Il calcio usato per “distrarre” dai problemi reali. Ma senza spazi per il dissenso, gli stadi diventano i luoghi della mobilitazione comune. E ora il campionato è in bilico.

Il Cairo, 20 novembre 2013, Nena News – Quasi due anni dopo la strage di Port Said in cui persero la vita 74 tifosi dell’Al-Ahly, il più importante club cairota, il 30 novembre il campionato di calcio dovrebbe tornare a riempire gli stadi egiziani, ma il condizionale, in questo caso, è d’obbligo. In questo lungo periodo, nonostante gli incontri siano stati pochissimi e sempre legati a competizioni internazionali, le tensioni non si sono mai sopite: contestazioni, scontri ed arresti hanno segnato il rapporto tra ultras, squadre e governo, allargando il solco creatosi durante la Primavera araba. Il periodo rivoluzionario aveva visto gli ultras protagonisti delle rivolte e, a seguito del colpo di Stato che il 3 luglio ha deposto il presidente Mohamed Morsi, il ruolo dei supporter dei principali club nazionali è tornato ad essere centrale nelle dinamiche politico-sociali del Paese.

Tanti sono stati gli studi e le analisi sul ruolo degli ultras nella rivoluzione. Alcuni hanno cercato di dare una connotazione politica alla presenza delle tifoserie organizzate nelle piazze inserendoli nell’uno o nell’altro schieramento, altri hanno classificato le azioni dei supporter come scoppi di violenza privi di motivazione: mutare ambito di scontro senza cambiare le pratiche.

La realtà, però, è ben più complessa. Molto spesso, e non solo in Egitto, lo sport in generale e il calcio in particolare, sono stati utilizzati per “distrarre” ampie fasce di popolazione dai propri problemi reali. All’interno degli stadi è stato lasciato libero sfogo alle pulsioni dei singoli e dei gruppi nella convinzione che potesse essere un terreno maggiormente controllabile. Laddove non esistevano spazi per il dissenso, gli stadi sono diventati, però, al pari delle moschee, luoghi dove attraverso la condivisione di valori e il riconoscimento reciproco, si sono create le condizioni necessarie per una mobilitazione comune. Nel caso egiziano questo è avvenuto fin dalla prima fase della rivoluzione. Gli ultras, soggetto pratico delle dinamiche di piazza e della contrapposizione della polizia, si sono posti a supporto di manifestazioni dove la componente organizzata era infinitamente minore rispetto a quella più ampia e variegata degli “oppositori al regime”.

Un coinvolgimento che è stato sicuramente di parte, ma quasi mai politico. A differenza di gruppi con una chiara connotazione ideologica come i Çarsi turchi, gli ultras egiziani hanno cercato di difendere il proprio spazio di azione, nelle piazze come prima avrebbero fatto negli stadi, e hanno identificato nel regime prima e nella giunta militare in seguito le controparti da combattere. Questo non ha, però, impedito ai singoli di fare scelte prettamente politiche che hanno indotto una compenetrazione tra piazza e tifoserie che ha fortemente inciso sui successivi eventi. I canti della rivoluzione sono segnati da questa ibridazione così come le coreografie negli stadi: espressioni diverse di una comune narrazione.

Se il periodo di governo dei Fratelli Musulmani guidati da Mohamed Morsi ha visto un parziale ridimensionamento dell’attività di questa componente nonostante perdurasse il blocco del campionato, dopo il colpo di Stato la tensione fuori e dentro dagli stadi è tornata a farsi sentire. In questo caso, però, la rabbia degli ultras è stata rivolta sia verso il governo sia verso i club. Le manifestazioni, spesso violente, per la liberazione dei compagni arrestati, la contestazione della nazionale vista come espressione di un regime e non della Nazione e l’assalto alle sedi dei propri club considerati proni alle volontà del regime e incapaci di difendere i propri tifosi dalla repressione sono solo alcune espressioni del fermento degli ultras del Paese.

Parallelamente è in atto una campagna mediatica di criminalizzazione delle tifoserie organizzate accusate di essere finanziate da realtà politiche (nella fattispecie si accusano i Fratelli Musulmani) per agire in senso anti-governativo. Questo ha spinto molti club a prendere posizione contro i propri tifosi schierandosi al fianco del governo al-Sisi e ad avviare politiche di contenimento del “potere” delle tifoserie organizzate. La riuscita non è, però, scontata e la finale della Champions League africana ne è la dimostrazione. Ahmed Abdul Zaher, attaccante dell’al-Ahly, dopo aver segnato il gol decisivo contro gli Orlando Pirates sudafricani, ha festeggiato mostrando le quattro dita in memoria della strage della moschea di Rabaa (in arabo, quattro) dove, secondo associazioni per i diritti umani, sono stati uccisi più di mille sostenitori dei Fratelli Musulmani. Il giocatore ha affermato che il suo gesto non era politico, ma commemorativo, ma il club ha già deciso di metterlo in vendita dopo aver duramente criticato la sua azione. Oltre ai dissidi con gli ultras, le squadre devono, dunque, confrontarsi anche con le azioni dei propri giocatori e, difficilmente, riusciranno a contenere le spinte anti-autoritarie laddove queste dovessero riuscire a prendere piede dentro e fuori dal campo.

Il campionato, dunque, è ancora in forse. L’apertura degli stadi alle competizioni casalinghe potrebbe, infatti, dare nuovo vigore alle proteste, ma la sospensione di un’altra stagione potrebbe portare all’esacerbarsi degli animi perché visto, da una parte, come l’ennesimo sopruso del regime contro gli ultras e, dall’altra, come problema finanziario per le società. La scelta del Governo avrà conseguenze che vanno ben al di là del mondo del calcio la cui dimensione non è al momento stimabile.

[Fonte: Nena News]