Eccomi in Algeria. Da anni volevo visitare questo paese e più volte ne ho perso l’occasione per vari motivi. Finalmente ce l’ho fatta: decido di trattenermi qualche giorno in più dopo una visita per motivi di lavoro e ne approfito per andare a vedere alcune partite del campionato di calcio locale.

Venerdi 6 marzo, sono a Oran, la seconda città del paese dopo la capitale Alger. Oran è un importante porto e accoglie 1,100.000 abitanti. Oggi il Mouloudia Club d’Oran gioca contro l’Unione Sportive della Medina d’Alger. Il venerdi è giorno festivo per i musulmani, come la nostra domenica, e la città è calma. L’unica difficoltà sarà reperire i biglietti e sopratutto raggiungere lo stadio. I nostri colleghi algerini vogliono portarci al campo e mi sembra l’idea più sbagliata mai avuta. Girando l’Europa e un po’ il mondo, mi sono di solito organizzato sempre da solo, sia per muovermi nel paese sia per andare allo stadio. Non compro mai guide turistiche e credo che la cosa migliore sia parlare con la gente del posto e affidarmi al buon senso. Fino ad oggi questo metodo ha avuto ottimi risultati, permettendomi di incontrare persone interessanti e di trovare il modo di assistere a partite quasi assurde in stadi da centomila persone in Messico come in stadi da 3000 posti in terza categoria serba.

Come altri paesi della zona l’Algeria attraversa un periodo difficile, con un regime politico molto particolare ed un malcontento che serpeggia tra la popolazione locale. Il governo si assicura una calma apparente tramite una ridistribuzione del reddito che appare infinitesimale a fronte dei colossali introiti derivati dalla vendita del petrolio e del gas (che rappresentano la meta del P.I.L. del paese). L’Algeria è, infatti, un paese ricco di riserve di gas e petrolio. Il presidente Bouteflika è stato rieletto per la quarta volta consecutiva senza una vera e propria campagna elettorale, essendo malato e non potendo quindi apparire in pubblico. Si dice che in Algeria il vero potere sia nelle mani dei militari che controllano il paese non solo con l’esercito, ma anche economicamente e politicamente.

Per evitare la contaminazione delle primavere arabe che in altri paesi hanno prodotto vere e proprie rivoluzioni, come ad esempio nella vicina Tunisia, dove il popolo ha cacciato via il dittatore Ben Ali, il governo algerino ha aperto il rubinetto del denaro per calmare tutti. Si nota concretamente un’esplosione del numero delle macchine in circolazione e gente conseguentemente indebitata per vent’anni. Il risultato è un traffico caotico, perché da pochi anni, quasi tutti possono andare in banca per accendere un mutuo.

Solo oggi, venerdì, non c’è traffico, ma questo non ci impedisce di arrivare in ritardo allo stadio: non per colpa mia, ma per l’idea geniale che ho avuto, quella di farmi accompagnare da gente del posto, che non va allo stadio e che quindi non comprende per nulla il mio scopo di andare a trovare gli ultras locali.

In più sono accompagnato da un’amica e per i nostri colleghi di lavoro questo è quasi pazzesco : qui sono pochissime le donne che vanno a vedere la partita, perchè la società algerina, come le sue omologhe del Mediterraneo, è una società conservatrice e patriarcale. Sono le tre di pomeriggio, ora tradizionale della gara, e siamo ancora in macchina. Finalmente dieci minuti dopo raggiungiamo l’ingresso della tribuna centrale. L’entrata principale dello stadio “Parc Muncipal del sports” è storica e rende una bella impressione della struttura, ma è impossibile entrare.

Qui chiudono le porte durante la gara, il top dal punto di vista della sicurezza, sperando bene che non ci siano movimenti di panico, basta ricordare la tragedia di Port Said in Egitto, l’1 febbraio 2015, quando settantadue tifosi furono uccisi e le porte rimasero chiuse. Qua, a Oran, chi ha il compito di aprire le porte non ne vuole saperne di noi, ma dopo tre minuti di trattative il nostro accompagnatore riesce finalmente a farsi aprire i cancelli, ma non ci fanno entrare, grande figurone! Approfitto della confusione per forzare l’entrata – posso dirlo, un po’ all’algerina – con un vecchio accredito di una partita francese della stagione scorsa.

Arriviamo in tribuna d’onore dove, tranne pochi posti riservati a una trentina di persone, il resto del pubblico è più popolare che onorevole, e dunque assai nervoso. Sono pronti a inveire contro l’arbitro in arabo e, anche se non lo parlo, capisco le peggiori imprecazioni. Troviamo una specie di posto in basso e comincio ad analizzare lo stadio. Abbastanza carino, con una pista d’atletica che allontana il campo degli spalti, gremito da quindicimila spettatori almeno. Il settore ospite si trova alla nostra destra, con almeno duemila tifosi della squadra della capitale. Sono per la maggior parte seduti, ma ogni tanto si alzano e cantano a tratti durante la partita. Hanno messo degli striscioni « fatti in casa», nulla che definirei “ultras”. I rossoneri della capitale hanno appeso una bandiera del Milan, viste le similitudini per i colori i tifosi dell’USMA si autodefiniscono i milanisti (difatti, ad Algeri, troverò per le strade un ragazzo con una felpa del gruppo “Curva Sud Milan”). C’è pure uno striscione più lungo con una scritta in italiano, « Siamo noi USMA », che mi ricorda uno striscione storico del movimento ultras italiano, per i caratteri che assomigliano vagamente a quelli dello delle defunte BNA « Lo sballo siamo noi ».

Lo stadio è tutto tranne che moderno e devo dire che mi piace, non vedo alcun charme nei nuovi stadi, forse funzionali, ma, di fatto, templi del consumismo ad oltranza. Qua si respira passione, la gente segue la partita con la massima concentrazione, non ci sono i soliti idioti a fare « selfies » sugli spalti, gli pseudo tifosi moderni, clienti del pallone che comprano tutto il merchandising della società, come spesso accade in Inghilterra. Infatti qui non so come fare per trovare una sciarpa o qualsiasi altra cosa con i colori sociali, fuori non c’è nemmeno la traccia di una bancarella.

Di fronte a noi nella gradinata prendono posto gli striscioni capovolti degli « Ultras Red Castle », nati nel 2011  (prendono il loro nome della fortezza di Santa-Cruz edificata dagli spagnoli, un castello rosso che domina Oran). Accanto a loro c’è la loro sezione giovanile, « Young U.R.C. ». Non so perché gli striscioni siano capovolti e non vedo un gruppo trainante lanciare i cori. Un po’ come in Grecia o in Turchia, i cori partono all’improvviso e sono abbastanza impressionanti perché vengono ripresi da tutte le tribune.

Per finire il giro dello stadio, c’è pure un altro striscione molto ultras nella curva alla nostra sinistra, i « Red king » (o “Ultras Red King”, come c’è scritto nel loro logo con l’anno 2013 sotto, per la fondazione). In Algeria come in altri paesi dell’Africa del Nord, il movimento ultras è apparso nel XXI° secolo. Ad Algeri il primo gruppo è nato nel 2007, gli Ultras Verde Leone del Mouloudia d’Alger. Questo gruppo ha per primo introdotto il tifo « made in Italy » negli stadi del paese. In pochi anni qui, come in altre nazione del globo dove le tecniche nostrane sono state adottate, il movimento ultras ha fatto passi da gigante coinvolgendo la gioventù del Maghreb, anche aldilà del fenomeno da stadio, come durante l’occupazione della Piazza Tahrir al Cairo.

Per finire la descrizione degli stendardi, vedo anche due bandiere dell’Algeria e della Palestina attaccate alla rete. Una tematica d’obbligo nel mondo arabo, dove la causa Palestinese unisce quasi tutti. Accanto poi, c’è uno stendardo con scritto in arabo « No alla violenza ».

Gli Algerini non ne possono più della violenza, letteralmente. Un paese che ha conosciuto un decennio di guerra civile, con centinaia di migliaia di morti può solo rimanere traumatizzato da una simile prova. Altro che il terrorismo dell’Isis che sbarca a Roma ed altri fantasmi di pseudo-giornalisti nostrani. Quando si parla di terrorismo qui in Algeria, si parla di quando ogni giorno fra il 1992 e il 2002 la guerra civile ha mietuto morti.

La storia del ventesimo secolo è terribile. Non solo una colonizzazione peggiore che in altri paesi della zona, per cui l’Algeria non era una semplice colonia ma una vera e propria regione francese dal 1830, dove c’erano cittadini di serie A, Francesi o Europei, e cittadini di serie B o meglio di serie C, i locali, conosciuti come francesi musulmani.

Per più di un secolo la Francia ha sfruttato questo territorio e solo dopo una lunga guerra di otto anni gli Algerini si sono liberati dell’oppressione francese nel 1962 con un prezzo elevatissimo, tra le 300.000 e le 500.000 morti, perdendo gente qualificata che poteva ricostruire il suo paese (nel 1962, all’indipendenza del paese, c’erano in tutto e per tutto tre architetti in Algeria). Ciononostante il popolo algerino che si è liberato dal giogo coloniale per riprendere il diritto di gestirsi, non ne ha realmente l’occasione. Alla rivoluzione anti-coloniale è seguito un sistema politico monopartitico. Un colpo di stato poi, guidato dal colonnelo Houari Boumediene che lo ha visto prendere il potere nel 1965 e costruire uno stato autoritario socialista fino alla sua morte nel 1978 (dove l’Islam diventa parte integrante della costituzione).

Negli anni 1980 l’economia segue la classica via liberale, e nel 1985, un nuove codice familiare è adottato con meno diritti per le donne, in modo da accontentare i tenenti di fede islamica. Nel 1988 le sommosse della popolazione ad Algeri segnano una svolta, con l’esercito che apre il fuoco sulla popolazione facendo almeno 500 vittime. Ne segue una liberalizzazione del paese, prevista dalla nuova costituzione del 1989 col multipartitismo, la libertà di stampa e di associazione. I movimenti politici di obbedienza musulmana capiscono il malcontento nel paese e si raggruppano in un partito perfettamente organizzato: il Fronte Islamico della Sveglia (noto come F.I.S.).

Nel 1990 prendono 50% dei voti alle prime elezioni amministrative libere, con un discorso molto sociale. Nel dicembre 1991, le elezione politiche vedono il F.I.S. aggiudicarsi la maggioranza relativa al primo scrutinio, ma il secondo scrutino che si doveva tenere nel gennaio 1992 non si farà mai. L’esercito sospende la votazione con l’appoggio di gran parte della società civile (partiti, sindacati, associazione) spaventata dalla possibilità di avere una dittatura teocratica. Il presidente Mohamed Boudiaf è messo al potere per provare a riformare lo stato, ma è assassinato il 29 giugno 1992.

Segue alla fine dell’anno una vera e propria guerra all’islam politico: la sfida passa dal campo della politica a quello della guerra vera e propria, con azioni di terrorismo dei gruppi islamici che hanno brandito le armi contro l’esercito, e poi contro parte della popolazione. Il paese ne pagherà prezzo sulla propria pelle: tra 60.000 e 150.000 morti in dieci anni, manipolazioni dall’esercito e innumerevoli massacri delle due parte con la popolazione in mezzo a pagare il prezzo più alto.

Il conflitto è ignorato dell’Occidente “civilizzato” che non si muove in solidarietà, nessuno si fa avanti per pacificare la zona, ma tutti, piuttosto, preferiscono chiudere gli occhi. Solo con gli attentati dell’11 settembre 2001, l’Occidente ha guardato con interesse l’esperienza algerina per meglio combattere il terrorismo.

E siccome ora la gente di questo bel paese è stufa della violenza, pensa solo a sopravvivere. La rivoluzione non fa sognare nessuno qui, un terzo della popolazione sopravvive con meno di 250 € al mese. I generali sono sempre al potere, più ricchi che mai grazie alle esportazioni di petrolio e gas, e gran parte dei beni di prima necessità sono importati. Penso che lo slogan “No alla violenza” debba essere quindi letto alla luce di questa breve escursione sociostorica, ma voglio ancora aggiungere che nonostante gli Ultras in Algeria lo rivendichino negli stadi, anche qui ci sono scontri, ma più che altro tra bande di quartieri rivali. Gli ultras qui non cercano il sapore della violenza la domenica per poi essere bravi ragazzi il resto della settimana. Di violenza ne hanno mangiata troppa.

La partita scorre e guardo gli spalti per capire meglio l’organizzazione del tifo, che definirei all’algerina, cioè caotica, ma che funziona. C’è pure una bandiera con un teschio ed un bel 1312. Anche qui l’amore per la divisa non è all’ordine del giorno.

L’arbitro fischia la fine del primo tempo e con la mia amica, l’unica donna dello stadio, proviamo a cambiare settore. Decidiamo di chiedere il permesso, perché esclusi alcuni giocatori sul campo, siamo gli unici stranieri. Permesso non accordato, ma per liberarci dalla scorta decidiamo di uscire comunque della tribuna d’onore come ladri e facciamo il giro dello stadio. Noto che la lista degli oggetti proibiti è lunga e comprende bandiere e fumogeni. E qua non si scherza: c’è scritto che con l’utilizzo di questi oggetti si rischiano fino a due anni di galera. Arrivati a pochi passi della gradinata occupata dal gruppo degli Ultras Red Castle i poliziotti ci chiedono dove andiamo. E qua  caduti nella trappola. Provo a tirare fuori una vecchia scusa e un accredito, ma lui chiama i suoi superiori e ci dice che per la nostra sicurezza è meglio tornare in tribuna d’onore dove ci riaccompagna. Chiama il responsabile della sicurezza e un uomo in borghese ci viene incontro. Con calma spieghiamo la situazione e lui ci dice che è proibito proseguire, che è troppo pericoloso, cosa che a noi non sembra. Poi arrivano anche due agenti della Digos locale e ci fermano per un piccolo interrogatorio. Dopo dieci minuti torniamo finalmente nella tribuna stampa con il nostro “bodygard” algerino straincazzato Almeno ci abbiamo provato, ma il vero problema è la mia amica: hanno paura per lei, non sanno che frequenta da anni gli ultras del Cairo e che è in prima fila allo stadio nel gruppo.

Ci godiamo la partita dall’alto della tribuna stampa e noto che qui non c’è una vera organizzazione del tifo: forse perché gli ultras sono in contestazione. Comunque quando il pubblico canta, si fa sentire ed è impressionante. Siamo obbligati a lasciare lo stadio cinque minuti prima del fischio finale. In fin dei conti l’esperienza è interessante e ho almeno un’idea dell’atmosfera di uno stadio algerino. Domani, la seconda tappa mi porterà nella capitale, per vedere la società più popolare del paese : il Mouloudia d’Alger.

Testo Sébastien Louis

Foto Céline Lebrun e Sébastien Louis