In questo periodo dell’anno faccio sempre fatica a venirne fuori. A raccontare gli ultimi scampoli della stagione, le sfumature, i personaggi che vivono le più disparate emozioni: dalla gioia della vittoria di un campionato alla tristezza di una retrocessione avvenuta in extremis. Scelgo le partite in base a consolidati criteri, tra cui primeggiano sempre quelli emozionali: laddove si consumerà il “vissuto” e si scriveranno anche soltanto due righe della storia di un gruppo o di una tifoseria, c’è la mia priorità. E se possibile la mia presenza (purtroppo non sono ancora riuscito a trovare la ricetta per divenire ubiquo). A Tivoli invece non si celebrano promozioni, non si piangono declassamenti. Semmai si osserva attoniti un campionato anonimo, arrivato dopo la retrocessione dello scorso anno di cui si è cercato di raccogliere i cocci e ripartire con dignità nello scenario mai troppo esaltante dell’Eccellenza Laziale. Chi mi conosce sa bene quanto sì, mi piacciano i prestigiosi palcoscenici delle finali o le sfide epiche che assegnano un titolo o un risultato, ma al contempo ritengo fondamentale l’anima, l’arteria centrale, di un qualsiasi aspetto in grado di aggregare esseri umani attorno a un pallone e, soprattutto, dietro a degli striscioni. E senza voler scendere nell’adulazione, credo di poter affermare che a difesa dei vessilli amarantoblu, negli ultimi anni, si sia cresciuto e abbia resistito un seguito e un modus vivendi importante. Un qualcosa – come già detto in precedenti articoli sulla Tivoli – di raro per il Lazio e, soprattutto, per l’hinterland capitolino. Dove non vanno visti i numeri in primis, ma lo spirito e gli ideali con cui viene portata avanti la militanza.

Da casa la strada corre abbastanza veloce, interrotta giusto da qualche fastidioso semaforo sul tratto periferico della Via Tiburtina. Fa moderatamente caldo in questa primavera ormai inoltrata e una volta giunto davanti all’entrata dello stadio Olindo Galli, non posso far a meno di notare l’impressionante stuolo di macchine parcheggiate. Non sono là per la Tivoli, ma per una manifestazione che si terrà nel vicino palazzetto dello sport. Sugli spalti dell’impianto tiburtino ci saranno gli ultras e pochi altri. Perché contro il Valmontone – fresco vincitore del campionato – non ci si gioca niente, se non la conferma del proprio orgoglio e il voler ribadire che gli ultras vanno ben oltre certe logiche passeggere, mosse dal vento in poppa o dall’opportunismo che, di contro, motiva e galvanizza brevemente l’ego degli astanti sul carro dei vincitori. Pure di quelli senza storia, senza appartenenza e dalla discutibile tradizione sportiva. Nella vita talvolta bisogna decidere se godersi una bella fumogenata per pochi o mischiarsi a un’anonima festa per tutti. Del resto una slogan con cui sono cresciuto e che proprio sulle gradinate ho imparato è “meglio pochi convinti che mille pecore”. Io da anni queste scelte le ho fatte e oggi le rivendico orgogliosamente, puntando i miei occhi e il mio spirito narrativo su chi non si scopre sostenitore della propria terra all’ultimo momento e non mollerà domani in favore di una categoria superiore o di una strada più facile da percorrere. Anche se tutto ciò avviene a un manciata di chilometri (salvo successivi trasferimenti nelle Marche, in Abruzzo o sulle sponde di qualche lago tra Roma e Viterbo).

Il piazzale dello stadio è dunque nero di gente, ma di persone interessate ad altro. Non allo stadio. Non alla Tivoli. Non al calcio. Una sorta di contraddizione in termini che ben spiega lo spirito di questa ultima giornata di Eccellenza. Un manipolo di ragazzi sta sistemando i bandieroni, tirando fuori dalle macchine tamburo, striscioni e megafono per preparare il proprio ingresso sugli spalti. Di polizia ce n’è poca, quasi niente. Evidentemente gli eventi “mondani” che si svolgono a valle hanno attirato le maggiori attenzioni dell’ordine pubblico e dei funzionari preposti, i quali pregano le varie immagini votive locali di non doversi trovar invischiati in una stagione dove i problemi maggiori non saranno dati da una dozzina di tifosi del Valmontone, ma da gruppi seri, storici e spesso problematici. Ma questo è un loro problema, che ormai in Italia viene sovente risolto con divieti e limitazioni, da bravi censori repressivi quali siamo, o meglio sono.

Bando alle ciance: supero i cancelli ed entro in campo, prendendo la pettorina e cominciando a sistemare la mia attrezzatura sulla pista d’atletica. Da sottolineare la facilità con cui queste operazioni avvengono, aspetto quasi sensazionale considerate le ultime esperienze traumatiche occorse in questo impianto a causa della rigidità di qualche recente padre padrone autoctono. Fortunatamente Tivoli è altro, nella mia mente e nella realtà. Fortunatamente Tivoli non è chi la vorrebbe isolata e inospitale in nome di una non ben chiarita superiorità morale o imprenditoriale. Tivoli, almeno quella sportiva, per quanto mi riguarda sono innanzitutto quei ragazzi che poco dopo di me entrano nella loro casa e cominciano a organizzare la domenica, per dare spettacolo. Anzi, per essere l’unico spettacolo di una partita che altrimenti avrebbe come unico scopo quello di consegnarsi agli almanacchi sottoforma di statistiche e risultati.

Tivoli è sempre stato uno di quei posti belli dove “uccidere” il tempo quando si faceva “sega” a scuola. O quando dovevi uscire con le prime ragazze. Le sue ville, la sua natura, i vicoletti del centro storico, nonché la sua vicinanza a Roma, erano e sono una sicurezza. Cosa che si è confermata negli anni, crescendo, quando – più di rado – mi è capitato di venirci e avere sempre una veduta diversa dall’immensa maestosità della città dove ho la fortuna di esser nato e cresciuto. Una veduta altrettanto storica e unica. Una porta, tra l’altro, a montagne, laghetti, scrosci d’acqua e segreti bucolici, che solo quando superi i trent’anni e ti appassioni al silenzio o a pratiche sportive solitarie puoi apprezzare. Già, lo so che sembra strano credere che uno come me – che passa trequarti della vita tra stadi, cortei, tifo e viaggi – possa avere come fulcro centrale della propria esistenza il silenzio. Ma così è. Anzi, aggiungo che il frastuono delle curve è forse l’unico che apprezzo davvero, quasi non avvertendone la grandezza e i decibel. Tutto questo per dire che da qualche anno ho imparato a incastonare tra tutti questi tratti distintivi tiburtini, i suoi ultras. A prescindere dalla categoria, dai numeri e da quanto essi facciano parlare di loro (in realtà poco). Quando mi ritrovai, lo scorso anno, a scrivere su di loro a distanza di tempo, sottolineai il percorso netto, lento, importante, fatto dalla ripartenza del sodalizio amarantoblu ai giorni nostri. Un percorso che ha chiaramente conosciuto la massima gioia con la partecipazione alla Serie D e la possibilità di confronto con piazze e tifoserie storiche del panorama nazionale. Un percorso che, infine, ha dovuto rimboccarsi le maniche in questa annata. Lontano dai riflettori del massimo campionato dilettantistico italiano. Bisognoso dello spirito dei suoi protagonisti per andare avanti e tener accesa la fiamma della militanza.

Minuto diciannove. Non un numero a caso. Ma quello che identifica l’anno di nascita della Tivoli. Un lungo striscione viene srotolato lungo tutta la tribuna: “Dimmi cosa resterà se mando tutto in fumo adesso” mentre lentamente si leva al cielo la densa coltre di fumo con i colori scolpiti nel cuore di questi ragazzi e per i quali da anni fanno sacrifici e si caricano sulle spalle tutte le difficoltà del caso. Una frase iconica, forse ancor più azzeccata in questo contesto rispetto alla canzone da cui è presa (“Amor” di Achille Lauro). Un assunto con cui rimarcare il concetto dell’esserci stati, esserci oggi, esserci domani. Di non mandare in fumo anni di lavoro, di costruzione, di impegno e sacrifici. Anni in cui le soddisfazioni hanno conosciuto, ovviamente, anche delusioni e momenti di buio e in cui, come in ogni situazione della vita, mantenere in piedi rapporti, relazioni, sentimenti o sconfiggere conflitti e acredini, rimane la sfida più grande. Mandare in fumo un progetto come quello degli ultras tiburtini sarebbe senza dubbio una grave perdita, almeno nell’ambito di una regione che da sempre fatica in modo allucinante nel partorire e mantenere in vita situazioni di questo tipo, dove il senso di appartenenza prevale e riesce a creare un filo che lega tutte le sue componenti. E non si guardi al numero, perché quello è spesso relativo. Certo, è chiaro che anche questo sia un aspetto importante, così come il ricambio generazionale, vero tallone di Achille per le realtà che gravitano e vivono attorno alle grandi città. Ma quando si parla di gruppi che hanno un’anima, che non si sono omologati alla modernità, appiattendosi o prestandosi alla necessità di “apparire” (e magari saltare intere stagioni quando ci si allontana dai bagliori del palcoscenico), e che al loro interno possono contare su figure “autodeterminate”, che hanno un’idea chiara di stadio, che non sono schiave o serve di situazioni contingenti, da fuori si ha quasi la “pretesa” (interpretate bene questo mio paradosso) che si continui sulla strada tracciata. Ancor più per sottolineare come da una parte ci sia l’essere, dall’altra l’apparire (per poi sparire). In quest’ultima frase ogni riferimento a persone o situazioni da grande distribuzione specializzata sono del tutto casuali (sic!).

In questo scenario, sullo sfondo, la Tivoli stravince l’inutile partita, imponendosi per 5-2. Ma questo, sì, è solo utile agli almanacchi o ai giornali del lunedì. La scena l’hanno ampiamente rubata gli ultras, come spesso accade. E siccome sovente la retorica degli stessi diventa insopportabile quanto non veritiera, vorrei sottolineare come a Tivoli queste sigle, questi difensori dei vessilli, della storia sportiva e cittadina servano come il pane. Checché ne possa dire qualcuno, il sodalizio che sul petto porta l’effige comunale non può essere di proprietà di un singolo, neanche di un eventuale sfarzoso imprenditore, semplicemente perché non è solo una società – o un’azienda, fate vobis – ma un patrimonio della cittadinanza. Esattamente come lo sono Villa Gregoria, Villa d’Este o la Rocca Pia. La Tivoli è “solo” la prosecuzione di mille sfumature del posto in cui gioca e della sua gente, l’albero secolare le cui radici sono legate a tradizioni e usanze del popolo. In tal senso è quasi doveroso chiudere l’articolo citando le epiche battaglie tra butteri e “pallonari tiburtini”, i quali sin dal 1300, praticavano giochi in cui la palla era calciata e che nel tempo divennero così popolari da coinvolgere anche alte sfere della società di allora, tra cui chierici e preti. Malgrado vari interventi del Comune, che stabilì diverse sanzioni per evitare danni alle colture, nel 1500 le partite si disputavano proprio nell’orto della Rocca Pia. Motivo che creò lo scontro con i butteri, i quali, ogni volta, di ritorno dalle campagne, vedevano il loro spazio violato e occupato. Scontri che aizzavano la folla, divenendo un vero e proprio evento popolare e che, volendo unire tradizione, leggenda e storia, rappresentano un po’ i padri di quello che poi sarà il calcio tiburtino. Sicuramente un qualcosa che la tifoseria organizzata rivendica, rispecchiandosi nell’essere spavaldi ma anche incuranti delle regole dell’ordine costituito da parte dei pallonari. Un atteggiamento che gli valse l’appellativo – dei sacerdoti dell’epoca – di “oziosi e vagabondi”.

Il sipario scende sulla stagione 2024/2025. Gli spalti si svuotano velocemente e gli unici a rimanere sono, come sempre, gli ultras con i loro striscioni e la loro voglia di non gettarsi subito alle spalle la domenica. L’estate può cristallizzare, fermare, immobilizzare. Ma non deve sciogliere con il suo caldo o bruciare con il suo solleone. Ecco perché ai nastri di partenza della prossima annata ci sarà nuovamente da riportare passione e seguito sia in Via Empolitana che lontano dai confini comunali. E questo, personalmente, me lo auguro per loro ma anche per l’intero movimento regionale. Che lo spirito dei “pallonari tiburtini” sia quello in grado di spingere vecchie e nuove generazioni a superare difficoltà e ostacoli, che possono sembrare insormontabili quando le acque si calmano e si esce fuori dal momento di giubilo e festa. E se c’è chi invidia una vittoria sportiva o uno stadio pieno per la circostanza festaiola, evidentemente ha già barattato il proprio senso di appartenenza con l’effimero carro dei vincitori. Ma quello fa parte della vita. Il dato di fatto è che da quel carro si scende in men che non si dica, mentre sul pullman e sui treni che vanno in trasferta ci resta chi crede, chi vale e chi negli anni ha scolpito a vita l’emblema del proprio essere ultras.

Simone Meloni