Le bancarelle del mercato lasciano lentamente il piazzale antistante lo stadio Partenio. È il sabato prima di Pasqua e Avellino è letteralmente congestionata dal traffico di chi, all’impazzata, corre a destra e a manca per comprare gli ultimi regali e le ultime pietanze da mettere in tavola il giorno dopo. Il tempio calcistico della città irpina si prepara ad ospitare il Crotone, primo della classe. Così, pian piano, ai mercanti vanno sostituendosi tifosi con sciarpe biancoverdi.

Non ci sarà sold out. Come non c’è, ormai, in quasi tutti gli stadi d’Italia. I campani occupano attualmente il centro classifica e sono reduci dalla sconfitta interna con la Ternana, che ha fiaccato ancor più il tifoso medio, solito frequentatore delle gradinate quando le cose vanno bene. Succede ovunque, ma negli ultimi anni è stato un aspetto caratterizzante del nostro calcio, un tempo esempio massimo di attaccamento e passione, dalla Serie A alla Terza Categoria. Inutile star qui ad analizzare i motivi di questi mutamenti, lo abbiamo fatto centinaia di volte tornando a battere sempre sulle stesse cose. Dalla repressione, al carobiglietti, passando per strutture spesso inadeguate e fatiscenti.

Il Partenio, come detto, resta uno dei templi del pallone. Testimone di un passato glorioso, che ha visto la sua erba calpestata da veri e propri mostri sacri della Serie A. Maradona, Zico, Platini, Falcao, Rumenigge. Solo per dirne alcuni. Quando penso ai biancoverdi mi vengono inevitabilmente in mente quelle cassette VHS con cui sono cresciuto sul finire degli anni ’90. I servizi di 90esimo Minuto degli anni ottanta e quelle maglie verdi con la scritta bianca Iveco. Indubbiamente Avellino, come Ascoli, Pisa, Cesena e Catanzaro, è uno dei massimi emblemi della provincia protagonista negli anni d’oro del calcio italiano.

Negli ultimi anni i Lupi hanno ritrovato una loro stabilità in cadetteria, dopo un sali e scendi con la Serie C che aveva caratterizzato lo scorso decennio. Come raccontato altre volte, assieme a questo assestamento, una nuova generazione di ultras ha popolato la Curva Sud, crescendo di anno in anno, fino a divenire una realtà alquanto spumeggiante che, per alcuni aspetti, soprattutto quelli folkloristici, ricalca il passato, ma che ha saputo anche ritagliarsi uno spazio importante nel movimento ultras dei giorni d’oggi. Ovviamente quando c’è un importante ricambio generazionale, soprattutto successivo a un fallimento societario, sono tanti gli scenari a cambiare. C’è chi lascia per sempre, chi riesce ad avere la forza di riprendere un certo discorso e chi, alle prime armi, comincia a seguire la compagine cittadina volenteroso di intessere l’affascinante discorso curvaiolo.

Avellino-Crotone, per molti sportivi irpini, non sarà mai una partita qualunque. Il ricordo torna, inevitabilmente, alla stagione 2002/2003, e all’invasione biancoverde dello stadio Ezio Scida nell’ultima giornata di campionato. Quindicimila supporter invasero la città pitagorica per festeggiare il ritorno in Serie B dopo sette anni di purgatorio.

Oggi gli scenari sono cambiati, e i calabresi non fanno più da sparring partner, bensì raggiungono la Campania da primi della classe, con un piede e mezzo in massima divisione, visto il cospicuo vantaggio accumulato sulla terza. Un campionato che potrebbe così assumere un significato storico, con i rossoblu che sarebbero il terzo club calabrese, dopo Catanzaro e Reggina, a disputare un torneo nel gradino più alto della piramide calcistica italiana. In tempi come questi bisogna soltanto augurarsi che, se così fosse, i sapientoni di turno non si inventino limitazioni e postille per non far giocare il club nella sua sede naturale, vista la capienza minuta dello Scida.

Faccio il mio ingresso allo stadio un quarto d’ora prima del fischio d’inizio. Se il pubblico scarseggia nelle due tribune, altrettanto non si può dire per il cuore del tifo biancoverde, che presenta comunque un ottimo colpo d’occhio. Per l’occasione gli ultras avellinesi espongono un lungo striscione per Matteo, bimbo di soli undici anni affetto da una rara patologia, da tempo supportato dai tifosi irpini e oggi presente sugli spalti. Di contro, nel settore ospiti, predono posto circa 300 tifosi calabresi che, aiutati da un tamburo, rumoreggiano già prima dell’inizio.

Per quanto riguarda i pitagorici, sfoderano una prestazione inappuntabile, tanta voce, tanto movimento e mani tenute sempre belle in alto. L’unico appunto che mi sentirei di fargli è quello legato ai numeri, con la squadra in vetta al campionato era lecito aspettarsi qualcosina in più, anche in tempi di magra come questi. Detto ciò, ho apprezzato molto lo spirito con cui hanno affrontato la partita, un sostegno caratterizzato da un’intensità rara ormai da riscontrare nelle tifoserie italiane, sicuramente l’entusiasmo per il momento magico aiuta tanto, ma Crotone può vantare su una tradizione ultras tutto sommato ben radicata e foraggiata dall’ascesa calcistica degli ultimi venti anni. Tanti, poi, i cori ostili scambiati con i dirimpettai, a testimoniare una rivalità magari non di primo piano, ma sentita da ambo le parti.

Per quanto riguarda gli avellinesi, la Sud parte subito con un suo cavallo di battaglia. Una sciarpata eseguita in onore di Matteo, che colora la curva in maniera compatta, formando un vero e proprio muro biancoverde. Come mi dico sempre in questi casi, per colorare i settori basterebbe davvero poco. Al netto di divieti e limitazioni, portare sciarpe e bandiere è, fino a prova contraria, ancora consentito. Il problema è che se ne è persa la cultura. Spesso, l’ultras del 2016, pensa più ad abbellirsi con il proprio vestiario che a colorare la sua casa. E questo, a mio modesto parere, rappresenta uno dei motivi del declino curvaiolo degli ultimi anni.

Sta di fatto che la prestazione degli irpini è più che positiva. Voce, manate e cori a rispondere si accavallano praticamente fino al novantesimo, nonostante una partita soporifera, che alla fine regala uno zero a zero che va bene a entrambe le formazioni. Il Crotone esce indenne dal Partenio e l’Avellino, sulla cui panchina in settimana si era insediato Marcolin, smuove la classifica fermando un’avversaria di rango. Le due squadre raccolgono il saluto dei propri tifosi e poi si ritirano negli spogliatoi, mentre lo stadio sfolla abbastanza velocemente.

Anche io devo andarmene abbastanza celermente. Gli ultimi rullii di tamburo mi salutano, le opposte fazioni si stanno amichevolmente dando il commiato. Mi guardo attorno e vedo pochi steward e un ambiente disteso. Qui, come in altre piazze, si può ancora pensare minimamente di vivere il calcio con passione e un briciolo di irrazionalità. E questo non è aspetto da poco, in un momento storico triste e grigio, in cui divertirsi e lavorare di fantasia sta diventando sempre di più sinonimo di disagio sociale o, peggio ancora, opera per pochi intimi. Spesso ritenuti ai margini della legalità perchè non rispettosi di quel rigore sociale che tra qualche anno ci renderà meri spettatori di smartphone, pay tv e programmi per vedere il calcio in streaming. A quel punto per me i giochi saranno chiusi, e mi darò alla cronaca dei tornei di bocce tra popolazioni Inca delle Ande peruviane.

Simone Meloni