Lettera di un tifoso bolognese scaturita da una trasmissione radiofonica su “Radio Rai Due” in cui si parlava di senso di appartenenza. In studio, uno dei conduttori, ha raccontato di aver cercato da ventenne questa “appartenenza” in una Curva e di averci trovato solo stupidità. Quella che segue è la risposta a tale banalizzazione, inviata anche alla stessa redazione della trasmissione, ma ovviamente invano.

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Sono nato a Bologna 31 anni fa, ma mio padre era originario di Barletta: una delle poche cose che mi ha lasciato è stata il senso di gratitudine e appartenenza nei confronti della Città che lo aveva accolto.

Fin da piccolo ho sentito forte questo senso di orgoglio identitario e, da adolescente, forse ho progressivamente idealizzato il legame affettivo nei confronti di “una comunità”: non avendo legami altrettanto forti con le persone, mi sono attaccato a un’idea.

L’amore per la squadra di calcio, il Bologna, è arrivato così, forte e incontrollabile come un riflesso incondizionato: amavo la mia città, non potevo non amare ciò che più di tutto la rappresentava.

Ho passato la mia adolescenza cercando di sentirmi “meno fuori posto” e accettato, ed è stato proprio sui gradoni dello stadio che ho trovato una seconda famiglia in grado di accogliermi.

Quando, nella scorsa puntata, avete letto un passaggio in cui il protagonista diceva di essersi sentito “imbecille” cercando un senso di appartenenza tra gli ultras e gli slogan urlati nelle curve, l’ho trovata una considerazione sinceramente banale, e ciò mi ha spinto a mandarvi una testimonianza, la mia testimonianza.

Ho cominciato a frequentare un gruppo ultras (il Gruppo Controtendenza Bologna) a 21 anni, nel 2004; in precedenza ero stato un “cane sciolto” che seguiva il Bologna senza far parte della tifoseria organizzata.

Insieme a questo gruppo di amici sono cresciuto, maturato, loro mi hanno accompagnato nei momenti migliori e peggiori della vita. Mi hanno spinto a migliorare, a raggiungere dei traguardi.

In questi 10 anni mi sono laureato in Ingegneria Nucleare e sto rincorrendo faticosamente un Dottorato di Ricerca, ho perso mio padre e uno dei miei migliori amici, ho trovato e cambiato lavoro, ho viaggiato, ho incontrato e -troppo spesso- perduto l’amore.

Sono e resto un precario, nella vita come negli affetti; una delle poche certezze è quella di far parte del mio gruppo ultras, della mia curva, di avere al fianco amici che non mi abbandoneranno e ai quali non rinuncerò mai.

E continuo a sentirmi orgoglioso di rappresentare Bologna, nella vita come nello stadio, portando uno striscione in trasferta o indossando la sciarpa rossoblu del mio Gruppo anche quando svolgo il mio lavoro di ingegnere.

Il mio “senso di appartenenza” l’ho trovato qui e tuttora mi ci aggrappo, in un mare di incertezze, a 31 anni come lo facevo a 20. 

L’ho trovato in una realtà vituperata e spesso demonizzata dai mezzi di informazione, che però rappresenta uno dei rari momenti di aggregazione di una società in cui il contatto umano (e collettivo) si va perdendo. 

In un mondo spesso troppo cinico e razionale, di persone interconnesse ma sole, in cui i sentimenti hanno meno valore di un post su Facebook, sono convinto che la passione -spesso esagerata e tale da portare a eccessi razionalmente ingiustificabili- degli ultras sia un valore da salvare, almeno parzialmente.

La Curva, il Gruppo Ultras, è ancora uno dei rari luoghi in cui le barriere sociali vengono abbattute: e gli ingegneri possono coesistere, vivendo sentimenti comuni al fianco di disoccupati, studenti, pregiudicati, professori.

Ultras è eccesso, contraddizioni, spesso è tutto da perdere e niente da guadagnare, ma è anche amicizia e sentimento. E’ romanticismo in un mondo di illuministi.

E’ amore, in un mondo che, purtroppo, dell’amore sempre più spesso non se ne fa nulla.

Per me è questo il senso di appartenenza: e in nome di quello che ho avuto, rifarei tutto nuovamente.

U.