Non nascondo mai quel che penso e cerco sempre di superare ogni mio pregiudizio. Nel caso specifico le due cose si intersecano: non ho grande considerazione (con le dovute eccezioni che confermano comunque la regola) del movimento ultras del basket, ma in occasione delle Final Eight di Coppa Italia, che si giocano a due passi da casa, metto per l’ennesima volta sul patibolo i miei preconcetti, pronto ad immolarli nella speranza di essere sorpreso da qualcuna delle tifoserie delle otto convenute.

Veloce excursus sulla strana formula di questa Coppa Italia a spicchi, prima di passare al tifo che in fondo è quel che più interessa. Analogamente a quanto succede nel calcio, e forse anche peggio, nella pallacanestro non c’è alcun spazio nemmeno per l’ipotesi di una qualche favola sportiva che parta dal basso e si faccia largo tra le compagini più blasonate. Mentre in altre nazioni si susseguono sfide spesso dai contorni epici fra epigoni sportivi di Davide e Golia, la nostra coppa nazionale di calcio ha ormai perso ogni aura di fascino con la formula attuale varata solo a tutela delle grandi, con turno unico in casa della squadra più forte. Alle piccole nemmeno le briciole dell’incasso record o i brandelli di speranza dell’avvalersi del fattore campo in piccoli catini ribollenti piuttosto che impraticabili per i piedini fatati abituati a giocare sul velluto. Se pensate non sia possibile far di peggio, sappiate che l’Italia a canestro ci riesce benissimo: la Coppa viene assegnata in un mini torneo ad eliminazione diretta fra otto squadre. Le migliori otto della massima serie alla fine del girone di andata. Niente trippa per i gatti o per chi vorrebbe dare un senso alla propria stagione per vie alternative.

L’epica sportiva, scusate l’abuso del concetto, messa in naftalina ad appannaggio di un evento che richiami quante più persone possibili e con il minor dispendio di energie. Sportive ed organizzative. Così in una quattro giorni, una sveltina senza amore e senza pathos incorona il campione nazionale di Coppa.

La regina incoronata, per toglierci subito questo dente, è stata la favorita della vigilia, la stessa Olimpia Milano che in campionato sta vincendo senza patemi. Sul parquet, onestamente, lo spettacolo è stato davvero gradevole: la pallacanestro, in termini di bellezza e emozioni, è almeno diciotto miliardi di spanne sopra al calcio, che non di rado regala squallidissimi zero a zero. A canestro invece sembra di giocare tante partite nella partita e spesso le contese si decidono a fil di sirena o punto su punto. Se il calcio però ha il suo indiscutibile risvolto antropologico nell’atmosfera che attorno ad esso si delinea, nella pallacanestro l’ambiente è molto più compassato, quasi borghese. Però il manipolo di renitenti e ribelli c’è sempre e pur con numeri di gran lunga inferiori agli stadi, regala comunque spunti degni di nota.

Nei palazzetti, per fare una banda bastano dieci folli disposti a cantare con continuità. Giocare al chiuso offre loro una vera e propria cassa d’amplificazione, per cui serve poco a chi ha buona volontà per riuscire ad arrivare al proprio quintetto ed infondergli coraggio.

Il palazzetto, concedetemi l’ultima digressione extra-tifo, è stato ricavato all’interno di un padiglione della Fiera di Rimini con il solito ausilio di gradinate modulari, come al “Del Duca” di Ascoli o a Cagliari per intenderci. Ero scettico o almeno curioso rispetto a questa scelta, però devo dire che la resa finale non è stata affatto male. L’afflusso sempre mediamente buono, con picchi minimi al giovedì, fisiologici visto che parliamo di un giorno lavorativo, e numeri in crescendo man mano che ci si avvicinava alla finale.

Poi sì, ci sono le derive “americanoidi” di questo sport e quelle sono davvero insopportabili. Lo speaker che deve spiegare ogni azione di gioco a microfoni spiegati o i vari lanci di gadget promozionali; le ragazze pon-pon e le scimmie ammaestrate che, nell’intervallo lungo, intrattenevano con trampolini e canestri acrobatici; la musica a palla o i maxi schermi in cui il pubblico sperava di sublimare i propri cinque minuti di celebrità Warholiana. È un mio limite lo ammetto, non potrò mai capire o accettare: provengo dal calcio rozzo degli anni ’80, dove il massimo dell’intrattenimento era la “gazzosa” da Peppinello versata in un bicchiere di plastica attraverso la retina. E pure di fretta che volevamo tornare a vedere sudare e correre i nostri gladiatori, fosse anche con scarsi risultati.

Insomma, l’approccio non è quello di un rituale quasi sacro nella sua ciclicità, ma di un evento straordinario a cui non ci si può approcciare che da spettatori o, nella peggiore delle ipotesi, da meri consumatori. Che poi, a dirla tutta, anche il calcio ha ormai imboccato questo tipo di deriva.

Ma bando alle ciance veniamo dunque alle tifoserie che si sono avvicendate sugli spalti in questa quattro giorni. Data la particolare formula e al serrato susseguirsi di partite in pochi giorni, anziché dividere l’analisi in singole partite, finendo magari a parlare più volte delle stesse tifoserie la cui squadra è avanzata ai turni successivi, abbiamo preferito dedicare uno spazio ad ognuna di essa.

CAPO D’ORLANDO – Capo d’Orlando è uscita subito ai quarti, dopo una partita molto combattuta e avvincente, che sembrava avere saldamente in pugno e che poi ha quasi buttato via perdendola di due punti ad appannaggio di Reggio Emilia. Il giovedì è stato il giorno peggiore del tifo: era onestamente molto difficile raggiungere Rimini in gran numero in un giorno pienamente lavorativo e da Capo d’Orlando non si sono registrate sorprese alcune. Ribadita la mia ignoranza delle realtà ultras cestistiche, ricordavo tempo addietro un piccolo gruppo al seguito dell’Orlandina, quest’oggi invece solo semplici tifosi, probabilmente immigrati in zona, poco o per nulla partecipi, giusto qualche “Capo d’Orlando” sporadico e null’altro. Ingiudicabili.

REGGIO EMILIA – Sotto l’insegna degli “Arsan”, i reggiani sono autori di un tifo sicuramente positivo fino alla semifinale in cui, per mano dell’Olimpia Milano, salutano la manifestazione cedendo di sole tre lunghezze ai più accreditati avversari. In entrambe le gare hanno scelto di astenersi dal tifo per il primo quarto, in cui hanno lasciato campo al solo eloquente striscione “NON È UNA RESA… È SOLO UN’ATTESA”. Il riferimento è alle diffide ricevute proprio in Reggiana – Milano di campionato che si giocò al PalaDozza di Bologna, per soddisfare la maggiore richiesta di biglietti in questo big match. Ad una bella vittoria sul parquet seguì un epilogo non altrettanto felice a fine gara, quando si verificarono alcuni scontri fra gli stessi tifosi reggiani e la Celere bolognese chiamata a gestire l’ordine pubblico.

Nei restanti tre quarti il tifo onestamente è molto continuo e anche bello, proporzionalmente ai loro numeri. Nella seconda gara contano qualche effettivo in più, sia nello zoccolo duro del gruppo che nel resto del pubblico presente che, quando si unisce ai loro cori, porta a dei picchi d’intensità molto buoni. Un paio di bandiere e due aste colorano di tanto in tanto la loro zona, si vede anche in entrambe le occasioni la pezza del “Commando” della Dinamo Sassari al loro fianco, a testimonianza dell’amicizia fra i gruppi. Tanti anche i battimani. Era la tifoseria da cui mi aspettavo meno, non conoscendola, ed è stata quella che invece mi ha stupito di più in positivo. Una piacevole sorpresa.

OLIMPIA MILANO –  Per Milano vale il discorso inverso rispetto a Reggio Emilia: per tradizione storica della propria compagine, per il gran seguito che ha l’Olimpia, per il bacino di utenza di Milano, mi aspettavo sicuramente qualcosa in più. Pur conscio della forte ghettizzazione che stanno vivendo nel proprio palazzo e dell’idiosincrasia con la propria dirigenza (rimarcata in – quasi – tutte le partite di questa manifestazione con striscioni contro Proli e Portaluppi), onestamente credevo di poter vedere qualcosa in più da loro, tanto in termini di numeri che di qualità. Nella prima gara contro Brindisi sono del tutto assenti: noterò successivamente 4/5 ragazzi in un angolo del settore, ma senza alcuna pezza e senza tifo. Sul proprio spazio social faranno sapere inoltre che i ragazzi sopraggiunti hanno preferito restare fuori e rinunciare ai Quarti perché, diversamente da quanto pattuito con rappresentanti federali, i tagliandi d’ingresso avevano prezzi ben più elevati.

In semifinale e finale il loro gruppetto comunque c’è sempre stato ed ha mostrato un positivo crescendo di colore, numeri e tifo. Il tema centrale delle loro coreografie sono stati una serie di due aste a comporre la scritta “MILANO” con al centro Fiero Guerriero, la loro storica mascotte. In finale, il tutto è stato rinforzato da un contorno di bandiere con la croce di San Giorgio. Un paio di bei bandieroni e due aste, diversi battimani ed un sostegno canoro sempre generoso ma, come detto, mi aspettavo qualcosa in più. Verrà magari il momento in cui le divergenze societarie saranno in qualche modo superate e questa resistenza darà frutto, una resistenza che ora come ora è già virtù, ma complessivamente non hanno mostrato il miglior tifo della Coppa e hanno sicuramente le potenzialità per fare meglio nel prossimo futuro.

BRINDISI – Dietro le pezze “Brindisi” e “Cani randagi” (affiancati dagli amici dei “Giovani Ultras” Pesaro), i pugliesi sono i migliori della logisticamente pessima giornata che è il giovedì. Forse leggermente inferiori ai reggiani in quanto a continuità, ma considerando la maggior distanza chilometrica che hanno dovuto coprire meritano un riconoscimento ulteriore. Motivati dal loro quintetto che gioca un’ottima partita, rispondendo colpo su colpo a Milano, anche gli ultras brindisini sono autori di un tifo molto buono. Asciutti nello stile, con tantissimi battimani e cori secchi, offrono invece poco agli occhi dal punto di vista del colore, concedendo giusto una sciarpata sul finire di partita. La loro prova è da considerarsi senza dubbio positiva: sarebbe stato bello vederli nei giorni successivi allorquando avrebbero potuto contare su qualche effettivo in più, ma purtroppo la compagine brindisina ha ceduto a fil di serena agli avversari.

SCANDONE AVELLINO – Se guardassimo le cose da un punto di vista ultras ortodosso, Avellino sarebbe senza se e senza ma la migliore tifoseria del torneo, anche se ha potuto esprimere il proprio potenziale tutto e solo in una partita. Basterebbe solo guardare la composizione del gruppo, la prima linea, l’approccio al tifo per renderci conto che siamo ad un livello qualitativo che supera di gran lunga e ad occhi chiusi tutti quanti gli altri. Manate ripetute, secche ed imponenti, bei bandieroni sventolati continuativamente ed un tifo vocale che è di altissimo impatto per il campionario di cori e per come vengono tenuti alti a lungo. Sovrastano nettamente i loro dirimpettai ma da un certo punto in poi, snervati da una serie di decisioni arbitrali avverse, passano ad offendere la Lega e la classe arbitrale cedendo un po’ al nervosismo e perdendo in continuità. Fisiologicamente il calo ci sta, sarebbe stato inumano mantenere per tutti i quattro quarti il ritmo infernale dell’inizio. Finiscono per scollarsi molto nel finale, segnando anche qualche pausa di troppo che fa calare drasticamente la media del loro tifo. Perdono anche loro per un solo punto, ma subiscono molto a livello psicologico questa botta: arrivati alle finali come seconda in classifica, pensavano e speravano di raccogliere molto di più. A parte tutto, comunque, pur non avendo espresso il miglior tifo complessivo, sono stati per me la migliore tifoseria da un punto di vista ultras.

DINAMO SASSARI – Fra Quarti di finale e Semifinale hanno sempre subito moltissimo i propri avversari. In finale invece hanno trovato numeri maggiori e soprattutto migliore qualità nel tifo. Hanno riproposto in più occasioni una coreografia fatta di grosse bande di plastica bianche e blu fatte scendere dall’alto, a mo’ di copricurva. Durante l’arco delle gare hanno colorato il loro settore con tante bandierine dei Quattro Mori, simbolo della Sardegna, ma il loro sostegno vocale è stato molto altalenante: nei Quarti e in Semifinale è stato nettamente surclassato da quello degli avversari, ma hanno più o meno fatto la loro parte senza troppe remore, seppur con un po’ di discontinuità. Molto meglio, come già detto, in finale, dove hanno potuto contare su più effettivi e di migliore qualità sostanziale. In mezzo a loro s’è vista spesso la macchia bianco-rossa degli “Arsan” di Reggio Emilia, in un incrocio di sostegno fra amici.

REYER VENEZIA – Ero molto curioso di  vedere dal vivo il corso targato “Panthers” che, osservato sin qui solo a distanza, mi pareva muoversi su basi interessanti. Nei Quarti di finale hanno però avuto la sfortuna di ritrovarsi accoppiati a Brescia davvero in gran spolvero. Hanno fatto quadrato bene, hanno iniziato anche in maniera positiva ma poi si sono dovuti arrendere ai numeri soverchianti dei dirimpettai e al loro tifo davvero dirompente. Un paio di due aste, qualche bandiera, il solito Leone Alato, una bandiera greca, tanti battimani. Toccherà trovare altre occasioni per vederli, visto che anche in campo la Reyer soccombe a Brescia ed esce già al primo incontro.

LEONESSA BRESCIA – Se guardiamo solo la corrispondenza a determinati canoni ultras, Brescia non soddisferebbe tutti i requisiti. È una tifoseria molto genuina nella sua composizione, che annovera tanti giovanissimi, tanti padri di famiglia, tifosi attempati e donne. Al netto di questa natura così variegata, il loro tifo è stato invece la vera sorpresa di questa manifestazione, una clamorosa bomba vocale che, soprattutto nei Quarti, ha letteralmente fatto tremare il PalaFiera con la sua potenza e la sua continuità. Un po’ meno in Semifinale, dove l’esito della gara sul parquet li ha forse condizionati alla pari di una consistenza numerica che più che inferiore risulta invece frammentaria. Propongono anche loro più volte la stessa coreografia composta da un grosso copricurva, realizzano una serie infinita di battimani, qualche sciarpata più o meno riuscita ed una prestazione complessiva di tifo che, se facessimo gli esigenti dal punto di vista ultras, sarebbe inferiore solo agli avellinesi, ma se guardassimo più spensieratamente al solo livello vocale espresso, risulterebbe senza tema di smentita il migliore visto in questa quattro giorni riminese. Poco da dire, complimenti e basta.

Testo di Matteo Falcone.
Foto di Matteo Falcone e Gilberto Poggi.