È una lettera molto lunga, ma la nostra raccomandazione è: leggetela!

La tempistica, lo scorrere inesorabile del tempo, rappresenta un qualcosa di fondamentale, che non si può arrestare.
E’ un qualcosa che regola le nostre giornate e nottate, quel qualcosa che permette di incontrarci per la prima volta o di non conoscerci mai.
E’ quel qualcosa che ad un certo punto costringe a salutarci con un arrivederci o con un addio.
E’ però un qualcosa di ancora più vitale quando ci si sente soli e si aspetta l’arrivo di una persona, di una parola, di un aiuto. E quando questo, questo aiuto, non arriva, intanto il tempo beffardamente continua a scorrere senza possibilità alcuna che Qualcuno lo restituisca.

Grazie per aver lasciato sole 149 persone per quelle che a Voi sono sembrate sole 48 ore.

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali [..].”

Con queste semplici parole comincia l’articolo 3 di una Costituzione ormai datata, ma nei suoi contenuti così moderna e democratica. Con queste sì semplici parole, ma dense di significato e cariche di implicazioni giuridiche, comincia quella Costituzione Italiana oramai entrata in vigore dal 1948. Con queste semplici parole comincia una Costituzione che spesso non viene rispettata, proprio da chi se ne fa garante.

Giovedì 28 novembre 2013, Varsavia: 149 persone vengono fermate dalla polizia polacca prima del match Legia Varsavia – Lazio. I capi d’accusa vanno dal fermo a scopo preventivo a reati di più o meno piccola entità.

Mercoledì 04 dicembre 2013, Roma: l’attuale ministro degli Esteri Emma Bonino decide di voler capire, a quasi una settimana di distanza, cosa abbia portato e cosa sia accaduto al momento del fermo di massa.

Giovedì 05 dicembre 2013, Varsavia: il presidente del Consiglio Enrico Letta, a Varsavia per altri e ben più degni di nota affari diplomatici, informato e “sensibilizzato” circa la situazione dei tifosi laziali che ormai perdura da una settimana, chiede con toni pacati chiarezza e velocità nello svolgimento delle procedure per i 22 ancora in arresto presso il carcere polacco di Bialoleka.

Lo scorrere inesorabile del tempo. Appare palese, lampante, grazie al contributo della datazione, come tra il fatto accaduto e la reazione a livello diplomatico del nostro Paese, non siano passati minuti, ore, ma giorni. Giovedì notte, Venerdì, Sabato, Domenica e così andando avanti. Giorni nel corso dei quali ragazzi e ragazze rimanevano in attesa, privati della loro libertà, senza capirne bene il motivo. Giorni nel corso dei quali famiglie e amici componevano a ripetizione numeri telefonici di ambasciate, della Farnesina, dell’Unità di crisi, senza ricevere alcuna informazione. Giorni in cui si prendevano aerei verso Varsavia nella speranza di sapere dove si trovavano i propri figli. Giorni di frenesia per alcuni, di sospensione temporale per altri, di disinteresse per molti.
E intanto un Paese e il suo governo tacevano.

Questa lettera, seppur destinata a non essere letta e sicuramente a non ricevere risposta perché scritta da una persona che nella Vostra società non conta, è indirizzata a quei personaggi a capo di un Paese silente e a tutte le realtà politiche parlamentari e non che tutto ciò hanno trascurato. A quelle figure alle quali si chiedeva di intervenire repentinamente, non attraverso un attacco militare alla Polonia, ma attraverso messaggi, sostegno, attraverso il pretendere notizie certe su quanto stava accadendo a migliaia di chilometri. E’ una lettera di critica su molti fronti, che tralascia il comportamento più che discutibile del governo e della polizia polacchi, per concentrarsi sul menefreghismo totale che la classe politica italiana ha mostrato e sta mostrando verso quelli che sono cittadini italiani e verso le loro famiglie. E’ un messaggio ad un’Italia vile, non garante di quella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, della quale è stata firmataria. Un’Italia non in grado o meglio non interessata ad imporsi al cospetto di violazioni perpetrate da un altro Paese, nei confronti di “certi” cittadini.

E’ importante a questo punto capire il significato dell’aggettivo “certi” riferito alla parola cittadini; come cita la Costituzione i cittadini sono “tutti” uguali al cospetto della legge, tutti meritano lo stesso trattamento e la stessa attenzione, non alcuni sì, altri no ed altri ancora in parte. Eppure sempre più spesso ci si accorge di quanto i fatti non corrispondano alle parole.
Sfortunatamente, infatti, tra i 149 fermati, ed è importante ogni volta sottolineare la mole di questo numero, non risultavano esserci cognomi illustri, esponenti delle forze armate, personaggi di spicco a livello economico, insomma non c’era quella gente “che conta”, degna di nota e notizia in prima pagina, per la quale un Paese basso e discriminatorio come il nostro poteva muoversi con tanto di giornali e telegiornali al seguito. Non solo non c’era alcuna figura meritevole, ma per di più i fermati erano e sono considerati ultras, persone (se addirittura di tale epiteto si possono fregiare) scomode delle quali, detto tra noi, meglio liberarsi, persone per le quali nessuno troppo avrebbe strillato, nessuno si sarebbe lamentato, persone di sicuro prive di agganci e raccomandazioni che avrebbero fatto sentire il proprio peso. E infatti è stato così. I ragazzi, ultras e non, rimanevano in stato di fermo sperando nell’interesse del proprio Paese contro una tale ingiustizia. Le famiglie continuavano a chiamare per sapere quanto meno dove i figli fossero stati portati. Gli amici a Varsavia, sfuggiti casualmente ad una retata che non guardava in faccia nessuno, ma solo il colore della sciarpa e l’accento “laziale”, continuavano a vagare tra i commissariati implorando informazioni . Il tutto nella solitudine più totale.
Perché qui funziona così. Perché qui se non sei “figlio di” puoi morire in carcere, puoi essere vittima di ingiustizie, puoi rimanere per giorni senza che neanche i tuoi cari sappiano dove sei. Da parte di chi personalmente ha vissuto questa vicenda, posso dire che solo il primo dicembre qualcosa si è mosso, qualcuno si è degnato di scendere tra quella parte di popolo che paga le tasse ma non conta.
Ma intanto di tempo ne era passato. E in questi giorni di assenza, chi si trovava ingiustamente smistato tra le carceri di Varsavia perdeva quelle ore e quei giorni che nessuno potrà mai restituirgli.
Contemporaneamente ad un governo silente, cominciava però a serpeggiare la litania dei benpensanti. Cominciavano a farsi strada quei giudizi tanto falsamente moralistici quanto infondati. “Gli sta bene a quei facinorosi”, “E cosa ci sono andati a fare a Varsavia?”, “Sempre la solita gentaglia”.
A Varsavia c’erano gli ultras, c’erano i tifosi, c’erano adulti e meno, ma prima di tutto c’erano persone, la maggior parte delle quali (come dimostreranno poi gli atti processuali) innocenti, che seguivano la propria squadra. E fino a prova contraria questo non rappresenta reato in nessun paese. Ma anche nel caso in cui, tra i molteplici non colpevoli, fossero stati presenti uomini macchiatisi di illecito, davvero questi avrebbero meritato e meritano tutt’ora l’abbandono da parte del proprio Paese?
L’Italia ha discriminato 149 persone, e le loro famiglie, perché scomode, perché non meritevoli in base a degli standard economici e sociali ridicoli. L’Italia si è abbassata i pantaloni al cospetto di una nazione che perpetrava ingiustizie consapevole di poterselo permettere, perché, come poi è stato, alcuna sarebbe stata la ripercussione.
Complice di questo atteggiamento meschino è stata indubbiamente l’opinione pubblica con il suo finto moralismo, quel perbenismo che porta i più ad andare ogni domenica a messa e il resto della settimana a darsi alla cupidigia, quello che porta ed esprimere giudizi su tutto e tutti senza sapere nulla di niente e nessuno. Quell’atteggiamento che purtroppo attualmente caratterizza l’italiano medio, al quale finché non entrano dentro casa, tutto va più o meno bene. Ma maggiormente complice è stata quella sinistra governativa (semmai, e credo di no, esista ancora) e antagonista (e parlo da persona che a quest’ultima sta dentro), la quale per paura del semplicistico binomio laziale/fascista ha deciso di disinteressarsi della sorte di 149 persone, di non sposare, in questo caso, la causa dei discriminati, di lavarsene le mani, lasciando anch’essa che le prime giornate scorressero e che la destra sociale se ne preoccupasse per prima.
Ma il governo, le sinistre, oltre ad aver portato avanti un modus operandi ingiusto, discriminatorio quindi fuori dalla legalità, sono riuscite a fare un qualcosa di ancora più grave, che perdurerà nel tempo. Non hanno fornito a molte delle famiglie dei fermati e degli arrestati gli strumenti per articolare la loro protesta, per incanalare la loro rabbia, per sfogare una frustrazione pesante frutto dell’avere ingiustamente il proprio figlio in galera. Hanno lasciato ulteriormente sole queste persone, facendo sì che l’ira si trasformasse in un pericoloso rigurgito razzista verso la Polonia.

A voi che invece siete stati ingiustamente trattati. A te, Michele, che fino al 28 novembre credevi che il tuo Paese ti sarebbe stato vicino e che invece nei tre giorni di detenzione immotivata ti sei sentito solo. A mia sorella, che a Varsavia ha dovuto vagare tra ambasciata, commissariati e tribunali solo per sapere dove era il cugino e gli amici, senza ricevere risposta alcuna per giorni. A Matteo e al padre che è corso in Polonia a riprendersi un figlio del quale non aveva saputo nulla. Ai mie genitori, ai mie zii, a mia cugina che in quelle ore si sono scontrati contro una realtà fatta di diseguaglianza, ipocrisia, menzogna, ma che ciò nonostante hanno mantenuto la calma.
A tutti coloro che sono ancora a Varsavia.
Non abbassiamo la testa, non facciamoci piegare da una logica triste che ci vorrebbe tutti a casa. Amiamo, seguiamo le nostre passioni e andiamo dove vogliamo, che questo sia uno stadio, un concerto, un corteo. Non facciamoci spaventare dalla repressione, per quanto questa possa presentarsi con maschere terribili.
Siamo migliori rispetto a coloro che non capiscono il perché del seguire ciò che ci piace, siamo migliori perché, nonostante i brutti momenti, sappiamo essere felici per un gol. Siamo migliori perché nonostante una vita spesso non fatta di agi, di auto blu, di voli in prima classe e cene importanti, Viviamo.
Non permettiamo a chi non ha né cuore, né passioni, di togliere a noi l’amore.

Deborah Natale