ultras_torciaLa meccanica di una domenica allo stadio è la stessa di sempre: sveglia presto, ma non troppo, sciarpa al collo, si parte.

La partenza prima dell’ora di pranzo, l’arrivo allo stadio, la fila per il biglietto, il pre-filtraggio, il filtraggio, si entra.

Tifare una provinciale prevede una ripetizione di eventi, triti e ritriti, il più delle volte deludenti, legati alla propria squadra del cuore: campionati squallidi in terza serie, o ancora più giù; società instabili come un governo italiano, fallimenti o sopravvivenza con l’acqua alla gola. Giocatori che promettono fedeltà alla maglia, gli stessi che la lasceranno per uno stipendio migliore, gli stessi che prometteranno amore eterno ad un’altra squadra, e via dicendo. Tutto ciò interrotto da lampi di campionati buoni e promozioni.

Cosa spinge allora a vivere ogni maledetta domenica le stesse gradinate, le stesse facce, percorrere gli stessi chilometri?

Un semplice motivo non c’è, una ragione precisa che spieghi il tutto, semplicemente un modus vivendi che si plasma, si crea nel corso degli anni, sulla propria pelle.

La prima volta allo stadio, sarà con tuo padre, una questione di sangue è così il più delle volte. La prima volta allo stadio ti toglierà il fiato: l’ansia che sale man mano che si avvicina l’inizio, l’esplosione di gioia dopo un goal della tua squadra, la delusione per quello subito, i minuti che non passano quando la vittoria è in pugno. Le emozioni sono nitide oltre la partita in sé, ciò che ti attrarrà sarà quel settore caldo e dal ritmo coinvolgente; tamburi, fumogeni, sciarpate, cori sempre più forti e sempre più lunghi. A prescindere dall’andamento in campo.

Uno spettacolo nello spettacolo. 

Da quel giorno saprai che quel settore, la Curva, sarà il posto a cui legare le tue domeniche.

Flashback del passato, si sa sono sempre i ricordi più dolci. Ora mi ritrovo sul treno, oggi c’è la partita. Mentre la città mi appare e scompare dal finestrino, penso, ancora ma ne vale la pena?”

Soprattutto dopo aver vissuto domeniche parallele  finite male. Il  ricordo va a quell’11 novembre 2007: io  viaggiavo verso l’Arechi per seguire la mia squadra del cuore giocare in un banale match casalingo, un ragazzo di Roma, laziale, in una trasferta  lontana verso Milano. Ora c’è un punto di non ritorno, uno dei due viaggi si ferma. Io arrivo allo stadio e questo ragazzo romano, Gabriele, si ferma a Badia del Pino.

Io ritorno a casa dai miei, dopo la partita, ma Gabriele rimane sempre a Badia del Pino, quando la meccanica si interrompe rimangono storie sospese a metà.

Mi trovo alla stazione, esco per andare a prendere il pullman diretto allo stadio: una volta preso mi accorgo che, fuori a questo vecchio e malconcio mezzo di trasporto, c’è qualche faccia conosciuta, con molte primavere alle spalle, una volta assiepavano le gradinate insieme a me. Ora li vedo  passeggiare in carrozzina, o meglio, mano nella mano con quelle piccole creature, sangue del loro sangue, a cui insegneranno a conoscere la propria città. La stessa che un tempo, difendevano ed amavano, attraverso quella sciarpa che io porto al collo, mentre le loro rimangono ad ammuffire dentro qualche cassetto. Gli stessi  cassetti che una volta riaperti, farebbero riemergere emozioni assopite, mai dimenticate: perché quelle gradinate, quei giorni non possono essere cancellati.

Arrivo allo stadio vado ai botteghini. La fila per il biglietto, il pre-filtraggio, il filtraggio, si entra.

Sono sempre io, con la mia sciarpa al collo, oltre la meccanica: una nuova storia da vivere.

 Gian Luca Sapere

[Fonte: Asinu Press]