Rafael e Fernando Di Zeo, Mauro Martín, Maximiliano Mazzaro e Richard Fernández erano amici: giocavano a calcio nel terreno della Casa Amarilla (1) e condividevano i più di 300mila pesos che gli ultrà del Boca incassavano ogni mese. La storia della 12 è attraversata da favori, però, soprattutto, dal tradimento. Gustavo Grabia, giornalista e massimo esperto delle organizzazioni ultrà in Argentina (2), si immerge in questo mondo di delinquenti socialmente ben visti che non hanno problemi a colpire alle spalle chi un tempo salvò loro la vita.

Maximiliano Mazzaro è zuppo di sangue, però Fernando Di Zeo sa che non può chiamare l’ambulanza senza dare spiegazioni, senza spiegare quelle cose che un barrabrava non può spiegare. Si abbassa, carica il corpo dell’uomo con la maglietta del Boca e lo porta fino all’ospedale Argerich, a sei isolati di distanza.

È una domenica particolare del novembre del 2004. La temperatura dovrebbe essere più moderata però Dio, i cambiamenti climatici o la stessa realtà argentina, trasformano questo mezzogiorno in un inferno.

Mancano appena quattro ore all’incontro River-Boca nel Monumental. E Fernando chiede a Mazzaro di tenere duro, che manca poco, che è stato peggio quella volta che lui si è beccato una pallottola nell’occhio durante il superclassico del 2000 a Mar del Plata.

È la tredicesima giornata del Torneo Apertura e nella 12 (3) giurano: «Oggi roviniamo il campionato alle Galline (4)». Il River combatte in cima alla classifica con Newell’s e Vélez; e il Boca sta ancora soffrendo per l’abbandono di Carlos Bianchi e con Miguel Angel Brindisi al comando naufraga nella tempesta del calcio domestico.

È, in più, una buona giornata per fare soldi. Per questioni di sicurezza al Boca hanno concesso solo 4.500 biglietti. 1.500 sono andati alla barra, che poiché entra gratis li rivende a prezzi stratosferici.

Però poco prima, al momento di fare i conti, Mazzaro, capo della fazione che viene da La Matanza – con fluenti contatti con la polizia Bonaerense (della provincia di BsAs, ndt.), con politici e lider importanti dei picchettatori – ha ricevuto una richiesta da parte di Juan Castro, capo della sezione Moreno, affinché abbassi il prezzo degli ingressi. Alcuni potrebbero chiamarla richiesta, altri la chiamerebbero minaccia.

Nel mezzo della discussione, quando stava entrando il terzo pullman dei 14 che formano la carovana, Castro ha tirato fuori un coltello e glielo ha piantato a fondo, all’altezza del rene sinistro.

E fu così che i fratelli Di Zeo, Fernando e Rafael, che gestiscono con pugno di ferro la 12 da otto anni, arrivarono subito. Rafael si fa carico di calmare la situazione. Fernando, sta trasportando Mazzaro. Il capo del gruppo de la Matanza non parla. Forse sta pregando. Magari sta negoziando se andare in cielo o all’inferno per tutti i peccati commessi a La Boca e dintorni.

Una settimana dopo, uscirà dall’ospedale. L’unico segno che gli rimarrà è una cucitura sul corpo. Castro sarà cacciato dalla barra. Sarà il secondo favore che i Di Zeo faranno a Mazzano. Il primo è stato salvargli la vita.

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Nella Boca, il pomeriggio del sabato 25 febbraio del 2006 si riesce a sopportare solo con una sciacquettata nella piscina. Mauricio Macri, presidente del club e oggi capo del governo della città, è lontano, forse sta nel suo conutry, forse è a Punta del Este. Mentre alcuni stanno facendo il fuoco per l’asado, in Casa Amarilla la barra brava gioca a calcio.

Rafael di Zeo usa il 9 e gli passano la palla come quando Menem giocava nella nazionale: la mancanza di dribbling del capo non si discute.

Sulla linea di gesso c’è un labbruto che gioca per la squadra dei Di Zeo, per adesso è il figliol prodigo del capo. La pecora nera della famiglia: fratello di Gabriel, allenatore di boxe di Rafael nel club Leopardi e uno dei protagonisti di questa storia che cominciò quando lui, Mauro Martín, venne arrestato per avere rapinato un supermercato cinese nel quartiere. La famiglia, come in ogni cosanostra che si rispetti, chiese aiuto al capo del Boca. Rafael gli mise dietro un avvocato di fiducia, chiamò chi si doveva chiamare e la facciata della causa cambiò: sulla carta, il cinese del supermercato passò dall’essere stato rapinato con violenza ad avere sofferto un tentativo di assalto con un’arma giocattolo.

Mauro uscì di prigione e come Rafael vide in lui la stoffa, se lo portò con sé al campo. Senza saperlo, perché così si fanno questo tipo di cose, stava allevando il suo proprio Giuda.

Ma questo si vedrà in un secondo momento. Questo pomeriggio di febbraio c’è la partita e nessuno sa cosa sta per succedere. Non pensano a Marcelo Aravena, capo della fazione della 12 di Lomas de Zamora, che mesi prima è uscito di prigione dopo avere scontato 12 anni per il crimine di due tifosi del River (Angel Delgado e Walter Vallejos) nel 1994. Non pensano al fatto che al posto di Aravena adesso c’è Mauro. Né al fatto che i seguaci di Mauro hanno messo ko quelli di Aravena quando hanno provato ad avvicinarsi a La Boca. Non pensano a questo perché il sole sta scendendo piano piano, mancano 20 minuti alle 8 e la partita è cominciata da appena mezz’ora.

Sulla via Del Valle Iberlucea, a metri da Villafañe, parcheggiano un Volkswagen d’alta gamma e un pick up. I sei uomini che scendono sono armati. Uno imbraccia un fucile a canne mozze. È questione di pochi secondi e la guardia di sicurezza finisce a terra mentre loro entrano nella proprietà come un commando. Il Gordo Ale, che non gioca ma sta seguendo la partita dei suoi amici dalla tribuna, li vede e grida.

Gli ultrà della 12 non sono più giocatori ma fuggitivi che cercano di salvarsi la vita mentre il gruppo di Aravena scarica l’artiglieria su di loro.

Le armi puntano a Mauro.

Quando finisce la prima raffica, un uomo robusto, con i capelli lunghi fino alla vita e l’aspetto di chi è davvero cattivo, tira fuori una 38 e la impugna con la destra e una 45 per la mano sinistra. Richard William Laluz Fernández, detto “l’uruguaiano”, che guidò la presa del carcere di Devoto anni prima e adesso è parte della 12 sotto l’influenza di Rafa, si dirige verso Mauro e lo copre a forza di pallottole. Lui da solo disperde gli scagnozzi di Aravena e li insegue fino all’ingresso.

Due mesi dopo, per togliere di mezzo qualsiasi dubbio sulla sua decisione, Di Zeo si mette in mostra insieme a Mauro. Esporre deliberatamente la loro vicinanza è il secondo favore che gli fa. Il primo fu salvargli la vita quel 25 di febbraio.

Perché questa, anche se non sembra, è una storia di favori. Sebbene molti dicano di no, che la storia della barra del Boca è una storia di tradimento.

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I violenti più anziani assicurano che le cose non sono sempre state così. Che fino alla metà degli anni 90, nella Doce c’erano codici che venivano rispettati. Però la visione nostalgica non coincide con la realtà. Gli ultrà del Boca sono nati a inizio anni 70, quando Alberto J. Armando capì i vantaggi di replicare all’interno del club il modello di governo peronista che aveva imparato facendo affari con il Generale Juan Domingo Perón. Come rappresentante della Ford in Argentina, vendeva a Perón le auto per la polizia e la presidenza. Avere un nucleo forte, una specie di guardia pretoriana che lo proteggesse e spaventasse gli oppositori, era economico: biglietti gratis, viaggi nel continente per la coppa Libertadores, un asado al mese con il vivaio (l’equipe), magliette firmate per la lotteria a premi e un pagamento in contanti che veniva ritirato puntualmente da Enrique “el carnicero” (il macellaio) Ocampo, il primo capo de La Doce.

L’accordo favoriva entrambe le parti. Con il dollaro economico della dittatura, il circolo di Ocampo (composto da luogotenenti come il Capitan Varani, Roperto Pechuga Ferreira e l’Uruguaiano Chupamiel) accompagnò il Boca per la finale intercontinentale e il capo finì cambiando l’auto e facendo affari.

Questa crescita veniva osservata da fuori da José Barritta che da quattro anni frequentava i personaggi secondari e cercò di beneficiare dei vantaggi degli ultrà. La risposta fu negativa. E questo generò la guerra, che si definì nel 1981 a favore del “nuovo sangue”. Il motivo, ieri, oggi e sempre, fu il denaro.

Seduto in un bar di barrio norte (quartiere chic di Buenos Aires, ndt), Rafael Di Zeo, maglietta del Boca, jeans consumati e quel sorriso picaro (paraculo) che non lo abbandona, definisce il tutto semplice.

«Il calcio è un affare di cui vivono giocatori, dirigenti, rappresentanti, giornalisti, tutti. E a noi, che contribuiamo allo spettacolo, anche spetta una parte. Siccome la televisione mette noi a fuoco, la gente vuole bene a noi, quando si parla di festa e carnevale si parla di noi. Quindi, che ci mettano i soldi. Io mi porto via lo stesso che si portava via José, Mauro quello che prima toccava a me, e così via. La percentuale arriva al massimo a un 10 per cento».

Quello che gli ultrà non raccontano è che quella percentuale si finanzia con attività illegali. La Doce riscuote la sua parte per dare protezione ai negozi di cibo e bevande dello stadio. Chi non paga si espone alla distruzione del suo stand o al furto della merce. La Doce gestisce il parcheggio in strada che essendo un luogo pubblico dovrebbe essere libero. La Doce guadagna dalla rivendita delle entrate e dalla gestione del merchandising illegale della marca Boca. Per le sue mani passa anche il denaro della vendita di droga nella Bombonera e dintorni, i tour di turisti che vogliono andare in curva e la pressione costante a dirigenti e giocatori: chi non paga rischia che gli si complichi la vita.

La Doce riscuote come minimo 250mila pesos ogni 30 giorni.

Per questi soldi, tutti rubano, tutti mentono, tutti tradiscono e tutti uccidono in un piccolo paese chiamato Boca.

Negli ultimi anni i meccanismi per scalare la vetta di questa mafia sono cambiati. Negli anni 80, la selezione darwiniana faceva del più forte il capo. Nella nuova era, non è più importante il potere dei pugni o la forza distruttiva di una pallottola ma i contatti con politici, polizia e ambienti giudiziari che permettono di negoziare con le alte sfere del potere. Qualcuno ha detto che la mafia come tale non esiste in Argentina perché in realtà, la mafia è il Governo. E lì stanno gli uomini de La Doce, lavorando come una forza terzerizzata, a convalidarlo.

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La notte del 13 marzo del 2011, mentre la città dorme, la fazione di Rafa festeggia il compleanno di uno dei suoi membri nel ristorante cabaret Cocodrilo. Il tavolo in fondo è pronto. Le ragazze ballano sul palo, Rafa chiede un altro giro di champagne.

I Di Zeo sono usciti da poco di prigione e stanno aspettando il momento giusto per riprendere il controllo dell’organizzazione. Adesso, La Doce è nelle mani di Mauro Martin e Maximiliano Mazzaro, quelli a cui fecero favori si sono ritrovati con la Tribuna quando nel 2007 i due fratelli vennero arrestati per un’imboscata agli ultrà del Chacarita.

El Uruguayo Richard Fernández, quello che per ordine di Rafael salvò la vita a Mauro nel campetto della Casa Gialla, anche era in prigione: quando Mauro e Mazzaro si resero conto che stava guadagnando sempre più potere, lo vendettero alla polizia bonaerense (della provincia di BsAs, ndt). Però è uscito, anche lui vuole La Barra e oggi crede che un’alleanza con Rafael è il mezzo più adatto per il rientro.

El Uruguayo parcheggia il suo camioncino nello spazio su via Gallo. Quando sta per entrare, il tipo della sicurezza lo avvisa che Rafael è dentro. El uruguayo sorride: è venuto proprio per questo. Però la notte non finirà come aveva pensato: quando si avvicina al tavolo nel fondo del locale, il chiacchiericcio diventa quasi un grido e lo invitano a ritirarsi. Smascella per la rabbia, lancia una minaccia e si dirige verso l’uscita.

Le ragazze continuano a ballare con la musica dei Black Eye Peas.

Nella barra del Boca non tutti sono favori. Richard non riesce a fare più di dieci passi che sente la schiena che gli brucia: tre pallottole gli si infilano nella spina dorsale. La Doce scappa mentre le ragazze si rifugiano dietro i divani aggiustandosi i reggiseni. A Richard lo operano due volte nell’ospedale Fernandez e gli salvano la vita. Da quel momento, rimarrà sulla sedia a rotelle. Non c’è lealtà nel mondo del crimine.

Il 17 luglio del 2012, il Tribunale Orale n.6 assolve dalle accuse i 12 ultrà de la fazione di Rafael Di Zeo, accusati di associazione illecita. Dal banco degli accusati, camicia bianca e pantaloni impeccabili, Rafael sorride. Dopo, mi dirà: «Hai visto che sono buono?».

Fuori dal Tribunale aspettano 400 membri della sua organizzazione. Appena lo vedono esplode una specie di Stone mania. È un miscuglio tra Jagger e Richards. La polizia blocca la strada, è come se il Boca avesse appena vinto la Intercontinental, c’è un corteo fino all’obelisco. Cantano: “È la barra di Rafa, quella che torna dalle vacanze, uccideremo tutti i traditori”.

In molti si scattano foto, come se si trattasse di un’attrazione turistica e non di un’orda di delinquenti che aspettano il momento buono per agire. Dai balconi volano foglietti e alcuni si fanno coraggio e cantano con gli ultrà.

«Eh? Sono colpevole o innocente? Se io devo finire in prigione per combattere per il Boca, tutti loro anche mi devono accompagnare, come tutti quelli che allo stadio quando c’è qualche problema, gridano “e picchia, picchia, e picchia Boca picchia”», dice e sorride.

È un idolo e lo sarà fino a quando una nuova morte indignerà il cittadino che lo rifiuterà per un po’, poi si dimenticherà di quanto accaduto e chiederà di nuovo di lui.

Preoccupato, Gustavo Lugones, vicecapo dell’Unità di Coordinamento per la prevenzione della violenza nel calcio del Governo e uno dei massimi esperti argentini in materia, dirà nel suo ufficio di Palermo (quartiere di Buenos Aires) che il problema è molto complesso. Che da un lato c’è una mafia organizzata, annidata nei club, con appoggio politico e della polizia, che vive di questo. Però che, soprattutto, c’è la società nel suo insieme che li approva. «Questo ha una spiegazione: il tifoso ormai non si può più identificare con i giocatori. La maggior parte non sono un granché e quando ne appare uno buono, che ha la stoffa per essere un idolo, sei mesi dopo lo vendono a qualche squadra europea. Quindi si rompe il processo di identificazione e quel posto vuoto resta per gli ultrà, che qualsiasi cosa succeda sempre staranno lì, nello stadio, sventolando la bandiera. Sono rimasti un rifugio d’identità in un paese che ha perso i suoi progetti collettivi».

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A due anni dalla sparatoria ai danni dell’uruguayo, il Boca gioca a Santa Fe contro l’Unión. Alle cinque di mattina, da vari punti della periferia, partono 16 bus scolastici: si uniranno dopo avere passato Campana. Sono 900 soldati identificati con Rafael Di Zeo, disposti a tutto, disperati per riprendere l’affare della violenza nel calcio.

È la seconda volta. La prima, a novembre del 2011, durante una partita contro l’Atlético di Rafaela, finì male. Una frazione della barra, quella di Mauro, nella tribuna tradizionale, quella che da sulla Casa Gialla e un’altra, quella di Rafael, nella parte di fronte, quella che da al Riachuelo: e, alla fine, i due leader con una causa giudiziale.

Però oggi, 25 di agosto 2012, questo è storia.

La frazione di Mauro ha l’appoggio della polizia federale e della bonaerense, ma a Santa Fe, nell’entroterra del paese, la musica è un’altra e i 900 soldati di Di Zeo lo sanno, appostati sull’autostrada Rosario-Santa Fe, aspettando la loro preda.

La preda è Mauro, in una 4×4, davanti nove pullman, al chilometro 20, uno prima del ponte. Quando i 40 tiratori appostati sul ponte vedono arrivare la carovana, sparano a ripetizione. La polizia arriverà tardi. Ci sono sette feriti gravi. Uno di loro è Mauro, una pallottola gli ha perforato l’intestino grosso. Anche questa volta gli salveranno la vita, però non i Di Zeo né l’uruguayo, bensì i medici dell’ospedale provinciale di Rosario.

Il cerchio si chiude perfettamente: tutti hanno una pallottola, tutti hanno soggiornato in carcere, tutti hanno un tradimento in saccoccia. Questa è la mafia degli ultrà: l’ascesa, il potere e la caduta dei vecchi codici.

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28 ottobre 2012. Un altro superclassico nel Monumental. Sono passati otto anni da quello in cui Mazzaro si salvò la vita grazie ai Di Zeo. Ora, il cervello della barra è lui. Mancano tre ore per l’inizio di River-Boca, la partita che per tutti i fanatici del mondo nessuno può non vedere. La Doce sta per uscire in carovana. Il rituale è più sinistro che festivo: candele, una bara dipinta con i colori del River, una corona che emana un odore nauseabondo per colpa dei 32 gradi e ultrà vestiti da fantasma, che in pochi minuti cambieranno il costume in membri del Ku klux Klan. Sono 1.200 disposti a tutto. Si muoveranno con vari veicoli, tra cui tre pullman decappottabili che usano per girare per la città ogni volta che vincono il campionato. Alle due di pomeriggio la caravana parte. Torsi nudi, testa fuori, giochi pirotecnici e un paio di spari che risuonano nell’aria.

Mauro Martin, il capo della barra, è davanti. Per i suoi precedenti per violenza non può entrare allo stadio però eccolo lì, come se fosse il capo del governo della città, ordinando alla polizia dove si deve mettere per proteggere il passo di questo branco affamato di violenza. Che quando individua la sua preda, esplode. Non avevano fatto 30 cuadras (circa 3 chilometri) che tre ragazzetti con la maglia del River pretendono di attraversare la strada. Dal primo veicolo gli ultrà scendono come avvoltoi e li massacrano a bastonate. Poi, rubano loro le magliette e le bruciano. La polizia guarda. Le immagini faranno il giro del mondo. Durante il corteo funebre, la barra provocherà centinaia di danni e una volta entrata allo stadio, appena River segna il 2 a 0, si affronterà con le guardie della sicurezza e ne tirerà due verso il vuoto: cadranno per 5 metri, però si salveranno.

Quando finisce la partita, il raid continuerà per i negozi della zona. Alla fine della giornata, ci saranno 80 feriti, 24 ricoverati, e nessun arresto. Il Governo dirà che l’operazione è stata un successo mostrando la foto di Mauro Martin respinto all’entrata dello stadio. Strano, nel tumulto in tribuna a più di una persona era parso di vederlo. 24 ore e 1.200 foto dopo, Mauro Martin resterà sputtanato quando, dopo essere rimasto nascosto tutta la partita dietro ai suoi soldati, uscirà allo scoperto proprio quando il Boca pareggia all’ultimo minuto. Lo tradiscono la sua ansia di potere e la sua percezione dell’impunità. È uno scandalo nazionale.

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Alle 10 di mattina del 19 novembre del 2012, Mauro arriva puntale al tribunale su avenida Cabildo. Fa la faccia da cattivo e tutto quello che mi dice è «con te non parlo». Lo aspettano per condannarlo per tutto quello che è successo nel superclassico. L’udienza dura quattro ore. Quando esce, sorride e non dice una parola. Sale su un’auto importata che lo aspetta sulla porta e si perde per Cabildo, in direzione della General Paz. Deve sentirsi rilassato: per tutto quello che è successo, gli hanno appena inflitto una multa di mille pesos.

Però questo trionfo sarà la sua fine. Un favore si paga con un favore e gli chiedono che metta in moto la barra per due atti politici ufficiali. Mauro dice di sì mentre conta i soldi, e sull’altra linea negozia con l’opposizione. La Doce è una banca che riscuote da tutti gli sportelli. Non sa che la sua linea telefonica è sotto controllo. E la vecchia causa del crimine del vicino di suo cognato che stava nel cassetto stranamente recupera vigore un anno e mezzo dopo il fatto.

La storia è ridicola: il pechinese di un vicino di Gustavo “Pechito” Petrinelli usava come bagno la parte di fronte a casa sua. Stanco di pulire il canile, Pechito chiede aiuto a qualcuno che sa che può aiutarlo a risolvere il problema e chiama Mauro. Fu un errore: dove sarebbe bastato uno spavento, ci fu un crimine.

Il cane non fa più la pipì sulla casa di Petrinelli, però Mauro finisce in galera.

Nella sua dichiarazione dice che non è stato lui, che il vicino è stato ucciso da un altro ultrà, Daniel “Pety” Whebe. E che chi lo portò fino a lì è Maximiliano Mazzaro. Per salvarsi, consegna i suoi due compagni più stretti. La Doce decide di espellerlo dall’organizzazione. Il giudizio popolare sentenzia: tradimento.

Mauro viene arrestato, si sente tradito e tradisce. Dal telefono del carcere, parla più di quanto dovrebbe e viene messa su una megacausa per associazione illecita che incrimina dirigenti, politici, ultrà e giocatori.

Il calvario comincia a sentirsi sulla pelle de La Doce. Mazzaro, vero cervello di tutto, passa alla clandestinità, anche se solo per le foto. Nella prima di campionato contro il Quilmes, dimostrando il suo livello di potere, dirige i movimenti della barra da un elicottero. La polizia dice che lo cerca però lui cammina alla luce del sole tranquillo. Lo scandalo cresce perché un famoso portiere, Pablo Migliore, finisce in galera accusato di aiutarlo per farlo rimanere latitante.

E nonostante sia latitante, l’unica preoccupazione di Mazzaro sembra non perdere il controllo de la Doce. Sa di tradimenti. Per questo, davanti all’avanzata di Carlos Santa Cruz, un ultrà della zona di Virreyes, parla con la dirigenza del Boca. Chiede che in tribuna stiano i suoi uomini di fiducia: Luis Arietta e Fido Desbaus. La commissione direttiva e la polizia gli concedono il desiderio. E mentre la Side (i servizi segreti) e la polizia dicono di cercarlo, gli affari aumentano e, grazie alla Copa Libertadores, gli ingressi sono arrivati a 400mila pesos mensili.

Alla fine, non importa chi li sposti, li perseguiti o li combatta, La Doce, come sempre, vince ancora una volta.
Gustavo Grabia (è il massimo esperto di barrabravas d’Argentina. Scrive per il giornale sportivo Olé ed è editorialista di differenti programmi sportivi)

Link al pezzo originale: http://www.revistaanfibia.com/cronica/la-12-historia-de-una-traicion/

Note dell’articolo

1 – La Casa Amarilla, letteralmente Casa Gialla, è un antico terreno che si trova nel quartiere de La Boca adesso appartenente al governo della città di Buenos Aires

2 – Barras bravas

3 – La doce, o 12, è la barra brava del Boca

4 – Come vengono chiamati i tifosi del River