da tempo. Ma certe sfide mantengono il loro fascino anche nell’epoca medioevale che siamo costretti a vivere, a livello sociale, in Italia. Verona-Roma è senza dubbio una di queste. Due tifoserie che riservano intatto il loro blasone, la loro storia e le loro tradizioni, le cui radici ormai affondano a quasi quattro decenni fa. In principio fu gemellaggio, tra Brigate Gialloblu e CUCS. Poi rottura, nei primi anni ’80, e conseguente rivalità, rinfocolata anche dai buoni rapporti che i Veneti intrattengono con i Laziali.
Agli Scaligeri va dato senz’altro atto di essere una delle poche tifoserie che nel fiore della salute del movimento ultras era solita presentarsi all’Olimpico con una certa assiduità. I presupposti per una giornata interessante dunque ci sono tutti. Una delle tante stravaganze del calcio d’oggi fa disputare questo incontro alle 12:30 in quello che gli addetti ai lavori chiamano “lunch match” e che, personalmente, mi fa davvero mal digerire un ipotetico “lunch”, dandomi l’ennesimo spunto di riflessione su come questo sport sia ormai diventato una discarica a cielo aperto, in cui tutti sono pronti a metter mano per apportare modifiche, quasi sempre votate al peggioramento. Tutti, tranne i veri e propri padroni: i tifosi. Terminata la consueta lamentela quando si tratta di massima divisione, posso passare al racconto di una giornata che comunque sarà piacevole e stimolante.
La partenza è fissata con il Frecciargento delle 6:30. Grazie ad una buona offerta, posso permettermi persino il lusso, una volta tanto, di spostarmi per lo Stivale con una certa velocità ed un certo comfort. Dopo la maratona della settimana precedente in Campania, non è facile puntare nuovamente la sveglia all’alba. Se non altro stavolta posso dormire un’oretta in più, sfruttando la metro che apre i cancelli alle 5:30. Preparo tutto minuziosamente la sera precedente ed alle 5 sono in piedi. C’è un fresco pungente, ma niente di impossibile da sopportare. Mia madre, da buona terrona, si raccomanda di coprirmi con sciarpa, cappello, calzamaglia e quant’altro perché “Se qua fa freddo, in Alta Italia si gela”. Le spiego che non sto andando a Murmansk, ridente cittadina russa posta nel Circolo Polare Artico, ma a Verona. Al massimo ci saranno due o tre gradi in meno.
Mi chiudo la porta dietro le spalle e con il mio fedele zainetto sono in strada. Qualche spazzino, poche macchine e le strade umide per la pioggia del giorno precedente. Sotto le strade della Capitale la metropolitana corre veloce ed in meno di venti minuti mi porta a destinazione. Stazione Termini. Rispetto ai tempi belli delle trasferte sono già pronto al comitato di accoglienza formato da polizia, carabinieri, guardia di finanza e personale di Trenitalia in tenuta anti-sommossa per scongiurare l’ipotesi che qualcuno provi a salire di straforo sui loro derelitti convogli. In un certo qual senso queste aspettative saranno tradite, c’è poco controllo ai binari e, salendo sul treno, noto come fra la stragrande maggioranza dei passeggeri ci siano tifosi e molti giornalisti, più o meno noti, diretti a Verona. Dopo anni di viaggi tribolati, infiniti e folkloristici, per me la vera novità è sedermi su una poltrona della seconda classe dell’Alta Velocità e viaggiare, sonnecchiando, in tutta tranquillità.
Due ore e cinquanta minuti per percorrere i 508 chilometri che separano Roma e Verona. È forse una delle poche volte in cui mi accorgo che anche in Italia qualcosa, nel tempo, è riuscita a progredire. Penso anche che ci vuole meno tempo a viaggiare tra Lazio e Veneto piuttosto che a caricare alcuni video sul nostro canale YouTube. Con lo stesso tempo, spesso, si va da una parte all’altra della mia città, tanto è vero che la battuta di un ragazzo seduto avanti a me, “forse mi conviene trovare lavoro a Verona e fare il pendolare”, è molto di più che una semplice frase spiritosa. Il tempo sembra reggere e anzi, dopo Firenze, con il sole che finalmente si porta in alto, si prospetta una giornata davvero bella.
Alle 9:20 in punto ecco apparire fuori dal finestrino l’insegna di Verona Porta Nuova. Tanti omini vestiti di blu, con scudi e strani bastoncini neri alla mano, sono in attesa. È ancora molto presto e voglio gustarmi un giretto per il centro della città. Per me non è la prima volta qui e, anche non potendo dire di esser pratico, riesco comunque ad orientarmi con una certa facilità. Che Verona sia una città molto graziosa non lo scopro di certo io, così è piacevole passeggiare fino a Piazza Bra, dare un’occhiatina all’Arena, prendere Via Mazzini fino alla bellissima Piazza delle Erbe e poi, infine, concedersi anche una romantica apparizione sotto il balcone di Giulietta, mischiato alle decine di turisti che già circolano per i vicoli della città. C’è tempo anche per una colazione e poi via, su per Corso Porta Nuova, fino alla stazione da dove imbocco Viale Palladio che mi porta proprio davanti alla Curva Sud.
Manca un’ora al fischio d’inizio, ci sono già decine di tifosi che camminano avanti e indietro, ognuno verso il proprio settore. Ci saranno oltre 30.000 spettatori sulle gradinate. Nonostante l’Hellas venga da due sconfitte consecutive, sta disputando un campionato di tutto rispetto che la vede ancora in corsa per un posto in Europa League. Dopo anni di sofferenze, retrocessioni e spareggi per non retrocedere in C2, si respira un’aria buona all’ombra dell’Arena. Il pubblico, che (bisogna dirlo) non ha mai abbandonato le maglie gialloblu, è orgoglioso di poter tornare a calcare il palcoscenico della massima divisione dopo anni di anonimato, e questo rende il “Bentegodi” uno dei pochi stadi d’Italia che ancora fa registrare ottimi numeri e settori interamente venduti in abbonamento.
Seguendo le indicazioni della stampata del mio accredito, arrivo davanti al botteghino dove, al contrario di quanto pensassi, non c’è per niente fila. Una ragazza mi rilascia velocemente il biglietto, mentre noto che sono proprio vicino all’ingresso degli ospiti, con il conseguente, ed imponente, dispiegamento di forze dell’ordine. Sto per entrare, ma mi fermo ad osservare una scena. Uno steward nega l’accesso di una macchinetta fotografica ad una ragazza. Questo perché secondo lui si tratta di una reflex professionale che violerebbe il regolamento per la salvaguardia dei diritti d’immagine dei giocatori. Vado un po’ nel panico. Innanzitutto perché se la ragazza ha la possibilità di lasciare l’apparecchiatura in macchina, io no, e poi perché comunque la mia fedele Canon è entrata ovunque in Italia, e non vedo perché qua non debba accadere.
Espongo i miei problemi all’uomo in pettorina gialla, dice che non si può fare niente e che al massimo la posso lasciare là vicino a lui che “tanto non la ruba nessuno”. Non è per sfiducia, ma non ci sono mai andato a cena insieme, e di lasciare macchinetta ed obiettivi alla mercé di tutti proprio non se ne parla. Lui sostiene che questa sia la regola ovunque, io gli dico che invece ovunque me l’hanno fatta passare senza problemi. Su una cosa gli do perfettamente ragione, cioè quando mi dice “Perché in ogni città ognuno fa come cazzo gli pare”. Colpa mia? Alla fine, dopo venti minuti di questo isterico teatrino, si consulta con qualcuno e mi lascia passare, raccomandandosi di usarla in maniera oculata.
Trovo tutto davvero troppo esagerato. A questo punto siamo arrivati? Eppure non è che volessi entrare sulle tribune con una pistola o un razzo. Le regole ci possono anche essere, ma usare del buon senso a volte non guasta. Parole sprecate se applicate al calcio. Capisco, sto zitto ed entro, ringraziando la mia insistenza se potrò tranquillamente scattare. In fondo, neanche ciò riesce a farmi diventare antipatico uno stadio come il “Bentegodi” che, sin da bambino, sarà per quel nome Marc’Antonio, sarà per lo scudetto conquistato da una squadra fuori dai giri di potere come il Verona, o semplicemente perché ero fissato con Totò de Vitis, uno che da queste parti è ancora ricordato con affetto, mi è sempre piaciuto da matti. Inoltre ho avuto anche modo di saggiarlo nelle vesti di tifoso e devo dire che è un impianto che facilita il tifo.
Gli spalti si vanno riempiendo e nel settore ospiti piano piano si colmano tutti i buchi fino ad avere una bella idea di compattezza. Sono 1.700 i tifosi giunti dalla Capitale, un numero così basso a causa della limitazione sui biglietti posta in essere dal timoroso questore di Verona. Lo stesso che, in settimana, in chiaro segno di avvertimento in vista di questa partita, ha usato la mano pesante nei confronti di una decina di tifosi scaligeri protagonisti di alcuni disordini (se così possiamo chiamarli, dato che qualcuno è stato diffidato per aver insultato la polizia) nelle gare precedenti.
Lo stadio offre davvero un buon colpo d’occhio e noto subito come le componenti del tifo veronese si dividano fondamentalmente in due parti, la Curva Sud e il Settore Est, dove sono posizionate circa 200 persone che si compattano subito, beccandosi con i Romanisti. C’è anche un gruppetto nella parte alta della tribuna, con diversi bandieroni e qualche pezza, ma resteranno muti per tutta la partita, quindi penso si tratti più di una nota di colore in un settore tradizionalmente più freddo.
Le squadre entrano in campo. Nella curva di casa compaiono un paio di torce con una bella sbandierata e, in sottofondo, il classico coro sull’Aida di Verdi. Nel settore romanista si fa largo uso della pirotecnica e possente si alza il tradizionale “Quando l’inno si alzerà”. Devo essere sincero, rispetto allo scorso anno, quando li vidi in quel di Castellammare, rimarrò parecchio deluso dai Veronesi. Dopo un buon inizio, infatti, i Veneti si spengono, risultando poco coesa ed omogenea all’interno del proprio settore. A volte capita che due cori vengano eseguiti con una diversa velocità dalle due metà della Curva. Un peccato, perché quelle poche volte che la Sud ha alzato il volume, riuscendo anche a portarsi dietro il resto dello stadio, ha dato una bella impressione di compattezza. Però, sinceramente, davvero troppo poco per una tifoseria spesso decantata come quella scaligera. Forse la settimana turbolenta messa in atto dalla questura ha pesato quest’oggi, o forse si è semplicemente trattato di una giornata storta, magari dovuta alla tensione della sfida.
Da segnalare l’esposizione dello striscione: “I questori passano, i butei restano…i loro figli già combattono”. Per quanto riguarda i ragazzi situati nel Settore Est, anche loro sono da rivedere. Rispetto al potenziale, sono davvero in troppo pochi a cantare, salvo lo scambio di offese con gli ospiti. Insomma, complessivamente mi aspettavo molto di più dal “Bentegodi”. Forse anche l’andamento della partita, con la Roma che esce netta vincitrice dal campo, ha influito. Ma l’aria è più che altro quella di un passaggio a vuoto.
Capitolo Romanisti. Rimango inversamente colpito da loro. Dopo i primi cori contro i dirimpettai, cominciano a tifare davvero in maniera egregia. Battimani, cori continuati, cori a rispondere e molti stendardi nel settore. Quasi totalmente assenti striscioni e pezze. Non mancano invece torce e fumogeni, sempre bello vederli nei nostri stadi oggigiorno. Da segnalare l’esposizione dello striscione “A Roma scortati”, tenuto poi in balaustra per tutta la partita.
In campo il primo tempo, molto equilibrato, finisce con la Roma che trova il vantaggio proprio allo scadere. Uno scatenato Gervinho entra in area da sinistra e serve Ljaijc che, con l’esterno del destro, batte Rafael, mandando in visibilio i tifosi giunti dalla Capitale; davvero bella la loro esultanza, condita da un paio di fumogeni e dal coro “In Curva Sud noi staremo ad aspettar, un tricolore giallorosso per gli ultrà”. Rabbia del pubblico di casa, che aveva sinora visto un Hellas volitivo spingersi avanti in un paio di occasioni, con Toni fermato in extremis da Benatia.
Comincia la ripresa e le due tifoserie riprendono le proprie postazioni. Subito emozioni con il Verona che trova il pari grazie all’islandese Halfredsson: il suo tiro da fuori fa secco un non perfetto De Sanctis e provoca l’esultanza dello stadio intero. Un bel boato, con un altrettanto scenografica “cascata umana” in Curva Sud. Ma la situazione di parità dura poco ed è ancora Gervinho a risultare decisivo. L’Ivoriano rientra da sinistra e con un destro chirurgico batte nuovamente l’estremo difensore gialloblu. Esultanza sotto la curva romanista che impazzisce di gioia. Il rigore di Totti nel finale chiude i conti, facendo saltare e cantare i Capitolini che, con questa vittoria, recuperano due punti sulla
Juventus, fermata la sera prima all’Olimpico dalla Lazio. Al popolo veronese non rimane altro che l’orgoglio, così parte il classico “Alè Verona alè” sulle note dell’inno inglese, mentre nel settore ospiti si canta a squarciagola prima “Campo Testaccio” e poi la storica “Barbera e Champagne”. L’arbitro decreta la fine delle ostilità dopo un paio di minuti di recupero. Per me non c’è molto altro tempo, alle 15:15 parte l’Eurocity per Bologna, dove seguirò una partita della Fortitudo. Mi concedo gli ultimi scatti e poi mi accodo alla folla che sta abbandonando lo stadio.
La stazione dista poco più di un chilometro e, con relativa calma, la raggiungo con un quarto d’ora di passeggiata. La prima parte della giornata è conclusa ed il saldo possiamo definirlo positivo. Mentre la pianura padana corre veloce dal finestrino, riguardo foto e video con relativa soddisfazione. Mi accorgo che nelle ultime domeniche sto dando il meglio di me stesso, imperversando da Sud a Nord al seguito di numerose partite. Constatato che forse sto totalmente impazzendo, mi ripropongo di passare il prossimo fine settimana in maniera più tranquilla e pacata. D’accordo che sono il Mitomane di Sport People, ma evitiamo di rimetterci in salute. Anche se, al momento, correre da una città all’altra, dalla metro al treno passando per autobus e pullman, è un qualcosa che ancora mi attira da matti. Oltre che mitomane pure nomade. Il peggio del peggio.
Testo e foto di Simone Meloni.