Perdonate la riscrittura faceta di un motto nato per motivi molto importanti. Ma la presenza di tiktoker e influencer nelle curve degli stadi italiani è un fenomeno in crescita che fa nascere molte perplessità e mette in evidenza l’interrogativo di quanto di positivo ci sia davvero in questo “calcio moderno” quando imbocca certe derive.

Ormai sono ovunque, non solo nelle mete turistiche gettonate. Si sostiene che questi creatori di contenuti portino visibilità e freschezza al mondo del calcio, attraggano un pubblico più giovane e diversificato, e potenzialmente aumentino l’interesse per lo sport. Ma siamo proprio sicuri che i contenuti mostrati, in quei pochi secondi di video, siano di qualità e che il valore dell’informazione che viene diffusa, non abbia un potenziale impatto negativo sulla cultura e sull’atmosfera delle tifoserie?

Se una buona parte d’Italia ha riso quando Roccaraso è stata improvvisamente assediata grazie o a causa di “influencer”, ecco, immaginate allora le curve italiane, che già lottano strenuamente in questo periodo storico per restare in vita, diventare nuove mete turistiche, mostrate sui social come i peggiori attori di un circo mediatico, dati in pasto ai like in una cornice di pixel disponibile all’infinito per tutti nel mondo… che se già i tifosi occasionali alle volte sono di troppo, ma almeno hanno un interesse affettivo, figuriamoci i “turisti”.

La situazione attuale che sta vivendo il mondo del tifo nel calcio italiano è precaria in termini di libertà di espressione. Il clima di repressione che si vive in tutta la penisola diventa sempre più evidente, non solo con le trasferte vietate e, ultima, i daspo fuori contesto (contro i quali si esprimeva proprio lo striscione abusivamente citato in apertura). Se, da una parte, la presenza di influencer vari potrebbe davvero modernizzare un calcio da decenni gestito da dinosauri, è indubbio che la loro stessa presenza può alterare l’atmosfera autentica delle curve, trasformandole in spettacoli mediatici piuttosto che in luoghi di autentica passione sportiva.

Ma è davvero di questo che hanno bisogno le tifoserie? Con i daspo che arrivano a raffica anche a distanza di anni, con i video dei cellulari che girano nel web risultando spesso galeotti? Quanto ci si può fidare di questa tecnologia a (spesso morboso) uso altrui e fuori dal controllo diretto dei tifosi, ben distante dal linguaggio dei tifosi?

Lo ricordiamo tutti il famoso coro “giornalista terrorista”. Quant’è meglio un tiktoker che riprende i volti e il tifo in campo, che mette online al pubblico ludibrio le azioni che precedono o seguono una partita in termini di scontri e rivalità? Se è proprio il vuoto del giornalismo a generare questi fenomeni, con il suo pressapochismo e la sua subordinazione alla verità preconfezionata dalle autorità, non di meno questi giullari finiscono inevitabilmente per restare in superficie, per mostrare il folklore e perdersi il senso profondo del tifo nelle sua accezioni migliori, aggregazione e solidatrietà.

CONTENUTI A DISCAPITO DELL’INFORMAZIONE E POSIZIONI S-COMODE

Non starò qui a spiegare la differenza tra intrattenimento e informazione, affidandomi alla buona coscienza e conoscenza di ogni lettore. Farò invece un’analisi veloce delle cause principali che spingono la maggior parte dei tiktoker a partecipare a partite di calcio a bordo campo o in posizioni d’onore: la moda, la visibilità, le opportunità di sponsorizzazione. Insomma, in breve, guadagno. Proprio quel guadagno che fa gola a società e leghe sportive che possono vedere queste presenze come un’opportunità per aumentare a loro volta introiti e capacità di attrarre sponsor.

Aumentano anche i “like”, le “views” e mediaticamente anche l’”hype” degli eventi, ma perde l’informazione, resta paradossalmente ancora meno notizia rispetto al giornalismo, solo un luccichio che sa di spettacolo ma che è quanto di più distante si possa immaginare dal tifo che muove, popola (o spopola) le curve, nel bene e nel male, molto più vicino all’odiato calcio moderno, alle squadre B e a tutte le degenerazioni di quello che una volta era uno sport di popolo e per il popolo.

Restando in posizioni scomode, la regolamentazione dell’accesso alle strutture e gli accrediti in campo, che si tratti di campi dilettantistici o di serie A, B, C hanno norme rigorose di cui la presenza di tiktoker è spesso una violazione se non del tutto una sospensione. Ops, arriviamo al punto che mi tocca più da vicino. I giornalisti professionisti e i fotografi in campo sono tenuti ad avere “le carte in regola” per essere accreditati, oltre che rispettare standard minimi di professionalità e deontologia, ma facciamo pure che non si invochi la psicopolizia in questo settore, che già per regolamentare gli spalti ha fatto troppi danni, sarebbe bello si possa godere tutti di questa totale libertà e discrezionalità concessa a costoro.

Se dunque, oltre al fatto che i tiktoker non hanno la stessa formazione giornalistica, essendo lì per trasformare momenti in contenuti creati per le piattaforme social, svuotandoli di senso e patinandone le copertine, vantano oltretutto spesso di privilegi concessi dalle società stesse che scavalcano chi, invece, è lì per fare informazione. Così mentre spesso si alzano steccati, specie in partite più importanti, con addetti ai lavori che restano fuori per l’alto numero di richieste, mortifica le professionalità restate al palo proprio questa corsia preferenziale concessa a chi non avrebbe nemmeno titolo o motivo di entrare.

Oltre alla frustrazione è lecito interrogarsi su quanto valga la pena spendersi nella dedizione a un ruolo senza che ciò possa in qualche modo colmare il divario e la concorrenza sleale di chi, di fatto, non è null’altro che un intrattenitore. E qui, immagino una versione Roccaraso ma a bordo di un campo di calcio, la stessa ressa fuori controllo di gente, telefonino alla mano, a farsi selfie mentre i led prendono il posto delle torce flash invertendo il baricentro fra il luogo di aggregazione che non è più il motivo e il centro della narrazione ma il pretesto per la vanità altrui. Ok, mi fermo qui…

È essenziale comunque trovare un equilibrio tra la modernizzazione e l’apertura verso nuovi media nel rispetto delle norme e degli standard professionali che garantiscono l’integrità e la credibilità del giornalismo tutto.

Ma ancora più urgente, è la salvaguardia di un ambiente che, che piaccia o meno, resta il luogo di aggregazione più longevo e attivo in termini di partecipazione che la società italiana conosca, non un mero circo di freak a uso e consumo di chi non lo conosce e non aiuta a farlo conoscere all’esterno, acuendo così stereotipi di cui se ne farebbe volentieri a meno, oscurando ancora di più zone d’ombra in cui affondano pregiudizi e falsità.

Imma Borrelli