Che cos’è la fede? Non è così semplice spiegarlo. Per il seguace di una religione è un qualcosa di imprescindibile dalla propria esistenza. Un tratto somatico nella propria quotidianità, in grado di rinfrancarlo nei momenti bui e spronarlo nelle difficoltà. La fede, per un tifoso, è un qualcosa di simile. Anzi, oserei dire identico. È quella cosa che ti spinge a fare chilometri, superare avversità geografiche e metoreologiche per dividere gioie, emozioni e delusioni con i compagni di sempre. Quelli che indossano la tua stessa sciarpa, portano il tuo stesso striscione e condividono con te lo stesso coro. Curiosa e inspiegabile l’antropologia del tifoso, persino per chi la vive quotidianamente.

Di sicuro questo spirito è stato quanto di più profondo abbia potuto pervadere i tifosi della Virtus Roma in questa infausta annata. L’inizio di un’iperbole discendente, oltre che umiliante, cominciata con l’autoretrocessione della scorsa estate. Dopo che le premesse, da parte del presidente Toti, erano state ben altre. Un campionato cominciato nel peggiore dei modi, con un filotto di sconfitte, e finito ancora peggio, con l’ennesima imbarcata, patita a Casale Monferrato, nella terra degli ottimi Krumiri, ma anche dell’infame e assassino Eternit, che ha significato playout. Ultima spiaggia per non finire indegnamente in B1. Ultima chance di non veder calpestare malamente 56 anni di storia cestitica.

Pallacanestro che a Roma ha sempre significato tanto. Non ha mai tirato grandi numeri. Troppo distante dai milioni, dalle luci e dal potere mediatico del calcio. Ma da sempre parte integrante del tessuto sportivo capitolino. Eppure qualcuno si è aggrappato anche ai tifosi. Dicendo che sono la causa di questo harakiri. Descrivendoli come un’entità fredda e poco incline al sacrificio. Forse è vero. Il pubblico di Roma ha i suoi difetti intrinsechi. Le sue fisse, le sue virtù di grandezza mancante che riflettono il costante vorrei ma non posso della sua città.

Ma il pubblico romano di quest’anno è stato l’unico motivo di vanto della Virtus. Mai una contestazione, buoni numeri al PalaTiziano e sostegno garantito malgrado tutto. Una prova di maturità e attaccamento rara da trovare nella società odierna, dove forse, il tifo, è criminalizzato anche per questo: per essere spesso l’ultimo avamposto di un certo modus vivendi, quelli che ti permette di non diventare voltagabbana come e quando meglio conviene. Chi dice il contrario sta cercando scuse per giustificare la propria disfatta. E dispiace che questo avvenga a scapito di un amore disperato, parafrasando Nada.

Dai ragazzi delle Brigate ai semplici tifosi, che hanno seguito ovunque una delle squadre più disastrate della sua storia. Assistendo a gare, azioni e sconfitte in grado di distruggere anche il più ottimista degli ottimisti. Fin qui. Fino a Casale Monferrato. In riva al Po. In una giornata umida e con una pioggerella a intermittenza. In un palazzetto caldo. Caldissimo. Ben oltre il previsto. No, di ultras  a Casale non ve ne sono. Almeno nel senso stretto del termine. Ma di tifosi appassionati sì. E da dietro quello striscione, Casale Rossoblu, da cui si propaga il tifo, quasi sempre si riesce a coinvolgere l’intero pubblico presente. Che rumoreggia con ogni mezzo possibile. Battendo le mani, i piedi, i giornali sui seggiolini. Un frastuono come poche volte mi era capitato di sentire in un palazzetto e per il quale vanno i sinceri complimenti agli spettatori monferrini.

Forse anche questo ha stordito i già poco reattivi giocatori in tenuta virtussina. A poco è servito il sostegno del manipolo posto nel settore ospiti. Una manciata di ragazzi che piano piano, col passare del tempo, delle speranze sempre più flebili e l’incubo playout che diveniva realtà, hanno capito che era il caso di tifare per ciò che questa squadra rappresenta. Facendo uscir fuori il loro orgoglio ma anche la loro sofferenza. Perchè dentro a un viaggio, lungo 1.400 chilometri tra andata e ritorno, c’è sempre un infinito turbine di emozioni. C’è sempre stato. Anche dopo la sirena, quando il quintetto di Caja si è diretto immediatamente sotto al tunnel, colpendo i presenti con l’ultima martellata gratuita della serata.

Saranno playout, contro Recanati. Giusto, in fondo, che sia la città di Giacomo Leopardi e del suo cronico pessimismo, a fare da appendice a questo campionato dei romani. Mai così in basso e mai così vicini al baratro. Di contro i giocatori piemontesi festeggiano sotto la curva, raccogliendo gli applausi di un pubblico stasera davvero meritevole di menzione. Per loro saranno playoff, per riconquistare quell’A1 assaggiata una sola volta nella propria storia. Due destini profondamente opposti che si misurano sul parquet, con i rossoblu impegnati a saltellare e cantare mentre gli ospiti abbandonano il palazzetto con l’ironico coro “Stiamo andando, stiamo andando, stiamo andando in Serie B, continuando ancora a perdere così, stiamo andando in Serie B”.

Simone Meloni