Rifiutare l’effimera – seppur inebriante – convinzione che qualcosa possa cambiare, non significa peccare di relativismo. Vuol dire soltanto covare nel proprio animo un briciolo di buon senso: atto a non cadere nella vile trappola di chi auspica che il teatrino – imbastito per salvaguardare l’interesse di pochi, a discapito della passione di molti – continui ad essere inscenato. La cultura popolare del tifo sta giacendo da anni inerme sotto le ceneri della destrutturazione dell’Olimpo dell’emozioni. Più volgarmente, lo sfaldamento del mito dello stadio, dei gradoni di una Curva, dell’impareggiabile sensazione di poter contribuire al trionfo dei proprio Colori con la grandezza empatica di un accompagnamento canoro. Sin dalla tenerissima infanzia, nessun’altra dottrina pedagogica ha avuto ragion d’essere. Almeno per noi, per coloro che ancora scrutano nella disciplina sportiva più bella del Mondo una ragione emotiva per non cedere agli infidi richiami della contemporaneità.
Il fine settimana accompagnato da una sacralità quasi dogmatica. L’ingresso nella Cattedrale della nostra fede seguito da un fitto nodo scorsoio, con la gola attanagliata nello scalare quelle rampe che separavano il desiderio di riflettere la nostra visceralità nell’impegno dei delegati alla difesa di una Casacca. La voce rauca e flebile al termine della contesa, consapevoli che entro pochi giorni le corde vocali dovessero ritornare ad essere vigorose ed auliche. Il giubilo di una soddisfazione o la desolazione di una disfatta, sempre coscienti, però, che quanto profuso in quei novanta minuti più recupero in termini di sostegno dovesse trovare rifacimento la domenica successiva.
Di tutto ciò, oggi, cosa rimane? Il deturpamento di una mentalità, in eterni decenni di disdicevole normatività. Per mezzo di uno Stato – negligente ed inefficace nella risoluzione delle vere incombenze – e di organizzazioni di competenza, che non hanno certo erto quest’ultima a valore di riferimento. Sarà pur vero che le recenti responsabilità risiedano in una poco pianificata mobilitazione ultras, la cui irrazionalità è spesso sfociata in cronica ed irreparabile colpevolezza: per l’esaltazione del genuino divertimento, ossia ciò che dovrebbe sostanziare una partita di calcio, non si può mettere a repentaglio la vita. Ma è altrettanto lampante che il complesso istituzionale non abbia avuto il minimo riguardo nel garantire perseveranza all’aggregazione tradizionale per antonomasia. Oltre a dirimere legislazioni bislacche ed inversamente proporzionali alle urgenze del nostrano sistema calcistico, le istituzioni italiane hanno preferito un’operatività sterile, invece che adoperarsi nel merito delle questioni.
Ergo, non l’oggettività di un lavoro diplomatico, dedito alla trasparenza e alla sobrietà governativa. Bensì una collusione organica con la sovrastruttura del guadagno e con il leviatanico ecosistema del profitto. Ed è così che i burocrati, in pindarici tecnicismi arzigogolati, impacchettano l’ennesima celebrazione delle orge del Calcio Finanziario. Fuorvianti provvedimenti repentini, delegittimazione di precedenti regolamentazioni, incongruenza di intenti e di prospettive. In estrema sintesi, l’articolo 9 subisce una netta derubricazione, le trasferte vengono vietate, gli ultras additati consuetamente come cancro da estirpare. Dando senso alla logica, di quale linearità godrebbe questo continuum? Abbiamo accettato che si venisse schedati prima ancora che si compiano infrazioni, che i biglietti nominali iniziassero a contornare San Siro, l’Olimpico di Roma e di Torino, il Marassi, che qualsiasi restrizione si incastonasse nell’eccezionalità di uno spettacolo che non dovrebbe essere così fortemente limitato. Alcuni errori sono stati commessi e per i medesimi taluni hanno risposto.
L’equità, però, sta nel saper discernere. Imporre di non seguire la propria squadra in giro per l’Italia – come accaduto alla Curva Nord Milano a Bergamo e a Napoli -, contravvenendo a disposizioni precedentemente ratificate e ripetutamente sbandierate al pari di vessilli di trionfo politico, è ridicolo. Non perseguire penalmente personalità che investono in società senza il becco di un quattrino e deplorano che il cuore pulsante di quel simbolo li rigetti, è oltraggioso ed irrispettoso. Ecco, dunque, che i vari Ghirardi e Manetti si sfregano le mani, crogiolando nel loro spocchioso auto-referenzialismo, mentre i vertici del Palazzo – da Tavecchio a Beretta – sguazzano in un pantano di reticenza e sentenziano nell’omertà generale. Siamo certi che il male del calcio siamo noi?
Alex Angelo D’Addio