C’è un frammento preciso della mia memoria che torna vertiginosamente indietro. Nel passato. E si specchia nella mia figura adolescenziale intenta a sfogliare il caro e vecchio Supertifo. E più precisamente quella pagina che ritrae gli Ultras Trento nel loro stadio, dietro il loro striscione. Una visione che in me ha sempre esercitato un fascino particolare. Seguire il Trento, quella squadra di una città così lontana – quasi ai confini con l’Europa – evocava in me un atto di eroismo. E quel lembo di stoffa con l’aquila al centro. “Un giorno li vedrò dal vivo”, mi dicevo ogni qual volta mi capitavano i trentini davanti agli occhi. E sebbene gli Ultras Trento non ci siano più – sebbene mi sia morso le mani per non aver presenziato al loro ultimo atto, quel corteo con cui nel 2015 hanno riposto per sempre lo striscione – quel giorno è arrivato. A distanza di tanti anni. Quasi a voler onorare una promessa fatta a me stesso.

Non ci ho pensato troppo quando, consultando il calendario del Girone A, ho scorto la sfida contro il Vicenza, in un anomalo giovedì alle 18, poi “ovviamente” posticipata alle 20. Di certo non mi preoccupavano 18 ore totali di pullman tra andata e ritorno, né il probabile freddo che avrei trovato in riva all’Adige. L’obiettivo conta più delle difficoltà e il poter raccontare la mia “prima volta” a queste latitudini mi regala quell’adrenalina di cui ho bisogno per macinare ancora chilometri all’interno dei confini nazionali.

Trento è una di quelle città che per qualche ora ti pacifica l’anima. Grazie al suo centro storico ordinato, armonioso ma non anonimo. Grazie alle montagne che la circondano, ricordandoti come di questa terra siano loro le padrone incontrastate. E come qua arte, cultura e natura si fondano dando vita a un qualcosa di veramente importante. Forse al senso più autentico della parola “bellezza”.

Arrivo troppo tardi per godermi Torre Aquila e il magnifico affresco del Ciclo dei Mesi, ma non abbastanza per visitare il Castello del Buonconsiglio. Probabilmente il simbolo della città, dalla cui sommità si può avere una vista imponente del capoluogo. E poi giù per le vie, passando per il duomo, fino a Piazza Fiera, dove si stagliano decine di mercatini natalizi e l’odore di Vin Brulé si fonde agli aromi della cucina autoctona, inebriando le narici e regalandomi una volta tanto un bella sensazione natalizia, proprio a me che di questa festività non sono propriamente amante. Benché Trento sia una città borghese ed in cui sicuramente il tenore di vita dev’essere alto, non sembra aver venduto la sua anima a turisti spendaccioni ma senza senno o a iniziative finalizzate solo a monetizzare. Lo dimostra il fatto che tra le bancarelle ci sono soprattutto locali, impegnati a ingollare canederli, salsicce e altre leccornie, ovviamente bagnate da vino e birra.

Il Trentino è una di quelle regioni “estreme”, che ovviamente attira da sempre la mia curiosità e nelle quali dovei senza dubbio passare più tempo, se non altro per la vastità naturalistica di cui dispone. Inoltre la sensazione che ho è quella della mia prima visita in città, ormai oltre due lustri fa: persone cordiali, senza ansia o frenesia. È qua, per esempio, che cozza uno dei tanti stereotipi di cui il nostro Belpaese si nutre. Che poi se a livello di sfottò la contrapposizione Nord/Sud è senza dubbio divertente, e trova nello stadio la sua naturale valvola di sfogo, nella vita di tutti i giorni ormai mi è personalmente divenuta poco simpatica quando interpretata seriamente. Lo stereotipo si basa sempre su un fondo di verità, su un tratto somatico, questo è inevitabile. Ma poi resto dell’idea che per giudicare bisogna approfondire, vedere con i propri occhi e sentire con le proprie orecchie. E se permettete io il sorriso e la gentilezza di questa gente me la prendo in toto, senza fare obiezioni.

Quando mancano una quarantina di minuti al fischio d’inizio, mi avvio verso lo stadio. Il Briamasco (in origine chiamato Stadium) deve il suo nome alla località in cui è stato edificato, esattamente cento anni fa, in luogo del vecchio campo non permanente di Piazza Venezia. Un impianto che inizialmente poté vantare una delle piste d’atletica più grandi d’Italia nonché un’imponente tribuna in legno stile liberty. Quest’ultima è stata demolita a inizio anni cinquanta per far spazio a più resistenti strutture in cemento armato. Malgrado i vari lavori di ristrutturazione avvicendatisi negli anni (ultimi in ordine cronologico quelli relativi al ritorno in C, con l’apposizione di due nuove curve in acciaio, tra cui quella dedicata al tifo organizzato locale, storicamente posizionato invece in tribuna) lo stadio resta difficilmente ampliabile, essendo ormai stato inglobato nel tessuto cittadino.

Malgrado varie proposte di demolizione e ricostruzione in località più decentrate, il caro e vecchio Briamasco svolge ancora il suo ruolo in maniera più che egregia. E la sfida di staserà ne sarà una degna testimonianza. Per buona pace di tutti i “modernisti”, affetti da parafilie su stadi commerciali e tribune avveniristiche, entrare nella pancia di questo impianto è un bel modo di tornare indietro nel tempo. Certo, andando a fare una constatazione, risulta alquanto strano vedere un intero settore coperto dedicato agli ospiti, mentre agli ultras di casa è stato assegnato uno spazio tremendamente esposto alle intemperie.

L’approdo in Serie C dopo diciassette anni ha ovviamente riacceso la fiammella dell’interesse sportivo in città. La nuova società – nata nel 2014, dalle ceneri del quarto fallimento – ha avuto il merito di ridare una continuità sportiva ai gialloblu e ad oggi, con tutta probabilità, si trova in un punto di svolta per mantenere vivo il progetto, con l’obbligo che appare tuttavia alquanto scontato di alzare la mira. L’annata dei gialloblu non è finora delle più esaltanti e l’ambiente sembra mostrare i primi mugugni. Da appassionato della parte storica e sociologica del calcio, credo sia assolutamente importante far sì che piazze come Trento mantengano il professionismo, continuando a dare una parvenza di serietà anche all’ultimo scalino del professionismo (già di suo minato da fallimenti e scelte scellerate da parte di chi lo gestisce).

C’è poi, come accennato, tutto il discorso relativo al pubblico. Alla fedeltà e alla crescita dello stesso. La cornice di questa sera ha detto tanto. Ha confermato come la squadra sia riconosciuta dalla città, cosa assolutamente fondamentale in questi grigi periodi di allontanamento dal football. In questo contesto ovviamente rientrano appieno anche gli ultras, tornati sugli scudi dopo diversi anni e apparentemente volenterosi di ritirar su il movimento cittadino. L’eredità lasciata dagli Ultras Trento è importante, ma devo ammettere che quanto visto stasera mi fa credere che le basi ci possano essere alla grande.

Ovviamente il Vicenza ha invogliato il pubblico a gremire gli spalti del Briamasco. I paganti sono stati oltre duemila, di cui seicento provenienti dal capoluogo berico. Per l’occasione i padroni di casa hanno organizzato una coreografia: telone centrale raffigurante l’Aquila di San Venceslao (simbolo cittadino, concesso dal Re di Boemia alla città il 9 agosto 1339), bandierine gialloblu ai lati e diverse torce accese all’ingresso in campo delle squadre. La verità? A me è piaciuta. Sarà per la sua semplicità, sarà perché sono un amante della pirotecnica ed è sempre più difficile vederne nei nostri stadi, ma ritengo tanto basica l’idea quanto buona la realizzazione.

Dopo anni in cui il movimento ultras a Trento si era cristallizzato, non è stato ovviamente facile oleare immediatamente gli ingranaggi e ripartire in pompa magna. Eppure i ragazzi che oggi guidano la curva sembra che stiano facendo un buon lavoro. Se devo muovere una critica: è probabilmente da rivedere la qualità del materiale esposto in balaustra e sarebbe bello veder sventolare qualche bandiera in più durante la partita. Ma sul tifo davvero poco da eccepire: costante e intenso per tutti i novanta minuti, con la capacità di coinvolgere spesso tutti i presenti. Discreta sciarpata nel finale e bell’approccio da parte del lanciacori, che in più di un occasione sento “strigliare” i suoi per fargli alzare i decibel.

Al netto di questo mio giudizio, poi, c’è ovviamente da tenere sempre conto dell’estrazione geografica della curva che si ha di fronte. Siamo a un tiro di schioppo da Verona, e lo stile scaligero sembra esser quello prediletto anche dai locali. Ma soprattutto siamo in una zona d’Italia dove il dialetto resiste in maniera orgogliosa e identitaria. E a tal proposito non posso non citare un coro degli ultras trentini che recita testualmente: “Zo n te l’Adesot gh è pantegani grossi come i cani su per el Bondon gh è vache zize con i campanaria noi sosteniam na squadra de ruganti e de teroni che noi vinze mai e i pensa solo a fumar canoni” (“giù nell’Adigetto ci sono pantegane grosse come i cani, su per il Bondone ci sono mucche grasse con i campanacci e noi sosteniamo una squadra di maiali e di terroni che non vincono mai e pensano solo a fumare cannoni”).

È il canto più celebre della tifoseria gialloblu e credo raffiguri appieno l’anima guascona e scanzonata di un popolo. Ed è un tratto distintivo che mi fa sempre sentire orgoglioso di girare questa bislacca terra che è l’Italia, contraddistinta da una miriade di difetti ma spesso e volentieri talmente particolare e curiosa da poter esser perdonata.

L’Adigetto – per la precisione e per gli amanti dell’idrografia – è un piccolo canale costruito dopo l’alluvione del 1966, proprio affianco allo stadio. Questo per sottolineare che spesso e volentieri, attraverso sgangherate canzoni, le ugole dei curvaioli riescono a produrre incredibilmente sapere e cultura (sic!).

E il settore ospiti? Voglio essere il più obiettivo possibile. La prestazione dei vicentini di questa sera non l’annovero propriamente come una delle migliori viste quest’anno. Vicenza ha una passione calcistica e un attaccamento alla squadra davvero invidiabile. Lo dimostrano i numeri portati in casa e in trasferta, malgrado annate non esaltanti. Del resto basta passeggiare per le strade della città veneta per rendersene conto, scorgendo qua e là sciarpe e gagliardetti del Lanerossi.

Però, c’è un però. Ritengo che in un settore compatto e coperto come quello del Briamasco, soprattutto nel primo tempo i veneti avrebbero potuto fare davvero molto di più. In particolar modo nel coinvolgimento di tutti i presenti e nell’intensità del tifo. I primi 45′ hanno evidenziato un po’ di discontinuità, mentre nella ripresa – a onor del vero – dopo il vantaggio, i vicentini sono saliti in cattedra colorando la propria prestazione con un paio di belle sciarpate e diverse torce.

In campo finisce 0-1 grazie al gol siglato da Oviszach. Un successo che proietta i biancorossi a ridosso della prima postazione, suggellando l’ottimo periodo di forma di una squadra che ha lentamente scalato la classifica. Applausi per un Trento tenace e coriaceo, che forse non meritava la sconfitta, ma che si ritrova ora impelagato nella zona retrocessione.

Adesso il freddo si fa sentire pungente. Così, dopo aver effettuato gli ultimi scatti, mi avvio verso la fermata del pullman. Pregustandone già il tepore che accompagnerà il mio sonno fino a Roma. Me ne vado soddisfatto, conscio di aver conosciuto una piazza nuova, particolare e con un potenziale importante, che riuscirà a sfiorire completamente con un buon lavoro.

Gli Ultras gialloblu sono tornati e una scritta che campeggia proprio su un argine del “loro” Adigetto (“Avanti ragazzi del Trento!”) sembra ricordarlo a tutti. Forse di buon auspicio, forse figlia del fomento. In ogni caso il cuore del Briamasco è tornato a pulsare di passione, riaprendo il libro della storia e spiegando coraggiosamente le ali dell’Aquila di San Venceslao.

Simone Meloni