Qualcuno sostiene che all’Olimpico sia tornato il tifo. Qualcuno definisce l’ambiente degli ultimi incontri “caldo”. Non fossi mai entrato in uno stadio di calcio, mi verrebbe quanto meno il dubbio sulla veridicità di queste affermazioni dopo aver assistito a una partita della Roma; girando lo Stivale da ormai 13 anni, invece, la reazione è semplicemente perplessa. Prendiamo ad esempio il Benevento-Perugia a cui ho assistito il giorno precedente. Senza giri di parole: se l’Olimpico è tornato uno stadio caldo, il Santa Colomba cosa è? Una polveriera in stile Marakana di Belgrado? Ai posteri l’ardua sentenza. O meglio, all’onesto udito di tutti. Seppure descrivere con sincerità ciò che si sente e si vede rischia di essere opera violenta e indesiderata. Sicuramente per molti non “giornalistica”. Cercare di fare una critica approfondita, utilizzando magari termini e metafore che la nostra bellissima lingua ci offre numerosi, è un qualcosa di pericoloso e altamente idiosincratico nei confronti dell’ordine costituito.

Avete mai visto uno stadio che fischia la propria squadra in vantaggio per 3-0? A me non era mai capitato. C’è sempre una prima volta. In tal caso, ieri. Il motivo? Il gioco che si protraeva e la palla che proprio non voleva saperne di uscire permettendo a Francesco Totti di fare il proprio ingresso sul terreno di gioco. Che da queste parti Totti sia una vera e propria divinità non ci piove. Così come non si può affermare il contrario, essendo, con tutta probabilità, il più grande giocatore di sempre ad aver indossato la casacca giallorossa. E infatti ciò che si mette in dubbio non è certo la sua venerazione. Anzi, lui in questo discorso c’entra ben poco. Ripeto la domanda: avete mai visto un pubblico che fischia la propria squadra mentre la stessa sta vincendo nettamente e, aggiungo, viene da un periodo roseo di risultati, nonché da una roboante vittoria sul campo del Napoli? Tutto ciò avviene, poi, nella giornata in cui la società ha deciso di inserire nella Hall of Fame alcuni calciatori divenuti vere e proprie icone della Roma. Ci sono campioni, ma ci sono anche giocatori non eccelsi, che grazie al proprio attaccamento alla causa e alla dedizione mostrata sono diventati degli idoli. Funziona così tra i tifosi. O almeno un tempo, quando si era meno imprenditori, meno consulenti del lavoro, meno allenatori, mento tifosi delle proprie idee, e più sostenitori della squadra.

Il tifoso romanista, in passato, ha osannato Tarzan Annoni, di certo non un elemento dalla classe cristallina, ma uno che non si è mai tirato indietro, incarnando alla perfezione lo spirito della tifoseria. Eppure oggi c’è chi si permette di fischiare un’intera squadra che vince, al netto di un club che ha sempre vinto poco, perché i fraseggi e i tentativi di attacco non permettono alla parte più importante dello show di andare in onda. È un po’ come quando a teatro degli attori realizzano una performance impeccabile, ma il pubblico, che si trova là per la prima volta ed è poco avvezzo a tutta la rappresentazione ancestrale e marginale che c’è in un’opera profondamente artistica come quella della recitazione, applaude soltanto il cammeo del grande attore. Nella parte finale. Degli spettatori da Football Manager, da social network o, meglio mi sento, da reality show. E questo lo potrebbe dire anche chi il giorno prima non è stato a Benevento-Perugia. Dirlo è da violenti, da ultras armati di penna, da beceri borgatari senza nessun rispetto per il mondo dell’informazione. Quello vero, sia chiaro. Anzi, off topic, consiglio per lavorare nel mondo dell’editoria italiano? Non pensate. Non ragionate. Non approfondite. Appecoronatevi a qualcuno e fate mero ufficio stampa. Guadagno assicurato, no perditempo. Ovviamente queste righe, intrise di violenza verbale, farcite di becero populismo e sporco senso di ribellione, sono vietate ai minori di 18 anni.

Quanto cozzano le lacrime di Toninho Cerezo con quell’Olimpico vuoto e desolato? Io, per motivi anagrafici, non ne ho potuto vedere le gesta dal vivo. Eppure posso emozionarmi nel carpire la sua reazione. Il tifoso di calcio è spesso uno storico senza saperlo. Uno che conserva memorie anche di ciò che non ha vissuto, perché qualcuno gliele ha tramandate. Cerezo c’era in quel maledetto 30 maggio del 1984, quando un’intera tifoserie passò dal più bello dei sogni, al più brutto degli incubi. Con il Liverpool a festeggiare di fronte a centomila persone attonite. Uscì dal campo poco prima del 120′, trafitto dai crampi. Perché tutto aveva dato. Quella sera io non ero ancora nato, ma ho i brividi e il magone soltanto a rivederne le immagini. Le sue lacrime saranno scese anche per quello. Perché se la Sud questa sera non c’era, l’avrà rivista nella sua testa, bella e festante come allora. Poi avrà ripensato a quei ragazzi, tramortiti da una delusione incommensurabile, che una settimana dopo si ripresentarono su quelle gradinate per la finale di Coppa Italia contro il Verona. Senza nessun dubbio. La Roma vinse ai rigori. Ironia della sorte. Un destino che volle, inutilmente, restituirle il maltolto. “Quella sera guidai fino a Nettuno con la mia famiglia. Senza parlare, senza dire una parola. Una delle sensazioni più brutte di tutta la mia vita”, racconterà Bruno Conti molti anni dopo.

Ma Cerezo è anche quello della Roma brasileira, dei colpi di classe di Falcao, delle telecronache di Pato, delle bandiere verdeoro sventolate in Curva Sud. E con lui si perdono nel tempo e si intrecciano, tornando a galla, le storie di altre personaggio. C’è Guido Masetti, il portiere del primo scudetto, rappresentato dalla figlia Cabiria. “Co’ Masetti ch’è er primo portiere…” dice la Canzone di Campo Testaccio. C’è Giacomo Losi, un battagliero ragazzo giunto dalla bassa padana per conquistare eternamente il pubblico romanista. “Core de Roma” lo ribattezzeranno. Arcadio Venturi, invece, dovrebbe raccontare ai più cosa era la Roma di inizio anni ’50. Quella squadra condotta inizialmente da Fulvio Bernardini, che non seppe realizzare il progetto di uno dei padri del calcio italiano, scivolando malamente in Serie B. Lui, talentuosa ala, potrebbe raccontare dei pienoni in casa e in trasferta, sui campetti impolverati di Valdagno e Piombino. La festa per il ritorno in massima divisione e l’abbraccio di Sacerdoti ai suoi ragazzi, dopo i rapporti conflittuali con Fulvio Bernardini e Tommaso Maestrelli, allora addirittura capitano della Roma, prima di costruire le sue fortune sull’altra sponda del Tevere. Pensate quanto possano sembrare assurdi i fischi sul 3-0 agli occhi di questo anziano signore che ha conosciuto l’amore viscerale, in un’epoca dove essere tifosi non solo non era considerato alla stregua di un crimine, ma era incentivato un po’ da tutte le componenti.

Su Vincent Candela devo aprire un capitolo a parte. Perché è un giocatore che ho visto all’opera e per il quale ho sempre nutrito una particolare simpatia. Sia dal punto di vista calcistico che da quello umano. Quando sento il suo nome, mi vengono alla mente due fotogrammi. Il primo è un lontano Roma-Juventus, stagione 1998/1999. Non avevamo ancora capito bene la portata di questo esterno sinistro. La comprendemmo quel giorno. Quando scese palla al piede, arrivando fino all’ingresso esterno dell’area di rigore. Birindelli si fece avanti, venendo però magistralmente saltato. Da lì a poco il francese esploderà un destro da posizione defilata, raddoppiando il gol di Paulo Sergio e chiudendo la vittoria. Il tutto sotto la Sud. Un successo sulla Juventus, che a Roma non è mai un qualcosa da poco. Il secondo frame è a Bari, stagione 2000/2001, quella del secondo scudetto. Di fronte a oltre 30.000 romanisti giunti in terra di Puglia. Al 28′ Candela porta avanti il pallone con un colpo di tacco, lo lascia rimbalzare e dai 30 metri scaglia un destro che muore nel sacco. È il primo gol di una facile vittoria che spianerà la squadra verso l’attesissimo titolo. Torce, fumogeni, bandiere e striscioni. Quella giornata ha quasi tutto ciò che mi ha fatto innamorare del calcio. “Non voglio offendere nessuno, ma mi spiace che non ci sia la parte più bella del tifo romanista, la Curva Sud, a questo evento. C’è bisogno di loro“, ha scritto sul suo profilo Facebook prima della gara. L’ennesimo segno di attaccamento e riconoscenza.

Ma se buona parte delle persone dotate di una ragione propria analizza la situazione romana come anomala e taccia di colpevolezza quegli organi rei di aver preso ormai il sopravvento sulla politica (anche e soprattutto grazie alla stessa), c’è sempre chi è pronto a mettere in secondo piano tutto ciò. I professori del giornalismo difficilmente riescono a interagire con il popolino della strada. E quindi non ne conoscono le istanze e le esigenze. Anzi, le disprezzano, presupponendo di occupare una posizione di maggior rilievo sociale. Forse a più di qualcuno avrà fatto piacere uno stadio senza ultras (anche i palermitani hanno disertato per solidarietà) e senza tifo (checché se ne dica). Molto più semplice crogiolarsi nelle proprie stantie credenze e continuare a ragione per luoghi comuni e sentito dire, piuttosto che prendere posizione e cercare di capire perché a pochi metri dal proprio naso avvengano determinate cose. Ma farlo, è lapalissiano, implica l’essere di fondo una persona irrequieta e socialmente pericolosa. No alla violenza negli stadi.

Testo di Simone Meloni.
Foto www.asromaultras.org.