“Ultrà. Il volto nascosto delle tifoserie di calcio in Italia” di Tobias Jones, pubblicato in Italia da Newton Compton è un libro su cui avevo qualche timore già prima di leggerlo e su cui resto fortemente perplesso anche dopo averlo fatto. Ma andiamo per gradi: onestamente non ho una grandissima opinione della casa editrice che ha tradotto in italiano questo libro, inizialmente pensato ed uscito sul mercato anglosassone con il titolo “Ultra. The underworld of italian football”. Rispetto alla versione originale, il sottotitolo italiano sembra maliziosamente porre l’accento sul torbido che pure questo mondo reca con sé, ma che chiaramente è solo una parte e non il tutto La specificità dell’interlocutore a cui si rivolgeva inizialmente inoltre, temevo potesse essere un limite: immaginavo un approccio alla “inviato all’estero” che cerca di spiegare ai suoi connazionali un fenomeno variegato e complesso ma restandovi giocoforza in superficie, rischiando così analisi trancianti. Cosa che poi per certi versi s’è puntualmente realizzata.

Alla differenza culturale s’è sommata la differenza linguistica che è diventata un problema in ragione di un lavoro di traduzione evidentemente lacunoso. Soprattutto laddove i tempi verbali passati sono stati resi al presente, portando a credere che gruppi ormai sciolti da decenni fossero ancora in attività, o situazioni appartenenti al passato remoto fossero problemi attuali, cosa che complica la comprensione del quadro d’insieme favorendo la consolidazione dei luoghi comuni.

Pur avendo letto tantissimo sull’argomento, svariati passaggi mi sono suonati del tutto inediti e la mancanza di fonti non è di conforto: a fine libro c’è una bibliografia delle fonti a cui l’autore ha attinto, ma non ci sono note a piè pagina che aiutino a capire se determinate conclusioni o episodi siano stati elaborati da Jones e sulla base di cosa.

In altri casi non c’è errore di traduzione che come scusante tenga: alcune sviste sono marchiane, altre volte l’autore eccede nel romanzato, nella classica (e pessima) tradizione del giornalismo odierno, fiaccando ulteriormente l’autorevolezza di quel che dice: Paparelli non era con i figli allo stadio, per esempio; così come gli stati d’animo dell’ex ultras juventino Ciccio Bucci, prima del suicidio, sono mere speculazioni; così come falso risulta che l’ultras genoano Roberto Scotto sia analfabeta e che abbia imparato a leggere da autodidatta in carcere. Per non parlare di alcuni frangenti in cui si scade nel grottesco, come quando racconta di una tifoseria che, dopo gli scontri, lasciava nelle tasche dei propri avversari del baccalà come rivisitazione pecoreccia dei bigliettini da visita alla “Inter City Firm” del West Ham.

Il problema più grosso è dunque nell’omogeneità dell’opera: non si capisce se è un romanzo, un saggio antropologico, un reportage giornalistico. Non che non sia possibile una commistione di stili, chiaro, ma in questo libro le sovrapposizioni risultano quanto meno dissonanti. C’è poi la non meno stridente posizione dell’autore che pecca in terzietà o pur volendo ammettere a verbale la liceità di una prospettiva soggettiva, non brilla nemmeno in coerenza: talvolta è parte di un enfatico “noi” narrativo, altre volte parla da osservatore equidistante, altre ancora si lascia andare a commenti lapidari e non sempre giustificati nei confronti degli ultras.

In soldoni è il solito libro sugli ultras, con la solita parte storica ripresa dai soliti libri, i soliti strali moralistici, i soliti errori, le solite generalizzazioni, le solite mitizzazioni di tutti gli aspetti negativi del mondo del tifo. Assolutamente perdibile se non fosse per l’unico grande elemento di novità e di interesse, ossia il materiale raccolto in una sorta di “osservazione partecipante” al seguito degli ultras del Cosenza, con i quali ha visto diverse partite in casa e viaggiato più volte in trasferta. I cosentini divengono la pietra di paragone per parlare e giudicare un po’ l’intero mondo ultras e in un arco temporale molto ampio: confrontare i cosentini di ieri e di oggi, confrontare tutti gli ultras del passato e del presente e mettere tutti in relazione fra di loro è un esercizio però davvero contorto. Non trovo nemmeno granché onesta la retorica su cui ci si è avvitati: i cosentini in quanto antifascisti e inclusivi nel loro modo di vivere lo stadio sarebbero il bene, il restante cliché dell’ultras razzista, violento o elitario rappresenta il male e in questa dicotomia binaria troppe sfumature vanno perdendosi, troppi concetti vanno banalizzandosi. Oltretutto anche i cosentini finiscono in alcune macchiettizzazioni ingiuste.

Prima parte del libro davvero irritante, seconda parte molto più scorrevole ed anche piacevole in certi frangenti. C’è una frase che ho condiviso molto di Jones, quando dice – più o meno testuale – che mille alberi che crescono lentamente fanno meno rumore di uno solo che si schianta fragorosamente. Questa metafora per rendere l’idea di quanto un singolo personaggio o un singolo gruppo invischiati in situazioni equivoche, influenzino l’attenzione mediatica e il giudizio dell’opinione pubblica molto più della maggioranza che silenziosamente si muove, più o meno, all’interno del proprio recinto di norme morali. Eppure l’opinione che se ne ricava da questo libro non è proprio aderente a tali propositi: le aberrazioni del mondo ultras ripetiamo, in certe piazze, sono evidenti ed innegabili ma ancora una volta l’approccio narrativo è risultato parziale, tendenzioso ed eccessivamente romanzato. Il punto di vista anche giudiziario è quello di un pubblico ministero, fatta eccezione per il caso Speziale dove la rilevanza delle evidenze è tali che non poteva essere ignorata se non da chi a monte, in quel periodo storico, aveva bisogno di un capro espiatorio. Non c’è spazio alcuno non dico per una difesa, ma almeno per circoscrivere eventi, circostanziare colpe, ascriverle con precisione dentro lo stadio o, in mancanza di elementi probatori, ammettere l’ipotesi che pur in presenza di una o più pecore nere, il resto del popolo della curva non necessariamente appoggia(va) il modus operandi dei suoi kapò. Questa moltitudine di alberi che crescono in silenzio sembrano piuttosto (in relazione alla portata quantitativa e qualitativa dei fatti riportati) una minoranza, sembrano l’eccezione che non invalida la regola ma la conferma. Trattasi in definitiva di una sorta di “Acab” di Bonini rivisitato in chiave più strettamente ultras, incentrato sulla retorica binaria ambigua, abusata, stucchevole e debole del bene usato per giustificare il proprio parlar male, in una contrapposizione ingiusta e forzata che nulla apporta.

Matteo Falcone