Un rito che gli appassionati di calcio britannico conosceranno benissimo, quello del “Matchday programm”. Un rito che hanno anche provato a importare anche in Italia, ma che per lo più è fallito miseramente di fronte all’incompetenza delle società nostrane in fatto di comunicazione e di una certa distanza con il tifoso, che spesso è anche distanza culturale.
MF

BovrilIl gesto è gentile, delicato, e al tempo stesso inequivocabile. Dice, senza dire. «Sei dei nostri», ecco cosa dice. Un che di cameratesco, una porta spalancata ben più ampia del pertugio che rappresenta ancora, nella maggior parte dei casi, l’ingresso nella zona riservata, negli stadi inglesi. Il gesto è quello di consegnare il programma ufficiale, gratis, al giornalista. Lo compie in genere un addetto stampa di mezza età se non in pensione, uno di quelli che non si occupano della gestione della comunicazione a largo raggio, ma svolgono ancora il compito come se fosse trent’anni fa. La consegna del programma è una cerimonia banale piena di solennità, ed ogni volta ci colpisce come se fosse la prima. C’è un piacere quasi orgasmico, per i vari addetti, nel pescare con la mano nella scatola ed estrarne il fascicolo, una volta verificata la legittimità delle credenziali di chi sta di fronte, che diventa dunque uno di casa, uno di famiglia, non importa quanto sia vigliacco, e Dio solo sa quanti ce ne siano nella categoria. Sei dei nostri, vai. Poi verranno la consegna del foglio delle formazioni, team sheets in lingua madre, che non ha la medesima solennità perché è l’oggetto in sé, in fondo solo un pezzo di carta, a valere meno, anche se non tutti la pensano così: all’uscita dal cancello principale del White Hart Lane c’è un tizio, che non deve avere per il resto una vita particolarmente vivace, cappellino da baseball su capelli lunghetti, barba alla mefisto e giacca e cravatta, che i fogli delle formazioni li colleziona, e dunque chiede a chiunque dia l’impressione di averne con sé uno, specialmente se l’ha visto uscire dalla sala stampa, se può cederglielo. Sapendolo, il segreto per accontentare questo brav’uomo (almeno speriamo che sia così) è semplicemente farsi dare preventivamente un foglio in più, il che è molto facile, mentre tanto per ribadire il concetto precedente non è invece mai il caso di chiedere un programma in più, e chi deve rifornire amici o parenti è meglio che se lo compri, possibilmente appena arriva allo stadio, per evitare di restare senza.Il gesto semplice e insieme grandioso di consegnare il programma all’avente diritto è solo uno dei particolari che uno incontra negli stadi britannici e che si sono mantenuti intatti nel corso degli anni. Questa non vuole esserne una rassegna completa, per il semplice fatto che per farla bisognerebbe avere realizzato il sogno (emotivo) e l’incubo (economico) del giro di tutti gli stadi del Regno Unito, ma, se gradita, una semplice narrazione di alcuni momenti e circostanze legate a piccolissimi dietro le quinte, aggiungendo che molti di questi sono purtroppo, ma per ovvi motivi, legati all’ambiente a disposizione della stampa, entità non troppo gradita al lettore in generale (e ci sarà un motivo). Le visite guidate agli stadi, che l’autore di questo articolo ha fatto una volta sola (Wembley, 1980), mostrano infatti tutto quel che c’è da vedere e sono ormai diventate qualcosa di molto evoluto ed interessante rispetto ad una volta, ma hanno l’unico difetto, ovvio, di svolgersi in giorni in cui gli impianti sono vuoti e dunque manca quell’aria frizzantina delle partite, in cui una scalinata altrimenti insignificante diventa luogo vissuto e vociante. A proposito di scalinata (e di pensionati in servizio fedele e orgoglioso): al Crystal Palace l’intervallo, almeno fino allo scorso anno, voleva dire scendere nel pertugio buio alla destra della tribuna principale (quella delle panchine, di fronte alle telecamere, purtroppo assenti da anni, se si parla di Premier League, da uno degli stadi più belli che ci siano), in pratica una scalinata in legno incastrata tra il box sopraelevato della tribuna stampa e la parete destra, e una volta inghiottiti dal vano di uscita infilarsi in uno spazio aperto, sotto le tribune, in cui su un tavolino di legno con tovaglietta da trattoria un gentilissimo pensionato serviva the e biscottini, oltre all’immancabile – in ogni senso – vassoio di tramezzini, esibendo la sua spilletta CPFC con un orgoglio talmente sereno e dignitoso che veniva da abbracciarlo, anche se magari in quel momento stava mugugnando contro l’arbitro. Il the, dicevamo (o tea, o té a seconda di come uno ami scriverlo): bevanda di scelta per decenni anche sulle gradinate, assieme al brodoso Bovril (nella foto una vecchia pubblicita’), ora perlomeno nelle sale stampa (l’avevamo pur detto che dovevamo insistere su certi aspetti…) subisce la concorrenza del caffé, peraltro consistente in caraffone di 40cm contenenti, come ovvio, in realtà quello che viene comunemente definito caffé americano. Al Chelsea, dove gli spazi angusti della sala stampa/interviste contrastano con il tentativo del club di mostrarsi generoso con gli ospiti, è tradizione che John Terry, quando non gioca, arrivi una mezz’oretta prima della partita, si metta in fila (600.000 sterline al mese fortunatamente non paiono avergli fatto dimenticare le buone maniere, almeno lì, e non è che sia sotto osservazione perché non se lo fila nessuno) e si prenda i biscottini con the o caffè. Altra tradizione inglese, che al Chelsea e anche altrove è rimasta, è quella di comunicare il numero di spettatori presenti non facendo girare un foglietto con le diciture “paganti… abbonati… quota abbonati”, come in Italia, ma semplicemente scrivendo la cifra a mano su un foglio, in orizzontale, mostrandola poi a tutti, per cui chi di voi dovesse vedere un signore che appoggiando un foglio su una cartelletta lo sventola schiena al campo sappia che sta solo facendo vedere alle file di cronisti le cinque cifre dei presenti.La logistica è a volte precaria: ora il Southampton gioca al St.Mary’s, ma finché era al The Dell c’è da meravigliarsi che qualcuno si preoccupasse di descrivere le partite. Così come tutto il resto di quello splendido stadio asimmetrico, infatti, anche la parte alta della tribuna principale era, come dire, un pochino decrepita, ed il colmo si toccava nel gabbiotto stampa (ricorderete dalle immagini Tv che si era quasi a strapiombo sul campo): un unico mensolone stretto su cui appoggiare gli strumenti di lavoro, e non sedie ma trespoli tipo bar, altrimenti si sarebbe rimasti con la testa al di sotto del bordo inferiore della finestra; il tutto così stretto che si doveva entrare uno alla volta, partendo da quello più in fondo, perché altrimenti sarebbe stato molto difficile, certamente con certi fisici non snellissimi che si vedono in certi ambiti, far passare. La ristrettezza degli spazi, lo avrà notato chi ha effettuato i tour guidati, è una delle caratteristiche che maggiormente distinguono gli stadi di una volta da quelli modernissimi: persino Old Trafford, per quanto cresciuto a 77.000 spettatori, non lascia molto respirare, in netto contrasto ad esempio con l’Emirates Stadium, per non parlare del nuovo Wembley, dove i corridoi dietro alle tribune, perlomeno nella parte bassa, saranno larghi 25-30 metri. Chi è poi andato dietro le quinte avrà a volte capito, cercando però di non spargere troppo la voce, come mai alcune squadre siano intenzionate a cambiare stadio, o perlomeno ci abbiano pensato, per quanto ciò possa spezzare il cuore a noi amanti dell’usato garantito: salire dalla tribuna alta del White Hart Lane (ma anche al Bramall Lane di Sheffield) all’ultimo piano, non accessibile agli spettatori, vuol dire inerpicarsi su una scala a chiocciola a serio rischio di caduta. In generale, ma qui non diciamo nulla che chi ha partecipato a visite guidate non conosca già, negli stadi rimasti molto simili a com’erano all’origine la distinzione tra zone riservate al pubblico generico, alla stampa e ai vip è netta: nel primo caso struttura rudimentale a volte (specialmente in impianti non di Premier League, ovvero in quei bellissimi stadi di League One o Two che fanno allargare il cuore), nel secondo una situazione molto simile, ma con semplice riduzione del numero di persone che ne usufruisce, nel terzo un netto salto di qualità, nelle porte a vetri, tappeti, parquet, luci soffuse e curate. Chi vive solamente in quest’ultimo mondo non sente particolare necessità di innovazione, perché ha il suo salotto pre- e post-partita, il parcheggio anche nei luoghi meno respirabili e lo sguardo alle fotografie storiche appese alle pareti, gli appartenenti agli altri due universi magari un po’ meno. Ma non dovrebbe essere il contrario?

Roberto Gotta

[Fonte: UK, Football please]