La prima nota di colore, almeno per il sottoscritto, è il brusco cambio metereologico nel giro di neanche trecento chilometri. Lascio la stazione Termini con la colonnina di mercurio che sfiora i 34 gradi, per approdare a Napoli Centrale dove oltre a 37 gradi vige un regime di umidità da far invidia alla foresta pluviale indonesiana. Si suda soltanto stando fermi e il fatto di trovare immediatamente il pullman per Avellino, con un minimo di aria condizionata accesa, è leggermente rigenerante. Ma d’ora in poi il caldo diverrà, almeno per qualche ora, un lontano ricordo. Più l’autostrada si inoltra nei monti dell’Irpinia e più grige e torbide nuvole fanno da cappello alle cime ricoperte dalla folta vegetazione. Quando il torpedone raggiunge il capoluogo ci sono raffiche di vento inquietanti, che fanno da preludio ad un lungo “sgrullone” che durerà fino a dieci minuti dal calcio d’inizio, portando la temperatura a 19 gradi. Persino piacevole per chi, come me, la pioggia la odia di default.

Fatta questa premessa che, immagino, vi interesserà il giusto, passiamo alla cronaca di questa atipica giornata agostana. Avellino e Casertana si ritrovano di fronte dopo un ventennio, in un derby sentito e storico, che prende forma nel complicato quadro delle rivalità ed amicizie della Campania. Lupi e falchetti, nella fattispecie, sono legati da un gemellaggio che è resistito nel tempo ed ha saputo superare generazioni di ragazzi che si sono avvicendati sulle rispettive balaustre. Scherzo del destino, peraltro, vuole che nel basket i rapporti tra le due città si siano deteriorati negli ultimi anni, lascindo spazio a quella che, se non si può definire rivalità, è sicuramente un’antipatia dichiarata.

La bellezza della Coppa Italia sarebbe, in fondo, proprio questa: mettere di fronte curve e tifoserie lontane da decenni. Il condizionale è tuttavia d’obbligo, visto che la formula, a totale appannaggio delle formazioni di categoria superiore, permette questo curioso balletto solamente nei primi turni, salvo impreviste e sporadiche sorprese che solo la bellezza del calcio ogni tanto ancora riesce a far emergere. Sta di fatto che l’appuntamento tra i ragazzi della Sud avellinese e gli ultras casertani è alle 17 al Campo Coni, situato a poco meno di un chilometro dallo stadio. Come prevedibile il pomeriggio scorre tra birre e cori intonati all’unisono contro i rivali di sempre, oltre al ricordo di chi ha lasciato prematuramente i propri amici ed il proprio contingente curvaiolo.

Il fischio d’inizio è fissato per le 20. Con un lento incedere mi avvio verso il Partenio, venendo graziato da Giove Pluvio, che svogliatamente chiude i suoi rubinetti lasciando spazio al flebile sole del crepuscolo. Vedere la storica struttura dell’impianto irpino farsi sempre più grande, man mano che mi avvicino, è sempre un piacere. Possiamo parlare quanto ci pare dell’inadeguatezza dei nostri impianti e di quanto siano belli gli stadi nuovi, corredati di centri commerciali, store ufficiali e ristoranti, ma per me “gioiellini” come questo restano l’essenza del calcio italiano. Perché da queste parti è transitato il pallone che contava, quello degli anni ’80. Quello dei Platini, dei Conti, dei Cerezo, degli Antognoni, dei Zico, dei Maradona e degli Altobelli per intenderci. E quelle gradinate, che già da lontano appaiono sgualcite e tremolanti, conservano tutto il fascino dei bei tempi che furono. A rovinarle non ci hanno pensato gli agenti atmosferici, bensì i tornelli, i prefiltraggi, le gabbie e le barriere. Mentre l’Europa andava avanti ed eliminava i Muri, da quello di Berlino a quelli degli stadi, l’Italia prendeva la strada contraria. E così sia.

Dopo aver ritirato l’accredito posso varcare il cancellone giallo, non prima però di esser fermato da un agente in borghese che mi chiede di mostrargli un documento salvo poi scusarsi alla visione della mia tessera stampa. Dimenticavo, i criminali da queste parti risiedono solo nei settori popolari.

Le gradinate verdi, e fortunatamente ancora prive di seggiolini spacca schiena nella curve, si stanno gremendo, mentre io cerco una posizione ottimale dalla quale scattare le due tifoserie. Sento già il rullio dei tamburi, mentre i supporters di casa sistemano lo striscione principale al centro della curva, rinfoltendo lentamente il gruppone che andrà a coordinare il tifo del settore. Non mi possono sfuggire, inoltre, una decina di ragazzi situati proprio di fronte a me in Tribuna Terminio, con un paio di pezze contro la tessera.

A tenere banco nell’estate biancoverde, è stato anche il ritorno del vecchio marchio US, al centro di un’annosa disputa che ha visto, tempo fa, il totale abbandono dello stadio da parte delle vecchie sigle ultras dell’Avellino. le quali, sin da subito, non si sono riconosciute nella costituzione dell’AS Avellino che, a loro parere, rompeva totalmente i legami con il vecchio club legato alla matricola federale 4960 (andata tutt’oggi persa). Scelte sofferte, sulle quali non mi permetto di metter bocca, foraggiate da un calcio in totale cancrena che ogni anno perde sempre più la sua credibilità tra fallimenti, ripescaggi e fantozziane fusioni. Tuttavia, come dicevo, la notizia è la ricomparsa sulle casacche irpine della sigla Unione Sportiva, cosa che fa ovviamente piacere a chi, come me, ha per anni collezionato album Panini attaccando figurine che riportavano tale marchio.

Nel settore ospiti, a ridosso del match, non vi è ancora traccia degli ultras rossoblu. Cerco di capirne il motivo; la spiegazione mi si palesa di fronte soltanto quando noto che la maggior parte dei tifosi casertani è assiepata dietro il cancello dell’anello superiore. L’intento è chiaro: spostarsi tutti di sopra, al contrario di quanto scelto dalla locale questura che vorrebbe tenere tutto il contingente ospite nella parte inferiore. Passano i minuti e soltanto dopo il fischio d’inizio sono i tifosi ad avere la meglio, con la cancellata che si apre e decine di bandiere e sciarpe rossoblu che invadono pacificamente gli spalti. I seguaci dei falchetti si dispongono velocemente facendo gruppo ed esponendo lo storico Fedayn Bronx, che per l’occasione è quello usato generalmente in casa.

Dopo una fugace escursione in svizzera, per Basilea-Lech Poznan, ho l’occasione di mettere immediatamente a confronto modi e modalità di vivere la curva ed il calcio. E se è vero che a livello di numeri e di seguito ormai la nostra riserva segna rosso, è pur sempre vero che l’italiano ha un approccio al pallone quasi unico. Anche in periodi come questi. I momenti di ambiente “teatrale” del St.Jakob (nonostante una prestazione ultras inappuntabile da ambo i lati, sia chiaro) al Partenio sono sostituiti da imprecazioni, bestemmie ed insulti scagliati un po’ ovunque al susseguirsi delle azioni. Il modello italiano, pur con le sue falle e la sua ormai lapalissiana decadenza, resta un qualcosa difficile da riprodurre. Proprio perché, a mio modo di vedere, oltralpe manca il modo di intendere il calcio dell’italiano.

Dicevamo dei casertani: presenza più che buona considerata la data vacanziera. Gli ultras rossoblu esordiscono con un telone su cui è raffigurato il simbolo sociale, qualche torcia accesa qua e là e tante sciarpe tese. Giusto il tempo di carburare e coordinare i presenti ed il tifo decolla lentamente. Cori eseguiti all’unisono, con belle manate e un paio di bandieroni sventolati senza sosta. Tornare a calcare uno stadio da “calcio vero” è senza dubbio un incipit in più e, nonostante il compito della squadra sia a dir poco arduo, sugli spalti c’è ben poco da rimproverare ai presenti. Non va infatti dimenticato che la Casertana degli ultimi 20 anni si è ritrovata spesso invischiata in contese che come proscenio vedevano campi impolverati e scalcinati della provincia. Un tassello fondamentale per fiaccare ancor più la passione sportiva per un ambiente che risente, logicamente, la vicinanza di una città come Napoli.

Dall’altra parte gli avellinesi confermano quanto di buono fatto vedere nelle ultime stagioni. Una tifoseria che ha saputo ripartire da zero, crescendo annata dopo annata. Come sempre gli irpini offrono tanto colore e un costante “movimento” tra battimani e treni stilisticamente perfetti. Il fatto che, in più di un’occasione, riescano a trascinarsi dietro buona parte dello stadio, è un ulteriore sintomo di buona salute: evidentemente da queste parti si è compreso che l’aggregazione è ancora un fattore fondamentale per vivere bene la curva e la propria tifoseria. L’ultras dell’ultimo decennio, che spesso ha valicato il confine dell’interazione divenendo, spavaldamente, “eremita delle proprie idee”, si è scavato la fossa da solo, dando una mano fondamentale a chi il movimento lo vorrebbe seppellire in un batter d’occhio.

In campo la gara resta equilibrata fino allo scadere dei primi 45′, quando l’immortale Ciccio Tavano sigla il vantaggio per l’Avellino. Un gol che mette in discesa la gara per i casalinghi, che nella ripresa troveranno altre due marcature permettendo al Lupo di accedere al turno successivo dove affronterà, alla Favorita, il Palermo. Curioso siparietto attorno al 30′, quando alcuni riflettori si spengono e l’arbitro è costretto a sospendere l’incontro. Come da copione, in questo caso, le tifoserie prendono spunto per divertirsi illuminando l’oscurità con un paio di torce che fanno sicuramente effetto.

Gli ultimi minuti di gara sono più che altro una passerella, con l’Avellino che mantiene il risultato rinunciando ad affondare. La sconfitta non intacca la prestazione casertana che, anzi, nel finale si colora con una fitta sciarpata. Degna ciliegina sulla torta di un’ottima performance di tifo. Finisce così come era iniziata, con le tifoserie a scambiarsi “effusioni” che suggellano il sentito rapporto fraterno.

Per me è arrivato il momento di tornare al capolinea degli autobus, dove alle 22,30 partirà il mio pullman per Napoli. Da lì cambio con il mitico Megabus che, dopo anni di non collegamenti tra il capoluogo campano e la Capitale dopo le 21, si è preso carico di colmare questa falla istituendo una partenza a mezzanotte. Metto piede alla stazione Tiburtina che l’orologio segna le 2,40. Per me c’è ancora il notturno da prendere, cosa che si rivelerà una pura formalità al termine di una bella giornata. Ora mi godo le meritate vacanze.

Simone Meloni