Percorrendo la strada che si inerpica sulle montagne sovrastanti Lamezia Terme, tutto d’un tratto si apre davanti agli occhi il suggestivo contrasto tra la piana che digrada verso il Golfo di Sant’Eufemia e il centro abitato di Nicastro, con la sua Rocca San Teodoro abbarbicata ai piedi del castello (di cui tutt’oggi si discute sull’origine bizantina o normanna), pittoresco con il calar delle tenebre, quando centinaia di luci ne illuminano case e viuzze, facendolo sembrare parte di un presepio. Questo luogo, sconosciuto ai grandi circuiti turistici, è uno di quelli che ha visto passare millenni di storia e civiltà sulle sue strade e nei suoi anfratti. Nicastro, protetta e accresciuta da svevi e normanni, è stata per anni fiore all’occhiello di Federico II, che ne apprezzava i boschi circostanti per la caccia e che ne fece ristrutturare il Castello, dove – ironia della sorte – successivamente farà rinchiudere suo figlio (fino alla morte) accusato di congiura nei suoi confronti. Ma questo fazzoletto di terra è anche l’epicentro di una delle calamità naturali che più hanno sconvolto la gente e la morfologia del popolo calabrese, vale a dire il grande terremoto del 1638, ricordato ancora oggi come un vero e proprio spartiacque della storia locale.

Mentre scrivo questo articolo mi trovo in una fredda e poco luminosa stanza di ostello a Vienna, con il cielo livido fuori dalla finestra e un’aria che annuncia pioggia. Praticamente l’antitesi delle foto correlate a questo pezzo e ai ricordi, tutto sommato recenti, di questa domenica calabrese. Arrivare da queste parti è innanzitutto un piacere per la vista, che durante il viaggio in treno si riempie con il blu del mare ancora frequentato da bagnanti e turisti da una parte e con la propaggine finale dell’Appennino che costituisce una barriera tra la Calabria jonica e quella tirrenica, dall’altra. Uno dei tanti motivi per i quali, in passato, la zona che oggi ricade sotto il comune di Lamezia Terme, veniva considerata salvifica in termini di salute, era la presenza delle terme, site in zona Caronte, risalenti ai primi insediamenti sul territorio e tutt’oggi punto d’interesse e patrimonio naturale. Un legame indissolubile con un passato che ha visto nascere i primi insediamenti nel VI sec. a.C., quando i greci fondarono a ridosso dell’attuale Sant’Eufemia la città di Terina, che molti ritengono la vera e propria madre di tutto lo sviluppo antropologico dell’intera area. Tracce così piene e solide della presenza umana e della fertilità di un territorio tra mare e montagna sono i tantissimi mulini – molti abbandonati, ma molti di recente ristrutturazione – che per secoli hanno prodotto pasta e pane, rimarcando ancor più quanto l’elemento essenziale dell’acqua (come per le terme) sia onnipresente in una regione dove basta fare pochi metri delle sue strade d’altura per imbattersi in fonti naturali e gelide che riconducono ai primordiali bisogno di vita!

Terra di contraddizioni, di emigranti, di gente tosta e spesso schiva, di sole che brucia la pelle anche in ottobre, di colori rigogliosi che sgorgano dalle sue viscere, di stradine che si perdono spesso negli uliveti o in sterminati campi. Per capire la Calabria e le sue varie anime non è sufficiente trascorrere una vacanza sulle sue coste o tagliarla in due con la Salerno-Reggio Calabria. Occorre guardarla e superare il filo spinato della sua gente ma anche della sua conformazione morfologica. Due estati fa ne ho percorso l’anima montuosa in bicicletta, dormendo in tenda sulle sue vette e nei suoi comuni, dovendo giocoforza interfacciarmi con tutto quello che essa offre, tastando con mano ogni centimetro di strade, mulattiere e sentieri disastrati. Ecco perché da quel momento non posso che averne un’idea molto più completa e scevra da pregiudizi o stereotipi di cui il nostro Belpaese – nel bene e nel male – si perde a volte in modo infantile. Il calcio è espressione di un popolo e della sua gente. Di pregi e difetti. Di esagerazioni e simpatici siparietti. Aspetti che si ritrovano appieno anche a queste latitudini e in particolar modo nel modo di vivere ultras: mai sovraesposto e mai alla ricerca di vana pubblicità, eppure sempre presente e autore di importanti pagine di storia sulle gradinate. Insomma: vivo e sempre attento nel rimanere sui suoi binari, malgrado tanto fango da mangiare e malgrado sia sempre difficile avere un ricambio generazionale quando la squadra seguita finisce per giocare nelle divisioni più basse e il contesto sociale sovente obbliga a lasciare il suolo natio per cercare fortuna altrove.

Qualche stagione fa fa ebbi modo di assistere a questa stracittadina in casa del Sambiase (era il campionato di Eccellenza e i giallorossi, che oggi disputano le loro gare interne al D’Ippolito, ancora giocavano nel loro stadio), potendone raccontare l’ambiente ma anche le varie e complicate sfumature di un contesto sociale e cittadino particolare come quello di Lamezia Terme. A distanza di tempo fa piacere ritrovare le due espressioni calcistiche locali nel massimo campionato dilettantistico, di fronte a una degna cornice di pubblico e in un girone che dà a entrambe la possibilità di confrontarsi con piazze storiche e valide del contesto campano, calabrese e siciliano. Ma soprattutto per me è la prima volta nell’impianto che storicamente ospita le gare della Vigor, compagine storica del calcio meridionale, nata il 1 ottobre 1919 come Vigor Nicastro e, in seguito a uno dei tanti fallimenti, ricostituita nel 1977 con l’attuale nome, voluto per evidenziare anche nello sport l’unione dei tre comuni (Nicastro, Sambiase e Sant’Eufemia) che il 4 gennaio 1968 diedero vita all’attuale Lamezia Terme.

Un nome, un simbolo e una volontà che danzano sul filo conduttore dei colori biancoverdi e che hanno come padri fondatori, riconosciuti e ricordati in ogni anniversario, i fratelli Baccari, i quali all’inizio del secolo scorso fecero conoscere alla cittadinanza nicastrese le prime palle di pezza, cucite a mano dalle signore o fatte con calze da donna riempite di stracci, e i primi “pallisti”, così all’epoca venivano chiamati i calciatori. Forse in pochi potevano immaginare che da lì a poco il football (chiamato ‘u fubbilli in dialetto) sarebbe divenuto uno dei più grandi fenomeni di aggregazione e coinvolgimento delle masse mai partorito dall’essere umano. E in una piazza così difficile, dove la stabilità delle varie dirigenze e dei vari sodalizi avvicendatisi, è sempre stata una difficile alchimia, ciò che ha funzionato da collante e da spinta propulsiva è stata sicuramente la voglia degli ultras di tramandare e far rimanere vivo quel senso di appartenenza legato a personaggi e storie. Cosa non facile, cosa non scontata. Parliamo di una tifoseria da sempre ruvida, poco incline allo “zucchero” e votata all’intransigenza in molti aspetti del suo essere. Ciò vuol dire che ha concesso pochi spazi nel suo cuore e nella sua intimità, uno di questi è senza dubbio riservato all’ex portiere Massimo Budelacci, cosentino di nascita ma lametino di adozione. Una bandiera che in più occasioni ha difeso a spada tratta la maglia della Vigor negli anni novanta, finendo in riva al Golfo la sua carriera e legando alla stessa aneddoti e storie scolpite nella mente di ogni tifoso; un po’ come quando venne espulso e, invece di prendere la strada degli spogliatoi, preferì scavalcare la rete che divide il campo dagli spalti, finendo per avere una colluttazione con i carabinieri preposti al servizio d’ordine!

Con i suoi 67.000 abitanti Lamezia Terme è il quarto comune della Calabria e sebbene sia, come buona parte del Sud, falcidiato dal fenomeno dell’emigrazione, è stato per anni anche un significativo laboratorio per alcune sottoculture, tra cui quella ultras. Come tutta la parte dello Stivale “dalla cintola in giù”, anche qua i primi gruppi minimamente organizzati si intravedono sul finire degli anni ottanta. Sugli spalti del D’Ippolito appaiono le sigle della Brigate Biancoverdi, degli Ultrà Lamezia e de I Ragazzi della Est. Gruppi che tentano di animare le tribune ma che ancora vivono in maniera “pacata” e rudimentale la propria fede, sicuramente distante dalla mentalità e dal modus vivendi che qualche anno dopo cambieranno radicalmente il tifo biancoverde, con la nascita del Nucleo nel 1992. All’inizio Nucleo Sant’Eufemia – perché originario dell’omonimo quartiere – quasi subito, grazie all’ingresso di gente proveniente da Nicastro e Sambiase, si trasforma semplicemente in Nucleo, tracciando un vero e proprio solco con il passato e divenendo uno dei gruppi più tosti e rispettati della regione, che sin dalla sua alba si impone di dare una sterzata epocale al settore, radicalizzando la militanza e cercando sempre di esaltare il nome della città e della propria tifoseria dentro e fuori gli stadi. Anni in cui gli ultras biancoverdi si confrontano con buona parte delle realtà calabresi (con cui, praticamente, i rapporti sono quasi sempre turbolenti, cominciando dalle storiche battaglie campali con Crotone e Rossano o dagli arresti subiti a Cirò nel 1996) e in cui nascono amicizie storiche e ancora in vita: su tutte quelle con la Masseria di Napoli, gli ANR del Catania (oggi esistono ottimi rapporti con l’attuale Nord etnea), le Teste Marotte, Ottavio Barbieri e il Gruppo Quinto del Genoa e gli Ultras del Milazzo. Anni in cui, ovviamente, non mancano scontri e tensioni anche al di fuori della regione, in particolare con gli ultras igeani – rivalità incendiata dal gemellaggio con i milazzesi – e con i sancataldesi (occasione in cui i lametini subiranno diversi arresti tramutati poi in reclusione), mentre tensioni si registrano anche con cassinati e latinensi, in Serie C.

Chiaramente in tema rivalità, una pagina a parte la merita quella con Catanzaro. Un astio che nasce al di fuori delle gradinate e che si lega a un discorso politico e sociale, dovuto all’impossibilità di essere autonomi dal capoluogo – come successo, ad esempio, a Vibo Valentia e Crotone – malgrado un’oggettiva importanza, non solo per numero di abitanti, ma anche per strutture e nodi della viabilità (basti pensare a quanto siano vitali l’aeroporto e la stazione ferroviaria di Sant’Eufemia). Come spesso accade, dunque, il tutto si riflette sul manto verde e tra tifosi, che in più occasioni danno vita a derby incandescenti ed episodi ben sopra le righe.

L’oltranzismo del gruppo (come dimenticare lo stendardo Estetica d’Azione, che ben fotografava la loro mentalità), con l’avanzata della repressione, non può che costar caro ai suoi componenti, in termini di diffide e repressione, così come i problemi relativi al ricambio generazionale di fronte cui gran parte dei gruppi italiani si ritrova a metà anni duemila. Nel 2006 il Nucleo ripone il proprio striscione, ponendo fine a quattordici anni di onorata militanza e dividendosi inizialmente in due tronconi: da una parte ci sono quelli che il 13 gennaio 2008, in occasione del derby col Catanzaro, daranno vita all’attuale Collina Non Autorizzata (CNA), i quali decidono di viaggiare con lo stendardo No alla Tessera del Tifoso, dall’altra un manipolo si riconosce dietro alla sigla Ultrà Lamezia, che tuttavia avrà breve durata. Nel 2015 la società viene retrocessa in Serie D dopo lo scandalo Dirty Soccer, retrocedendo l’anno successivo in Eccellenza e fallendo definitivamente nel 2017, costringendo la città a ripartire dall’inferno della Terza Categoria. Per gli ultras sono ovviamente anni difficili, dove si fatica ad avvicinare i più giovani e in cui soltanto la fede e la mentalità possono tenere vive la fiammella ultras. In questo periodo si forgia ancor più il progetto CNA. Un nome che ancora una volta rispecchia perfettamente il modus vivendi dei lametini. La collina in questione, infatti, è quella dove ogni domenica si ritrovano i diffidati, mentre il riferimento al diniego di qualsiasi autorizzazione conferma la volontà del gruppo di portare avanti quel modo “ruvido” e lontano da qualsiasi rapporto con le istituzioni che ne ha segnato l’anima dal 1992 in poi. Curiosità: dalla suddetta collina, nel suddetto derby con il Catanzaro datato 2008, partirono le cariche che diedero vita agli incidenti con i dirimpettai. Un luogo che, dunque, racchiude l’essenza, anche in termini di memoria storica, di questo gruppo ultras.

Il ritorno in Serie D, dopo anni di stenti e difficoltà ha restituito entusiasmo, come dimostrano i numeri portati negli ultimi due anni (meritevole di menzione la trasferta di Bisceglie, nella finale playoff di Eccellenza persa due anni fa) e anche diversi giovani cominciano ad avvicinarsi, sfruttando l’onda lunga di stagioni infernali in cui lo zoccolo duro non ha mollato e – pur giocando in campi parrocchiali o dell’estrema periferia – è riuscito a radicar ancor più la propria presenza, grazie a gente con una importante storia di curva alle spalle, che in altri ambiti avrebbe tranquillamente potuto mollare. Non è un caso, pertanto, imbattersi oggi in un bello stuolo di ragazzi, ragazzini e “vecchietti” impegnati a vendere il materiale del gruppo, bere e scambiare chiacchiere nei baretti posti a poche centinaia di metri dall’ingresso dello stadio. La fase più dura è probabilmente passata e oggi, chi ha conosciuto il freddo e l’inverno delle categorie regionali, può minimamente godersi la rinascita e continuare a lavorare affinché le nuove generazioni prendano in mano il futuro del tifo lametino. La Vigor è di nuovo in Serie D, una categoria che permetterà ai suoi tifosi di varcare i confini regionali, ma anche di rivivere vecchie rivalità, seppure con tutte le limitazioni dell’epoca balorda che viviamo, in tal senso.

Quando mancano una quarantina di minuti al fischio d’inizio, gli ultras si raggruppano sulla strada per dar vita a un corteo che apre, di fatto, la sfida odierna. Una piccola camminata scandita da cori e battimani che si protrae a ridosso dei cancelli di entrata, con polizia e carabinieri che guardano attentamente il passaggio dei supporter. Sulla carta non esiste una vera e propria rivalità tra le due fazioni, anche perché parliamo di due storie ultras e calcistiche veramente lontane e differenti; inoltre per tanti la Vigor continua a rappresentare la compagine cittadina nel senso unitario del termine e al massimo l’acredine si può ridurre a uno sfottò. Quindi non c’è alcun pericolo di tensioni: ai tifosi sambiasini sono stati riservati alcuni pullman di linea per portarli dal loro quartiere allo stadio, dove occuperanno la curva generalmente destinata agli ospiti. Sono previsti circa quattromila spettatori, numeri importanti per una Serie D, che ancora una volta lasciano trapelare la fame di pallone che esiste da queste parti. Unico settore a rimanere chiuso è la Curva Nord, che in teoria dovrebbe diventare a breve la casa degli ultras biancoverdi, cosa che li aiuterebbe, e non poco, nell’organizzazione del tifo, aspetto attualmente difficoltoso in una Gradinata Est che è praticamente un rettilineo con qualche gradone che poco favorisce una disposizione compatta.

Il sole picchia forte e l’odore dell’erba appena irrigata penetra possentemente nei polmoni. I sambiasini si assiepano dietro alle pezze degli Ultras ’01, intenti a preparare l’accoglienza in campo con bandiere, bandieroni e stendardi, mentre, come al solito, gli altoparlanti irrorano musica spacca timpani, annientando ogni tentativo di farsi sentire da parte delle due tifoserie. Ormai alcune sfumature americane hanno preso piede anche nelle categorie non professionistiche, ahinoi! Al netto di ciò è comunque bello vedere gli spalti riempirsi, con la tribuna coperta colma anche sulle scale e sui ballatoi e quel senso di “popolo” che si avverte piacevolmente: una partita del genere è l’occasione per scorgere tra i presenti anche chi di calcio ne mastica poco ma è affascinato dal confronto “interno”. Giro in tondo il perimetro del campo, per prendergli le misure e capire da dove sia meglio scattare, arrivando alla conclusione che, almeno i primi dieci minuti, me li concederò dalla visuale rialzata della tribuna, per poi tornare dentro, contribuendo alla gioia immensa del commissario di campo (sic!).

I ventidue giocatori sbucano dal tunnel degli spogliatoi. Alla mia destra i sambiasini colorano il proprio settore con tantissime bandierine a scacchi, mentre i lametini hanno già cominciato a carburare con cori secchi e potenti, seguiti dallo sventolio di molteplici vessilli. Complessivamente davvero un bell’impatto visivo, uno spot per la categoria. Da spettatore neutro devo dire che, una volta tanto, è anche bello imbattersi in due modi diversi di concepire il tifo: prettamente all’italiana quello degli ospiti, con il tamburo a dettare i ritmi e i cori tenuti a lungo, più in stile britannico quello dei padroni di casa, che alternano bei boati secchi a battimani e sbandierate. In un mondo ultras quasi sempre omologato in termini di stile e cori, è senza dubbio stimolante veder confrontarsi cotante differenze, un po’ come avveniva in un passato lontano nella percezione ma non poi così lontano nella cronologia. In campo, di contro, la partita non è propriamente esaltante e infatti si trascinerà su uno scialbo 0-0, complice anche il caldo asfissiante che a più riprese mette in difficoltà gli atleti. Un risultato che comunque riscuote il plauso di ambo le fazioni, con le squadre che vanno sotto ai propri settori prima di riconquistare gli spogliatoi. La giornata calcistica sta per termine e gli ultras cominciano a ritirare gli striscioni. Anche per me è tempo di sistemare l’attrezzatura e cominciare riprendere la strada d’uscita.

Una leggera brezza fresca, proveniente dalle spiagge ancora movimentate di Gizzeria, comincia a spazzare la collina di Nicastro. A breve il sole verrà inghiottito dal Tirreno e per capire dove sono Capo Suvero e Capo Vaticano – i due estremi del Golfo – occorrerà osservare le luci e la piega curva che prendono all’orizzonte. Il pallone, ancora una volta, dà l’opportunità di entrare in un territorio e coglierne diversità, sfumature, contraddizioni e storia. Penso a quanto avrei perso se non avessi conosciuto e frequentato questo mondo. Pensa a quanto la mia vita – ma anche quella di molti altri – sarebbe stata piatta e priva di alcuni irrinunciabili sussulti. Anche nei loro risvolti grotteschi, sia chiaro! Il treno, ancora il treno, sempre lui nella mia vita, risale la costa dello Stivale e ancora una volta sfrutta la Calabria e il suo balcone “azzurro” per ricordarmi la vocazione che Madre Natura ha generosamente regalato alla nostra terra ma anche la cattiveria che troppo spesso gli uomini ci hanno messo per rovinarla. Comincio a elaborare quanto visto e quanto sentito, sapendo giù che ci vorranno giorni, settimane, prima che lo metta per iscritto. Ma va bene, ho fatto della lentezza un mio cavallo di battaglia. E più il mondo andrà veloce, più mi rifiuterò di essergli al passo. Fine di questa giornata. Fine di un altro pezzo di storia.

Simone Meloni