Non nego di provare un certo sussulto nostalgico nell’inviare la richiesta di accredito per questa gara. Sono passati circa nove mesi dall’ultima volta che ho messo piede in uno stadio italiano. Un tempo relativamente breve che tuttavia appare una vera e propria eternità se inserito nel contesto che ognuno di noi sta vivendo. So bene che questa dolce nostalgia non ha ragione di esistere. Non tornerò in uno stadio con il pubblico protagonista e mi troverò di fronte un calcio che ormai dal marzo scorso non seguo quasi più. Allo stato delle cose si tratta proprio di un altro sport: non mi appassiona, non mi coinvolge e non mi trasmette nulla. Se non tristezza.

Comprendo che per i tanti addetti ai lavori una ripresa fosse necessaria. Non mi riferisco ovviamente al carrozzone delle televisioni, ai “magnaccia” in giacca e cravatta chiamati a commentare sulle pay-tv, ai Cristiano Ronaldo o agli Zlatan Ibrahimovic. Il calcio – a volte lo dimentichiamo – non è fatto solo da loro ma anche e soprattutto da chi lavora dietro le quinte (magazzinieri, custodi, allenatori delle giovanili etc etc etc) che grazie al calcio portano la minestra calda a tavola ogni sera. Pertanto neanche mi sento di condannare tout court la scelta di far disputare i campionati. Semmai posso giudicare talune decisioni entrando nel merito e sicuramente concordare su quanto gli attuali tornei di credibile abbiano davvero poco. Tra squadre decimate dal virus, formazioni che scendono in campo in inferiorità numerica e match rinviati puntualmente a data da destinarsi. Non a caso, come detto, ormai so a malapena chi è primo in A e con chi gioca la mia squadra.

In questa domenica di dicembre la breve strada che mi porta verso lo stadio Partenio è più pesante del solito. In essa sembrano accavallarsi centinaia di ricordi volutamente tenuti in un angolo della mia mente durante questi mesi. Sapevo che pensare a una parte così intensa della mia vita (interrotta così bruscamente) mi avrebbe messo tristezza e quindi ho fatto vanamente opera di rimozione. Le domeniche in giro per gli stadi d’Italia, la compagnia, le chiacchiere e i viaggi mi mancano. Sarei ipocrita a negarlo. Mi mancano le nottate passate su treni e pullman, il caldo che ti soffoca in estate e la nebbia che all’improvviso cala sui campi del nord alla stagione fredda. Ma soprattutto mi mancano tutti quei tasselli appresi qua e là ogni volta e che hanno contribuito ad arricchire la mia personalità. Qualcuno potrà anche commentare con la solita e scialba frase: “Non ti hanno mica chiesto di andare in guerra, ma solo di rinunciare a qualcosa. Allora i nostri nonni cosa devono dire?” ma io posso solo rispondere che ciò non ha davvero significato. Anzi secondo me in questo periodo nessuno deve dimenticare quello che ha sempre contraddistinto le nostre vite in maniera positiva. Che sia una partita di calcio, un concerto, una cena o un’uscita con gli amici. Perché se esistono situazioni di emergenza vuol dire che esiste anche una “normalità” a far da contraltare. Ed è a quella che ognuno di noi dovrebbe ambire. Perché desiderare serenità, felicità e anche socialità fino a prova contraria è umano. E se storicamente ci sono stati periodi “peggiori”, non possono e non debbono fungere da termine di paragone per “abituarsi” a situazioni che devono rimanere contingenti. 

Ripensando alla mia vita passata per metà sugli spalti o a bordo campo non posso che rammentare quel senso di “fratellanza” che tante volte ho avvertito. Quell’abituarsi a non puntare mai il dito ma ad analizzare fatti e situazioni prima di giudicare e condannare. Onde evitare la generalizzazione dilaniante che da sempre ha cercato di demonizzare su tutti i fronti un movimento che, pur con i suoi limiti e i suoi errori, ha catalizzato migliaia di giovani, vecchi, poveri e ricchi per decine di anni. Non condivido tante cose proposte e attuate dagli ultras negli anni, a cominciare da quella sindrome di accerchiamento che spesso li ha resi ciechi di fronte alle proprie responsabilità e vulnerabili di fronte a futili attacchi, ma ne sposo e ne sposerò sempre il moto aggregativo. Che resta l’aspetto più bello e forse rivoluzionario per questi tempi. Ecco perché senza lo stadio, senza le sue dinamiche e senza i suoi sgangherati codici mi è venuta a mancare una parte solida del mio modus vivendi e ne è subentrata un’altra – ovviamente ingrandita dal momento storico – che mi deprime e mi dà il voltastomaco.

A fronte dell’ipocrita e stucchevole “andrà tutto bene” in questi mesi abbiamo assistito alla continua diffamazione e colpevolizzazione del cittadino. E questo è divenuto ancor più grave quando si è tramutato in una “lotta tra poveri”. Nella ricerca maniacale del runner, del vacanziero o del ragazzo intento a prendere un aperitivo. E qua secondo me si dovrebbe proprio aprire un capitolo su quanto i giovani vengano sovente considerati un problema anziché una risorsa di questo Paese. Un tutti contro tutti caratterizzato da foto dai balconi, morali da quattro soldi e ricerca ossessiva, infame e compulsiva di un mostro da sbattere in prima pagina. Quello che questo virus ci ha davvero ricordato, forse, è che in un periodo di crisi a venir fuori è la nostra miseria mentale e culturale. Ovviamente sobillata da una stampa che invece di fare cronaca oculata e di livello su uno snodo storico come quello che stiamo vivendo, si diverte a soffiare sul fuoco dell’odio e dell’ignoranza per accontentare e foraggiare tutta la sua pochezza. Ma del resto cosa ci possiamo aspettare da un settore che negli ultimi anni non ha saputo raccontare con professionalità e deontologia nemmeno le finali del Grande Fratello Vip? Questa è solo la prova ulteriore del valore dell’editoria italiana: zero!

I lampeggianti della polizia in Piazzale degli Irpini luccicano quasi malinconici a fronte del vuoto umano che c’è attorno. Un servizio d’ordine dove non c’è bisogno di tenere in ordine nulla. Uno striscione strappato, lasciato là il giorno prima dai ragazzi della Sud per celebrare i 108 anni dell’Avellino cerca di ricordarmi che ogni tunnel, anche il più lungo, ha un’uscita. Gli unici a muovere qualche passo sono i sempiterni, spaesati, steward che fanno firmare una delle settecentomila autodichiarazioni uscite nell’ultimo anno misurando poi la febbre. Non contesto certo la procedura – di virologi improvvisati, anche tra quelli di professione, ce ne sono sin troppi in giro – ma è ovviamente innaturale per il sottoscritto. Il freddo pungente invece rende quasi doppiamente utile la mascherina. Intorno gli spalti deserti. Guardo il settore ospiti e torno con la mente a foto storiche di tifoserie al Partenio, così come a ogni settore dello stadio associo un ricordo o un’immagine passata agli annali per qualche motivo. È ovviamente un ambiente snaturato, monco e senza alcuno stimolo. Le voci di arbitro, giocatori e allenatori si odono nitide mentre i pochi accreditati presenti in tribuna Montevergine (parenti dei giocatori e dirigenti suppongo) di tanto in tanto si lasciano andare ad applausi e grida di approvazione. Il tutto ovviamente rimbomba in una cassa armonica mortifera e vuota come quella offerta dallo stadio irpino quest’oggi.

Finiscono i primi 45′ ma se non fosse per lo speaker che annuncia la pubblicità neanche mi accorgerei dell’intervallo. A livello sensoriale è pressoché uguale alla partita giocata. Sono pertanto quasi sollevato al triplice fischio. Ho appurato quanto pensavo e penso passerà parecchio tempo prima che rimetta piede in uno stadio. Nessuno di noi sa come e in che maniera si tornerà un giorno ma di certo, personalmente, per riavvicinarmi al calcio e agli spalti si dovrà almeno tornare alla situazione del marzo scorso. Che sì, è vero, non era facile ed esaltante a livello di fruibilità degli impianti e di repressione, ma garantiva comunque ancora una certa sopravvivenza (perché poi bisogna essere anche onesti: l’ultras del 2020 spesso e volentieri sopravviveva più che vivere). Questo altro non è che post-calcio.

Lascio la mia pettorina riproducendo uno dei pochi momenti “tradizionali” ancora esistenti. Dopodiché mi avvio celermente camminando per le strade fredde e deserte di Avellino. Con la parola “distanziamento” in auge non posso che pensare a quanto tutto quel mondo sembri ora distante. Addirittura mi sembra di aver vissuto una vita interrotta ad un certo punto e ricominciata in altro modo. Un modo senza dubbio più anonimo e meno stimolante.

Simone Meloni