Non avevo ancora ben compreso la possibilità di tornare a scrivere Oltralpe. Il mettere di nuovo una borsa in spalla e prendere un aereo per seguire un evento sportivo all’estero mi sembrava un’utopia. Anche quando – all’inizio di questa stagione – si è effettivamente ripreso a viaggiare in maniera più fluida e continua. Con qualche restrizione in meno ma con tantissima precarietà e instabilità, anche nelle più piccole cose.

È stato il mio pessimismo cosmico, la mia incredibile zavorra che vuole tirarmi giù pure nei momenti in cui potrei cercare quantomeno di respirare con più tranquillità. Il mio pessimismo non mi fa vedere tante volte gli spiragli. E non è bello in un contesto storico come questo, dove un po’ tutti avremmo bisogno di coltivare un germe di speranza e credere che un briciolo di benessere interno ci spetti di diritto. Anche attraverso un viaggio, una partita o la soddisfazione di raccontare una minuta parte di mondo dal proprio punto di vista, con le proprie parole e le proprie emozioni.

Mentre mi imbarco nuovamente per uno dei miei tanti frastagliati viaggi – con una miriade di mezzi da prendere e cambi da fare – ripenso a quel Manchester City-Roma del 2014. La prima volta in assoluto al seguito di una partita internazionale in veste di reporter. Un’emozione quasi infantile, che mi fece scrivere ben dieci pagine Word di racconto. Lo ricordo come fosse oggi, proprio perché guardando il mio riflesso di allora ci vedo tutta l’essenza (nel bene e nel male) che alimenta il mio modus vivendi. Eppure non me ne vergogno, perché so che questa capacità di emozionarsi per piccole cose spesso e volentieri ha finito per salvarmi. Ha saputo farmi vedere il bello in momenti bui e mi ha mostrato la strada alternativa anche quando stavo andando contro un muro.

Ormai conosco un po’ la mia indole; ne prendo per mano lo spirito solitario che magari cozza proprio col mondo ultras e il suo guazzabuglio umano. Cozza col suo caos calmo. Ma forse proprio il mio spirito solitario mi spinge a vedere e raccontare l’unica calca sociale che ho sempre visto con gli occhi dell’amore. Un amore che a differenza di tanti altri non si spegne lentamente come un fiammifero, ma si rigenera accompagnandosi a tutte le mie altre passioni. Che siano le escursioni, la natura, la bicicletta, nuove città e nuovi Paesi da vedere. Tutte cose che se riesco ad associare a una partita con due tifoserie diventano perfettamente sublimi.

Mi si perdoni questo lungo incipit. Del resto non penso aveste voglia e curiosità di conoscere dettagliatamente la magnifica (sic!) tifoseria del Vitesse! Bando alla ciance: il mio itinerario di andata prevede aereo fino a Colonia, ostello e treno per Arnhem al mattino successivo. Di mezzo diverse birre locali mandate giù in riva al Reno, guardando il sole scendere sullo skyline della città tedesca. In mezzo a tante persone – non solo giovani – intente a godersi la vita. Chi uscendo dal lavoro, chi a passeggio con la ragazzetta e chi, come me, assorto nei propri pensieri. Amo il mio Paese (nella sua rappresentazione storico/naturalistica chiaramente) e poco tollero la sterile e pretestuosa critica nei suoi confronti, ma al contempo riconosco a questa gente di saper campare con meno paturnie rispetto a noi. Di non avere un grande strato sociale che affronta la vita come una condanna ai lavori forzati e trova nello spritzetto del venerdi, nella giocatina alla Snai e nell’uscita con la comitiva il massimo dell’emozione. Capisco bene che per qualcuno l’asociale, lo “strano”, potrei essere io. Quello che “a 35 anni pensa più a una partita che a una famiglia o a fare dei figli”. Ma il problema è che ognuno dovrebbe rispettare le attitudini altrui. Lasciando stare la road map imposta dalla società e dalla sua filiera.

L’indomani la sveglia suona presto e con calma serafica mi incammino verso la stazione. Per le strade di Colonia non c’è anima viva e posso godermi per l’ultima volta l’imponenza della cattedrale, prima di raggiungere la banchina e salire sul mio treno che ha come destinazione finale Amsterdam. Mi lascia sempre un’aura di divertimento frequentare questi convogli internazionali. C’è il tizio bislacco che mangia un tramezzino affiancato a un cappuccino caldo e la famiglia che dorme russando neanche si trovasse nel letto di casa. Tutto intorno il paesaggio dell’Europa nord-occidentale passa senza troppi sussulti: qualche fabbrica, sterminate pianure e avvicinandosi all’Olanda sempre più fiumiciattoli e canali. A onor del vero questa fetta di continente non ha mai scaldato il mio cuore. Troppo industrializzata, moderna, “perfetta” e con troppi pochi particolarismi per comunicarmi emozioni forti. Nulla contro, sia chiaro. Soprattutto alcuni luoghi dei Paesi Bassi meritano assolutamente una visita (mentre altri potrebbero pure esser trasformati in eterne “zone rosse”. Si scherza eh!), ma chiaro che avrei fatto volentieri a cambio con una Belgrado o una Salonicco.

Ben collegata con il treno al resto del Paese, Arnhem è la classica città posta a pochi chilometri dal confine tedesco, capoluogo della Gheldria. Ciò comporta, manco a dirlo, aver subito gli innumerevoli eventi storici e bellici che hanno travolto questo lembo di terra. Dagli scontri tra francesi e prussiani a inizio ‘800 sino ad arrivare all’Operazione Market Garden, realizzata dagli inglesi nel 1944 con l’intento di conquistare cinque ponti sul Reno presidiati dall’esercito tedesco e finita con la resa dei britannici nella città olandese, dove era posto l’ultimo viadotto da sottrarre al controllo teutonico. Per impedire agli avversari un’ulteriore avanzata, gli inglesi in ritirata bombardarono il ponte, che è stato ricostruito nell’immediato dopoguerra e intitolato al generale John Frostbrug. Questo “curriculum” storico ha ovviamente implicato molteplici distruzioni del centro urbano e ciò che risalta agli occhi del visitatore oggi è un mix tra edilizia nord europea, grandi catene commerciali, un parco dove la maggior parte degli autoctoni sembra concentrare le proprie ore di svago e pochissime viuzze o edifici che richiamano al passato.

Su fronte calcistico, invece, la squadra cittadina conserva eccome la sua lunga tradizione. Fondata nel 1892 è uno dei club più antichi del Paese (seconda solo allo Sparta Rotterdam) e – a dispetto della sola Coppa d’Olanda vinta cinque anni fa contro l’AZ Alkmaar – vanta un discreto seguito anche al di fuori dei confini cittadini. Me ne accorgo quando, nel dopo partita, diversi ragazzi con sciarpa giallonera salgono sul mio treno con direzione Eindhoven. Alcuni di loro scenderanno addirittura nella tana del PSV, che di certo non lesina in fatto di storia calcistica da queste parti.

L’aver vinto un solo trofeo in 130 anni di storia la dice lunga su quanto il campionato olandese sia completamente egemonizzato da Ajax, PSV e Feyenoord. Club che dal 1965 ad oggi hanno letteralmente spartito le vittorie, lasciando spazio soltanto a due successi dell’AZ Alkmaar e uno del Twente.

Non che in Italia ci sia chissà quale competitività maggiore, ma considerati i risultati a dir poco strabilianti che in più di un’occasione la Eredivisie ha partorito (a memoria ricordo un paio di 10-0 negli ultimi anni) e un sistema di promozioni e retrocessioni a dir poco machiavellico, si può asserire con relativa tranquillità che non si tratti del torneo più fascinoso d’Europa. A scapito di una Nazionale che invece ha sempre scritto pagine importanti nel calcio continentale e non solo e che – parere personale – avrebbe forse meritato qualcosa in più dello striminzito titolo europeo conquistato nel 1988 contro l’URSS.

Tra il Vitesse e la Roma si tratta del primo incontro ufficiale. I tagliandi venduti nella Capitale sono circa 1.200. Qualche sapientone dell’italica carta stampata ha provato a creare tensione nei giorni precedenti al match, facendo passare qualche tafferuglio e un’invasione di campo durante il match contro lo Sparta Rotterdam come una battaglia campale, avente funzioni di monito per l’arrivo dei tifosi giallorossi che – sempre secondo questi mastri scrittori – avrebbero trovato una sorta di guerriglia urbana senza esclusione di colpi. Fermo restando che, malgrado la concezione semplicistica della stampa mainstream in Italia, a queste latitudini invasioni e disordini sono molto più comuni di quanto si pensi (tra l’altro in Olanda è pratica diffusa quella di vietare al pubblico partite ad alto rischio).

A differenza dei vicini tedeschi, gli olandesi applicano regole molto più stringenti attorno alle partite di calcio. Basti pensare che i biglietti ospiti sono stati venduti soltanto online, tramite l’emissione di un voucher con cui poi andare a ritirare fisicamente il tagliando presso il meeting point stabilito dalle autorità locali: una striscetta di marciapiede lungo il fiume, con un paio di pub, da cui una volta entrati non si può praticamente più uscire. Dovendo accompagnare un amico faccio l’errore di entrarci e per “riconquistare” la mia libertà ci metto quaranta minuti e molta pazienza: provo a spiegare alla polizia olandese che sono un reporter, mostrando il mio tesserino e provando persino a parlare francese per mischiare le acque. Inizialmente riesco anche a passare ma poi un altro uomo in divisa mi ferma e ricomincia con la solita solfa, dicendo che non può farmi passare, che devo andare col bus fino al settore ospiti e che lo fa per la mia sicurezza. A forza d’insistere riesco nel mio intento, con un poliziotto che però mi avverte: “Se ti succede qualcosa non è nostra responsabilità”. Molto italiana come risposta!

Battute a parte, ho sempre avuto questa idea dell’Olanda: un Paese che permette di fumare marijuana e cannabis nei celebri coffee shop e che ha legalizzato la prostituzione. Ma che dall’altra parte ti punisce severamente se bevi una birra per strada o ti ghettizza con la paranoia dell’ordine pubblico in alcuni comparti della propria vita sociale. Differenze davvero grandi con la Germania, che per me, almeno in fatto di gestione degli eventi sportivi continua a rappresentare il modello più evoluto in Europa.

Ciò detto spezzo una grande lancia a favore dei Paesi Bassi: entrare in posti al chiuso senza l’obbligo di dover indossare la mascherina o mostrare Green Pass vari è un dolce e bellissimo ritorno alla normalità. Immagino che da queste parti ci siano meno virologi in televisione e si guardi con più equilibrio non solo al Covid, ma proprio allo svolgimento della vita in generale. Magari anche con un pizzico di retaggio moralistico in meno.

Dopo un altro giretto per la città mi avvio a piedi verso lo stadio. La camminata è piacevole, anche se il peso del mio zaino comincia davvero a spezzarmi la schiena. Quando il navigatore mi comunica di esser arrivato faccio fatica a capire dove sia lo stadio. Davanti a me vedo solo un grande centro commerciale e ci metto un po’ a realizzare che sia proprio quello l’impianto. Il GelreDome è stato inaugurato nel 1998, rimpiazzando il Nieuw Monnikenhuize. La particolarità, come descritta da Bruno Pizzul in un Vitesse-Inter del 2000, è quella che “il suo terreno di gioco si sfila come fosse un cassetto quando c’è la necessità di fargli prendere aria o utilizzarlo per altri eventi”.

Sono anacronistico e lo ammetto, ma da fuori ne ho davvero una cattiva impressione. Mi sembra di star entrando da Maximo (uno dei più grandi centri commerciali di Roma) e quindi mi aspetto di trovare Primark, Nuvolari, Intimissimi, Calzedonia e pure un Burger King al suo interno, anziché il terreno di gioco. Invece devo dire che una volta dentro la struttura è bella. Moderna sì, ma non pacchiana. I suoi 25.000 posti sono ovviamente occupati per intero. Già la media degli stadi olandesi è di tutto rispetto, poi oggi arriva una squadra italiana e di conseguenza è serata di gala.

Come già avuto modo di notare a Rotterdam e Nimega qualche anno fa, i supporter locali mischiano inequivocabilmente uno stile british a quello ultras. Quindi nella curva principale (la Tribuna Sud) troviamo striscioni, tamburi e megafoni, ma a seguirli per tutta la partita saranno un centinaio scarso di persone. Mentre più frequenti sono le “folate” in cui canta o rumoreggia tutto lo stadio. Non apprezzo il genere, sono onesto, ma ammetto che comunque è un modo di seguire la propria squadra pur sempre attivo e dal loro punto di vista passionale. All’ingresso dei giocatori la curva si colora di tante bandierine gialle, mentre la tribuna di fronte a me, utilizzando migliaia di cartoncini con i colori sociali, va a formare la scritta Arnhem (tentativo un po’ sbilenco, a dire il vero, ma accettabile).

Su fronte ospite il contingente romanista inizia un po’ in sordina per poi crescere, dando vita a una prestazione di tutto rispetto nel secondo tempo. Sempre bella l’impostazione cromatica e visiva negli ultimi anni, le tante pezze ben realizzate e messe minuziosamente l’una vicino l’altra (e rigorosamente con i colori sociali) sono ormai un marchio di fabbrica della Curva Sud.

Non è mai facile tifare con costanza in queste partite, è innegabile che per molti rappresentino un “diversivo” rispetto alle ormai monotone trasferte italiane e posti come l’Olanda offrono tanti svaghi collaterali, che restituiscono ben poca lucidità se osservati nel pre gara. Ci sta, fa parte del gioco. Ed è pure goliardica come cosa. Comunque checché se ne dica, di questi tempi non è scontato portare oltre mille persone in una trasferta che sì, sarà pure non lontanissima, ma non è neanche troppo agevole da un punto di vista logistico ed economico. I prezzi per volare su aeroporti vicini sono cresciuti vertiginosamente subito dopo il sorteggio e comunque anche arrivare a Dusseldorf, Colonia, Eindhoven o Amsterdam implica altro tempo e danaro (e da queste parti non sono propriamente propensi a farti risparmiare) da spendere in treni o autobus per raggiungere Arnhem.

Da segnalare i diversi tentativi capitolini di stuzzicare gli avversari, con cori e gesti. Tentativi non raccolti, ma proprio ignorati dal pubblico giallonero. Il che la dice lunga sulle tante boiate dette e scritte alla vigilia di questa partita.

In campo la Roma non brilla, ma alla fine riesce a spuntarla grazie a un gol realizzato da Oliveira sul finire del primo tempo. Il portoghese è lesto ad insaccare una palla vagante nell’area dirimpettaia, facendo esplodere il settore. Una vittoria che sicuramente aiuta in vista della gara di ritorno ma che non può soddisfare appieno la squadra di Mourinho, che oggi a tratti ha faticato sin troppo contro un’avversaria modesta.

Al triplice fischio entrambe le squadre vanno a raccogliere gli applausi del proprio pubblico. Faccio le mie ultime considerazioni e i miei ultimi scatti, prima di riporre fotocamera e computer nel mio zaino e avviarmi all’uscita. La mia prossima destinazione è infatti Eindhoven, dove l’indomani mi attende l’aereo per tornare in Italia. Mi imbarco su uno dei tanti bus messi a disposizione dal comune di Arnhem. La polizia cerca di non farli riempire troppo e al loro interno decine di ragazzi continuano a cantare, ballare e battere pugni sui vetri, festosi.

Con un’altra ora e mezza di treno sono nella città del PSV. Tante sciarpe biancorosse si apprestano sui binari, la squadra locale ha infatti appena finito di giocare contro il Copenaghen. Per me si prospetta una notte interlocutoria, resa più corta da qualche birra e da una lunga passeggiata verso l’aeroporto. Ultimo frammento di una due giorni alquanto selvaggia (come piace a me), che mi ha restituito la gioia di raccontare una sfida internazionale e tutto il suo contorno. E dato che mi sono sicuramente prolungato oltremodo, ringrazio chi è arrivato a leggere fin qui!

Simone Meloni