Turno infrasettimanale allo Stadio Olimpico dove di fronte si trovano la Roma di Garcia ed il Cesena di Bisoli. È una giornata fredda e qualche goccia di pioggia bagna la Capitale di tanto in tanto. Mettiamoci pure che la zona del Foro Italico, alle pendici di Monte Mario, è una delle più umide della città, ed ecco venir fuori forse una delle prime serate davvero invernali dell’anno.

Un tempo avrei atteso questa gara con grande curiosità. Un tempo, senza limitazioni, sarebbe giunta da queste parti una tifoseria colorata, numerosa e rumorosa. I cesenati erano così, ne ho sempre ammirato il saper essere uniti, aggregati e compatti nonostante, prima del ritorno in Serie A, fossero stati inghiottiti da anni di Serie C e risultati anonimi. Purtroppo è anche inutile inveire e rimpiangere ogni domenica ciò che è stato, si finisce con il vivere male il presente. Ma è al contempo difficile osservare uno stadio che, con una squadra che lotta per lo scudetto, stasera si presenta con tanti buchi vuoti, fatta eccezione per la Curva Sud. Ovvio c’è sempre la giustificazione dei prezzi totalmente sproporzionati (25 euro una Curva, 40 un Distinto, con il campo a quasi un chilometro di distanza) e del giorno lavorativo.

Sicuramente hanno influito gli ultimi risultati negativi, la sconfitta interna con il Bayern ed il pareggio esterno a Genova con la Sampdoria, ma non tiene come scusa. Sempre tuffandosi nella piscina dei ricordi ne riaffioro con istantanee di un Olimpico quasi pieno in partite inutili e che spesso facevano da proscenio ad una squadra in lotta per le zone basse della classifica e fautrice di un gioco a dir poco orripilante. Come non citare quella davvero tragicomica di Carlos Bianchi, stagione 96/97, ad esempio.

È cambiato molto, ed oggi il tifoso è pretenzioso, “stiloso” ed avvezzo allo snobbare un evento se la partita prima si è pareggiato. Tutto questo mi fa vivere il pallone con più distacco, spesso, brutto a dirlo, anche con un po’ di nausea. Non che uno debba vivere di rimpianti, sono dell’idea che occorre sempre cercare di trovare il buono e positivo di ogni situazione, ma poi l’obiettività non può e non deve mai venir meno. Ed obiettivamente come tifosi, italiani, siamo scaduti alla grande. Non solo a livello ultras, ma proprio di attaccamento e modo di vivere gli spalti.

Sembra quasi, a volte, che abbiamo dimenticato le battaglie per il caro biglietti, contro la repressione e per un calcio diverso. Mi scuso con chi ci crede, ma mi viene quasi da ridere nel pensare agli striscioni ed ai motti che si coniavano fino a qualche anno fa se un biglietto veniva a costare cinque euro più del solito o la squadra indossava una maglia che con i colori sociali poco c’entrava. Oggi siamo entrati nell’era del “Vabbè, basta che si vince”. Che poi spesso questi traguardi neanche arrivano. Però, in nome del business e del merchandising (manco entrassero nelle nostre tasche questi soldi…), è ormai vietato protestare. Allora tendenzialmente facciamo silenzio se una curva costa 40 euro, se la nostra squadra è biancorossa e si veste di neroverde, oppure se mano a mano ci tolgono ogni piccolo piacere di andare allo stadio. Abbiamo accettato ogni scempio di quello che tanto ci piace definire calcio moderno. Anzi, ne siamo tra gli ingranaggi più oleati e funzionali. Inutile atteggiarsi con una ribellione adolescenziale che viene facilmente sedata dal primo scappellotto della mamma.

Il Roma-Cesena di oggi, come la maggior parte delle partite dal calcio professionistico, è un qualcosa di standardizzato. Che chi riesce ancora ad avere il sacro fuoco della passione pura che brucia dentro, magari vivrà pure bene, ma io, che questo fuoco ce l’ho per carità, ma vive in un perenne rischio di finire l’ossigeno attorno, la vivo con una certa distanza che mi mette quasi paura. Perché per il calcio davvero ho sofferto, gioito, vissuto emozioni intense e difficilmente paragonabili.

Guardo poi la partita sul terreno di gioco. Uno spettacolo non di certo edificante. Una Roma che, forse ancora sotto shock per la batosta interna con il Bayern, arranca e non poco contro un avversario modesto. Una modestia che ormai si è impadronita della Serie A. Passaggi elementari sbagliati, errori d’impostazione tattica, gioco lento, macchinoso e noioso. Sembrano lontani anni luce i tempi in cui la nostra massima divisione si guadagnava l’appellativo di “campionato più bello del mondo”. Alla fine la spuntano i padroni di casa con un 2-0 che porta le firme di Destro e De Rossi. Forse il momento di maggior entusiasmo arriva a partita finita, quando da Marassi arriva la notizia del gol di Antonini con cui il Genoa stende la Juventus. Una bella, sana e sfrenata esultanza che quanto meno mi ridà il senso della misura. Ma è ancora troppo poco per tornare a sentire tutto ciò mio.

Testo di Simone Meloni.
Foto Cinzia “La mia Roma”.