Complici questi giorni dove tutti noi siamo costretti a casa, ho sfruttato l’occasione per visionare il primo lungometraggio del regista Francesco Lettieri su una tematica per noi particolarmente interessante e dal titolo quantomai incisivo: Ultras. A onor del vero, se non ci fossimo trovati in tale situazione, preso dal tran tran quotidiano avrei certamente posto meno attenzione all’uscita di questo film che comunque, grazie alla tanta pubblicità sui social, alla diffusione su una piattaforma importante come Netflix e alla colonna sonora di Liberato (di cui Lettieri aveva già diretto diversi videoclip), è stato in grado di attirare, per forza di cose, le attenzioni di una ampia fetta di popolazione. L’argomento scelto dal regista o che comunque si riesce a carpire dal titolo non è certamente dei più semplici ed in effetti, ad accezione di qualche film storico come “Ultrà” di Ricky Tognazzi, sono scarse le rappresentazioni su pellicola di un mondo che, nonostante il passare incalzante degli anni, suscita ancora profondo interesse. Per questo motivo è da lodare l’audacia del Lettieri il quale, ritengo, era ed è ben conscio di quanto una tematica pungente potesse rivelarsi un’arma a doppio taglio al punto di suscitare polemiche o approvazioni in una società che fa del politicamente corretto la sua strada maestra. Ma in effetti, molto probabilmente, era proprio questo lo scopo di Lettieri per inaugurare il suo nuovo percorso e quale miglior modo se non far parlare di sé usufruendo di un contesto così complesso e variegato come il mondo ultras?

Venendo al film nel suo specifico, esso è ambientato a Napoli dove lo spettatore si trova subito catapultato in una realtà passionale e calda come quella della città partenopea, dove l’amore per la propria squadra assume tutti i crismi del rito sacro. I protagonisti sono due personaggi diversi ma accomunati dalla stessa fede calcistica e dallo stesso legame con il tifo estremo. Sandro detto il Mohicano, ormai cinquantenne, è il co-fondatore nonché capo dello storico gruppo ultras “Apache”, mentre Angelo è un ragazzino di appena sedici anni con una storia familiare tribolata e che ha visto morire il fratello “Sasà” durante gli scontri tra la fazione napoletana e quella romanista avvenuti anni addietro. In tutto ciò emergono, soprattutto per un attento osservatore, diversi riferimenti al reale mondo delle curve napoletane che Lettieri sembra conoscere approfonditamente così come la sottocultura, per lo più “modaiola”, che negli ultimi anni ha preso piede fra gli ultras. Innanzitutto già il nome “Apache” fa pensare per associazione al gruppo “Fedayn E.A.M.” e ciò sembra confermato anche dai caratteri dello striscione oltre che dal materiale, come le bandiere, che presentano particolari analogie con gli “Estranei alla massa”. Ma non è tutto anzi, durante lo scorrere dei minuti ci si accorge di altri riferimenti come lo striscione “Spirito selvaggio” che ricorda il gruppo “Spirito libero”, mentre il simbolo “Apache” può ricordare lontanamente quello delle “Teste Matte” o la bandiera sudista che si scorge sulla giacca di Sandro e che per anni è apparsa sui gradoni del “San Paolo”. La chicca di Lettieri però si presenta quando, oltre ai famosi cori che hanno reso celebre la tifoseria azzurra, decide di far intonare al gruppo l’inno dei “Vecchio Lions”: “andai in Mozambico, mi sbucciai un dito…”. Tutti questi elementi pertanto, concorrono nell’aumentare il realismo, così come fanno, infine, “Lyle Scott”, “Weekend Offender”, “C.P. Company” e tutti gli altri marchi che compongono il “dress code” di altri personaggi come “Pechegno” e “Gabbiano”, entrambi a capo degli “Apache” dopo le diffide inflitte ai più anziani.

Il film, a differenza di quanto mi ero immaginato, tende a concentrarsi anche e soprattutto sull’aspetto psicologico dei protagonisti come si evince dalle incertezze che caratterizzano il Mohicano. Dopo una vita passata tra scazzottate, partite e divertimento si rende conto, ora che ha superato i cinquanta anni, come tutto questo sia ormai il passato e sia ora di cercare una stabilità sentimentale alla quale, fino ad allora, non aveva mai badato. A questi suoi sentimenti tuttavia si contrappongono altri di matrice ben diversa e che sembrano immobilizzarlo tanto da impedirgli di voltare pagina: il gruppo, la fratellanza con i suoi membri, il Napoli sono cose che non possono scomparire dalla sua vita e che ritiene troppo importanti, forse ancor di più della sua stessa esistenza. Allo stesso modo Angelo, che non ha mai avuto un padre, che ha perso il fratello e che vive solo con la madre, ha come unico punto di riferimento gli “Apache” i cui esponenti più adulti, in particolare “Sandro”, diventano modelli da seguire e imitare per cercare di sfuggire alla desolante condizione che lo opprime. Il povero ragazzo, quindi, è una vera e propria vittima il cui carnefice principale è la sua famiglia che in realtà non è mai esistita e che ha cercato di ricreare attraverso l’amicizia con il “Mohicano”.

La trama del film, in ogni caso, appare molto lineare e si presta ad una visione piacevole anche se l’aspetto calcistico è totalmente estraneo o comunque messo da parte tant’è che tra le vicende principali spunta il dissidio interno fra i membri più giovani degli “Apache” e quelli ormai anziani. Quest’ultimi si rendono conto di trovarsi dinanzi ad una generazione diversa che vuole imporsi tralasciando l’etica passata del gruppo e che si fa portavoce di una concezione nuova e potenzialmente pericolosa. Tutto ciò, allora, sfocia addirittura in una rissa interna pochi giorni prima della decisiva partita di Roma e che condizionerà le scelte dei protagonisti.

La seconda macro-sequenza del film, ossia quella che porterà poi al finale, è personalmente la più deludente, sfociando in stereotipi e prestandosi a facili strumentalizzazioni. Seppur vero è che Lettieri, dall’inizio alla fine si cimenta nel dipingere una cruda realtà che caratterizza il gruppo, dall’altro però sembra estremizzare il tutto, tanto da far pensare, ad un certo punto, che si stia assistendo ad una puntata di “Gomorra”. Le scene che conducono all’epilogo, infatti, prevedono la decisione dei giovani membri di muoversi verso l’insidiosa trasferta di Roma al di fuori dei voleri dei “vecchi” del gruppo. Proprio la descrizione del viaggio verso la Capitale assume sembianze “terroristiche”, i personaggi si presentano armati di coltelli e nascosti in un furgone mentre sniffano a turno cocaina quasi per darsi maggior forza per lo scontro che li attende. Il finale vero e proprio, invece, si rivela sbrigativo e banale quasi come se fosse già scritto e Lettieri stesse percorrendo un copione con un epilogo che deve essere necessariamente quello.

La scelta del regista di concludere in tal modo la pellicola è quella che ovviamente più può suscitare critiche e di cui mi limito semplicemente ad evidenziare come non riporti nulla di nuovo rispetto, tanto per fare un esempio, all’analoga chiosa nel film “Ultrà”. Questa decisione di Lettieri è certamente presa per fini cinematografici, ma un buon spettatore dovrebbe essere in grado di comprendere quando inizia la finzione e quando vi è rappresentata la realtà, per di più in un film che non ha mai né la pretesa e men che mai la forza di ergersi a fini documentaristici del mondo ultras. Ciò che dispiace però è notare come un film dalle buone potenzialità sia scemato in tal modo tratteggiando esclusivamente una faccia di una medaglia ricca di sfaccettature molto complesse. È chiaro che gli ultras siano visti come qualcosa di misterioso, su cui indagare e di cui cercare di capirne le dinamiche, ma forse una rappresentazione alternativa e tra l’altro spesso veritiera, potrebbe e dovrebbe concentrarsi anche su altri aspetti. Mi auguro allora che se per motivi commerciali qualche altro regista si trovasse dinanzi all’eventualità di rappresentare questo contesto, abbia l’audacia di andare oltre ai comuni stereotipi e riesca a rendere evidente all’occhio dello spettatore medio anche quello di positivo che spesso, troppo spesso, si vuole celare.

Vincenzo Amore