Che cos’è la Coppa Italia? Quella coccarda tricolore è un sogno. Per pochi intimi. Soprattutto se si è abituati a quello che gli esperti chiamano “grande calcio”, anche se in Italia stride un po’ utilizzare ancora queste diciture. Dato che di grande e regale in questo sport è rimasto davvero poco. Sicuramente non i risultati.

Eppure la Coppa Italia sarebbe una competizione in grado di rilanciare l’interesse in maniera incredibilmente fragorosa. Lo diciamo da anni e risulta persino ridondante ricordarlo. Ma è così. Se in Italia i grandi club non avessero un diritto divinamente acquisito a doverla vincere, spesso per salvare stagioni fallimentari, forse vedremmo ben altri scenari. Non sarebbe certo difficile, penso che qualsiasi paese estero ci possa dare il buon esempio. “Torneo antisportivo”, la definì giustamente Sarri lo scorso anno, quando alla guida dell’Empoli venne eliminato proprio dalla Roma, con un rigore alquanto dubbio concesso ai giallorossi nei tempi supplementari.

Perché se non antisportiva, una competizione che prevede sempre e comunque la squadra più forte in casa, in un turno a eliminazione diretta e con le squadre blasonate che entrano in gioco soltanto dagli ottavi, cos’altro lo può essere? La Coppa Italia è la massima dimostrazione di come in Italia, non solo non si voglia far nulla per uscire dalla condizione di stallo mortale cui si è invischiato il calcio, ma si fa di tutto per renderlo sempre più uno sport a misura di grandi club. Non è un caso che persino scendendo di una categoria, dalla Serie A alla Serie B, si intuisca profondamente la differenza di concezione e modo di lavorare. Si arriverà, prima o poi, a un campionato simil NBA, senza retrocessioni (e di fatto già lo è, visto che le stesse sono passate da quattro a tre e generalmente le squadre che vengono declassate sono le stesse promosse l’anno precedente, troppo deboli economicamente e mediaticamente per mantenere la categoria) e a cui potranno partecipare esclusivamente top club (sempre per utilizzare un termine caro agli esperti).

L’unico aspetto positivo, in tutto ciò, è che di tanto in tanto qualche outsider riesce ad abbattere il muro della prepotenza delle “sorelle maggiori” e togliersi qualche sfizio. Portando i tifosi in palcoscenici storici e stimolanti, che ovviamente passeranno alla storia dei club di provincia, abituati spesso a darsi battagli su terreni spelacchiati e stadi di piccole dimensioni (ma sicuramente più caldi e passionali degli ormai asettici teatri della Serie A).

È il caso dello Spezia e dei suoi tifosi, che già nella passata stagione avevano potuto saggiare la Scala del Calcio, riversandosi in oltre 5.000 a San Siro. Quest’anno è Roma il premio per la passione infinita di chi gli aquilotti li ha seguiti anche nei campi infimi della Serie C. Premio valido anche per quelli che il Picco non sanno neanche dove sia, ma come facilmente immaginabile, in queste occasioni tutti vogliono salire sul carro dei vincitori. E da una parte è bello anche questo, se per un minuto riusciamo a uscire dalla logica del mondo ultras, che spesso si è incartata in assiomi come “tifoso occasionale porti male”, salvo poi  contestare dopo due sconfitte di fila come farebbe proprio l’occasionale qualunque. A onor del vero, anche queste cose vanno dette.

Dirimpetto a un Olimpico svuotato dalla protesta della Sud e dal vergognoso orario imposto dalla Lega (calcio d’inizio alle 14:30), si presentano 1.800 spezzini. Molti di loro, come raccontato in un articolo precedente, fanno il proprio ingresso in ritardo a causa degli asfissianti metodi di controllo dettati dallo sceriffo Gabrielli. Così il contingente ospite si compatta per intero quando il match è iniziato da qualche minuto. A tal proposito, mi si permetta di far notare come, facendo occupare ai tifosi liguri una parte della Curva Nord anziché il Distinto Ospiti come indicato sui loro biglietti, Questura e Prefettura siano contravvenute a quel regolamento d’uso dello stadio che le stesse hanno individuato come ragione sanzionatoria per diversi tifosi di Roma e Lazio che durante le partite dei loro club hanno occupato posti diversi da quelli riportati sui propri tagliandi. La domanda è: vi interessa far rispettare le regole, o punire le tifoserie organizzate per togliervele dai maroni? La risposta credo sia alla portata di tutti.

Inutile dire che gli ultras dello Spezia giochino in casa. Il direttivo della Curva Ferrovia, posizionato nella parte bassa, coordina il tifo con un seguito costante che si attesta attorno alle 5-600 unità. Tuttavia quasi sempre anche gli altri tifosi prendono parte ai cori e, oggettivamente, va riconosciuta la difficoltà nel gestire centinaia di persone che non sono solite frequentare spazi di stadio in cui si canta. I bandieroni sventolano incessantemente e un paio di bellissime sciarpate risaltano nel grigiore dell’Olimpico, assieme ai boati scaturiti dai cori a rispondere. Tanti i cori contro il Genoa.

In campo la partita è tutt’altro che bella, con uno Spezia perfettamente organizzato dal punto di vista tattico e una Roma brutta, pachidermica e priva d’idee. Il calcio, si sa, non è scienza esatta. E quando qualcuno prova a sfidarlo, gigioneggiando e pensando di andare in gol soltanto in virtù di un più alto tasso tecnico, ti punisce senza pietà. Così si va ai supplementari. E poi ai rigori. Alla mia sinistra vedo gli spezzini. Vedo tutte quelle facce (“migliaia di facce”, direbbe Nick Hornby) tirate e sconvolte dalla tensione. Va Pjanic sul dischetto, che con sciatteria e sufficienza sbaglia. Esplode la curva ospite. Segna lo Spezia e poi tocca a Dzeko. Sbaglia, nuovamente. Firmando un regalo tutto bosniaco agli avversari (un generoso regalo, sin troppo dal modo in cui i rigori vengono calciati) che non si fanno pregare. Non servono a nulla i gol di De Rossi e Digne, quando Acampora trasforma il quarto rigore esplode le festa dei tifosi bianconeri. Una gioia immensa e incontenibile, come giusto che sia.

Perché Spezia-Alessandria sarà un quarto di finale tra chi ancora sa sognare e vuol far sorridere il proprio pubblico. Sarà la celebrazione di quella provincia troppo spesso dimenticata in luogo di campioni strapagati, viziati e irrispettosi. Che pensano di avere tutto, sempre e comunque. Come le loro tronfie dirigenze. Ogni tanto, però, il pallone sa ancora regalarci quelle favole che ci hanno fatto innamorare da bambini.

Simone Meloni.