I binari che si intravedono al di là della recinzione che delimita la banchina della stazione di Velletri sono quelli che un tempo correvano fino a Colleferro, raccordandosi alla linea per Napoli. Oggi utilizzati come stantio posto di manovra per vetture non commerciali. Sono – per chi come me è appassionato di ferrovia – uno dei segni tangibili di quanto questa cittadina sia stata, storicamente, sempre un punto di passaggio. Snodo cruciale che ha permesso il raggiungimento del Sud Italia bypassando la piana pontina, per diversi secoli impraticabile a causa delle paludi e delle loro criticità.
La costruzione dell’ex Dopolavoro Ferroviario si staglia attigua ai binari, custode di un’Italia che fino a qualche decennio fa, in questi circoli, si rappresentava nella sua forma più operosa, genuina e verace. Le insegne DLF sono ancora visibili in più parti, mentre oggigiorno è stata in realtà soppiantata da una palestra e da un pub a essa legato. Un qualcosa che tuttavia ha permesso ai locali di sopravvivere, non finendo nella catasta di opere marchiate FS abbandonate a loro stesse.
Nel sottopasso che conduce ai parcheggi ci si imbatte immediatamente in un murales targato Banda Volsca. Quell’Atteggiamento Zellino – già menzionato in un precedente articolo – che sembra fungere da ideale collante per una tifoseria che, a dispetto dell’infima categoria disputata, sta facendo vedere ottime cose ormai da diverso tempo. Ma siccome credo che la radice di una curva e di un gruppo vadano cercati innanzitutto nel cuore della città di appartenenza, il mio lauto anticipo sul fischio d’inizio è dovuto proprio al voler capire cosa è esattamente Velletri e cosa rappresenta per i suoi figli. Sono nato e cresciuto a pochi chilometri dai Castelli Romani, eppure mi rendo conto che fino a un certo punto della mia vita – un po’ come tutti – li ho semplicemente visti come un luogo dove passare una domenica o un giorno di festa, mangiare, bere e al massimo appisolarsi in riva a uno dei suoi due laghi. La realtà parla di una storia che è addirittura precedente a quella di Roma e che in tutto il territorio castellano affonda in un passato in grado di affascinare qualsiasi persona che, attraverso il territorio, voglia scoprire un pizzico di antropologia. Come avremo modo di vedere più avanti.
Venendo da Roma in treno è quasi inevitabile fissare il proprio sguardo sulla catena dei Monti Lepini e soprattutto quella del Monte Artemisio, che comprende alcune contrade veliterne, restituendo parzialmente l’idea di quanto questo comune – che conta circa 52.000 abitanti – sia espanso ben oltre la propria ideale cinta muraria. Ma il cuore di Velletri è ovviamente in altura, a 332 metri s.l.m. Ed è da là che il mio approfondimento parte. Bisogna sempre cercare il punto più antico di una città, laddove questa è stata fondata e laddove i primi insediamenti le hanno dato vita. Perché poi quando si va allo stadio e si apprende – in questo caso – che il gruppo portante è denominato Banda Volsca non si può cadere dal pero e non cercare la connessione storica.
Partiamo dal presupposto che i Volsci sono stati uno dei popoli italici (quindi pre romani) più solidi e forti da un punto di vista della difesa territoriale. Per comprendere quanto la loro eco sia arrivata lontana e se ne preservino alcuni retaggi fino ai giorni nostri, è sufficiente sapere che in Polonia “italiano” si dice “włochy”. Tutto dovrebbe derivare dai Volsci o Volscini (in latino Volcae, in polacco Wolskowie), questo antico popolo che abitava la zona appenninica tra il sud del Lazio, il nord della Campania e parte del Molise. Essi erano apparentati con il ceppo etnico degli Osco-Umbri, poco più a Nord, e parlavano il volsco, di origine etrusca. Dacché gli antichi Romani li consideravano come un popolo non molto sviluppato, ma pericoloso, li sottomisero più volte fin quasi a estinguerli nel IV sec. d.C.. Fu così che furono costretti ad emigrare nel Nord Europa, dove non a caso si ritrovano sotto forma di vocaboli diversi in base al Paese raggiunto.
Sotto la dominazione volsca la città era conosciuta come Velestrom, facendo riferimento al termine velia (palude) che probabilmente doveva alludere alla prossimità con le paludi pontine. Nome di cui, successivamente, i romani preservarono il senso, tramutandolo in Velitrae. Importante ricordare che Velletri fu la prima porzione di territorio volsco a esser attaccata dai romani, a causa di alcune violazioni di confine da parte dei primi. Fu Anco Marzio (quarto dei sette Re di Roma) a conquistare la città, costringendola a scendere a patti con Roma. In questo accordo spicca la Gens Octavia, potente famiglia originaria di Velitrae che ottenne subito cittadinanza romana e diritti politici. Un passaggio storico, considerato che da essa nacque Ottaviano Augusto, uno degli Imperatori più celebri nella storia dell’umanità, al quale non a caso è dedicata una statua eretta a uno dei due lati del palazzo comunale veliterno (l’altra è per Stefano Borgia, noto cardinale nativo della città).
Da qualche anno, nella parte alta, è stato rinvenuto un sito archeologico di importanza notevole, nella cosiddetta Area delle Stimmate, che nella sua stratificazione si è scoperto contenere un antico tempio volsco. Una delle poche testimonianze tangibili in un territorio che nei millenni ha subito ingenti danni da terremoti (resta tristemente celebre la scossa di 5,8 gradi del 1806) – con cui di tanto in tanto il Vulcano Laziale ricorda la sua esistenza – invasioni e guerre (nella memoria collettiva restano ancora vivi i terribili bombardamenti Alleati che nel 1944 distrussero gran parte del centro storico medievale e che attestano ancora una volta la centralità nevralgica di Velletri).
Dunque, questo breve sunto al fine di spiegare la motivazione per la quale gli ultras rossoneri hanno optato per tale nome. Il richiamo ai volsci è un chiaro volerne incarnare la forza, la ribellione e il non voler sottostare a nessun tipo di dominazione. L’essere ostili – “zellini” – per l’appunto. Cosa che peraltro riaffiora spesso nella storia veliterna. Non è un caso che all’interno dello stemma cittadino (rappresentato da una torre in campo rosso, allori in campo d’argento e un’aquila bicipite austriaca ad ali spiegate con duplice corona reale imperiale) sia scolpito il motto Est mihi libertas papalis et imperialis (“ho libertà dal Papa e dall’Imperatore”), a testimoniare la grande importanza del libero comune di Velletri in epoca medievale. La seconda parte del motto si riferisce all’episodio per cui, secondo tradizione, il generale bizantino Belisario – per conto dell’Imperatore Giustiniano – avrebbe concesso autonomia alla comunità locale al tempo della Guerra Gotica; mentre la prima parte si riferisce alla ratifica d’indipendenza voluta da Papa Gregorio II in seguito alla Donazione di Sutri (cessione, effettuata nel 728, dal sovrano longobardo Liutprando a papa Gregorio II, di numerosi castelli del Ducato romano importanti per la difesa di Roma).
Se attraverso alcuni cenni storici si intende il perché di trasformazioni, cambiamenti ed evoluzioni della cittadinanza e dell’architettura, girando per le stradine del centro si può invece avere un contatto con la Velletri odierna. E, tramite essa, carpirne anche i primi vagiti del movimento ultras locale. Sì perché – come già scritto nell’articolo di Torrino-VJS – se il tifo organizzato provò a metter radici già negli anni ottanta, è col nuovo millennio che rinasce e prende forma in maniera più consistente. Grazie al gruppo della Nuova Guardia, prodromo della Banda Volsca. E come nasce tutto ciò in una città di provincia di inizio anni duemila? Esattamente come tutti noi nati sul finire degli ’80 conosciamo e immaginiamo. Nasce la sera radunandosi, chiacchierando sulle rampe delle scale del centro storico, tra una sigaretta furtiva e una birretta fugace. Nasce dalla comitiva. Anzi, dalla “bazzica” come dicono da queste parti. Nasce nel baretto di ritrovo dove magari spesso si finisce facendo “sega” (marinando la scuola, in italiano).
Quel baretto dove ancora oggi, entrandoci, sembra di fare un passo indietro lungo vent’anni. Una masnada di vecchietti e pensionati intenti a giocare a carte e sorseggiare Peroni, decine di giovani che si sfidano a biliardo e biliardino e una foto in bianco e nero della VJS Velletri, che qua venne fondata – o per meglio dire rifondata, seguendo le orme della SS Veliterna – nel 1955. Un pugno di Italia che ti arriva dritto negli occhi e ti ricorda perché a volte questo Paese affascina inverosimilmente anche chi ci è nato e cresciuto. Al di fuori delle sue metropoli che corrono e che sembrano voler a tutti i costi perdere quell’autenticità – magari grezza – che tanto amano di fuori dei confini nazionali.
Questo embrione di gruppo, in particolar modo, nasce attorno a Piazza Cairoli, punto di passaggio per molti veliterni. A pochi passi dalla Torre del Trivio ci si ritrova facendo aggregazione e lavorando per crearne altra, sugli spalti. Tre lustri fa la strada era ancora un luogo affollato dai giovani e ovviamente ogni città aveva un suo “ecosistema” attraverso cui si rigenerava, creando magari alleanze e inimicizie in stile contradaiolo, ma spesso e volentieri sfociando in compagnie da stadio che hanno sempre rappresentato l’humus del movimento ultras italiano. E forse il pregio più grande che hanno avuto i ragazzi che oggi costituiscono la Banda è stato quello di leggere i tempi, capire che lo stadio è omnicomprensivo e abbracciare il più possibile la gioventù autoctona, abbattendo qualsiasi barriera possa costituire motivo ostativo per frequentare le gradinate.
È tempo di andare allo stadio, per toccare con mano questo clima di aggregazione e vedere quanto la VJS, i suoi colori e la sua tradizione siano riusciti a trascinare parte della comunità al proprio seguito. Varco Porta Napoletana, dove una Via Appia trafficata funge da vera e propria barriera, e prendo la direzione desiderata.
Il campo A dello stadio Scavo è utilizzato da un’altra società e, forse, questo è anche un bene per il primo club cittadino. Il motivo è presto detto e lo scopro andandovi a curiosare, ancor prima di metter piede nel campo B (quello utilizzato dalla VJS): terreno di gioco in pessime condizioni, con buche, zolle sfaldate e righe tutt’altro che perfette. Ho i brividi per i ragazzi che quotidianamente ci si devono allenare e per la squadra che ogni due domeniche deve disputarci le proprie partite interne. Sicuramente più caratteristici gli spalti, pittati di rossonero e dalla capienza notevole. Certo, come vedrò poco dopo, per una tifoseria ripartita dall’ultimo gradino del calcio italiano, le attuali gradinate sono forse un’arma in più. Una tribunetta piccola, in cui è possibile compattarsi e dove si respira un’aria davvero piacevole.
E qui mi allaccio a quanto comincio a vedere risalendo le scalette e inoltrandomi nel terreno di gioco. Innanzitutto i murales realizzati agli ingressi sono sempre piacevoli e richiamano a tutti gli effetti quel filone artistico che i gruppi ultras hanno sempre annoverato al proprio interno. Un mondo da sempre costituito un po’ da abili pittori, un po’ da sgamati musicisti, un po’ da coreografi prestati ad altri mestieri e, sicuramente, in gran parte da pazzi scatenati che con lo stadio e la sua gente hanno sempre trovato un ottimo punto di incontro con la vita. Sia chiaro, mi ci metto io in primis. Perché uno che gira il proprio Paese e commenta gente intenta a fare battimani e seguire partite che probabilmente neanche i genitori dei giocatori impegnati vedrebbero, forse un piccolo percorso di psicanalisi dovrebbe farlo!
Tuttavia, dicevo del piacevole clima che si respira attorno al settore della Banda Volsca. Ancora una volta devo utilizzare la parola “aggregazione” per riassumere il tutto. Per come sono stato abituato a vedere il mondo curvaiolo da piccolo, in questi ultimi anni ho sempre constatato un decremento del divertimento, della voglia di vivere la domenica come un giorno in cui si sfogano tutte le frustrazioni e le amarezze della settimana. Sarà che in molti abbiamo confuso l’ultras con il recitare il ruolo dei duri e cattivi, sarà che – e su questo poco da dire – la repressione folle e selvaggia ha incattivito un po’ tutti e sicuramente in Prima Categoria è più facile portare avanti determinate situazioni. Ma sarà anche che se la mannaia Statale sovente si diverte a distruggere spazi aggregativi, i nostri ragazzi di contro faticano a costruirseli. Perché c’è un concetto di socialità ben diverso rispetto a quello delle comitive di cui parlavamo sopra. E non è una colpa, ma un qualcosa che ovviamente è andato perso e dovrebbe tornare a far parte delle vita di tutti noi. Senza paure e senza ipocondrie, che tanto vanno di moda presso la maggior parte delle famiglie contemporanee.
Qua siamo a una trentina di chilometri da Roma, eppure l’aria rarefatta della città non permea. La lentezza nei movimenti – almeno quelli domenicali – si percepisce ancora. Malgrado (e quanto scritto in avvio di articolo lo attesti) Velletri abbia sempre conservato una dimensione più cittadina che paesana. E sì, sarà pur vero che la ricchezza locale è storicamente dipesa dalla terra, è pur vero che qua si produce uno dei vini più famosi e buoni dell’area castellana/pontina – il Collo Storto, oggi etichettato come Velletri Rosso – ed è pur vero che la storia di comune libero e poco incline al forestiero ha fatto del veliterno un “popolo” non facile da fronteggiare. Ma il frutto della comunità è palpabile. E, mi viene da dire, la paura come sempre è che “qualcuno” se ne accorga e provi a metterci le sue mani prepotenti.
Quando la partita sta per iniziare, la tribuna dove si radunano gli ultras veliterni va riempiendosi, offrendo un bel colpo d’occhio. Il rullio dei tamburi fa da preludio all’inizio del tifo, che praticamente non conoscerà sosta fino al triplice fischio. Il lanciacori detta il ritmo, chiedendo più decibel laddove – inevitabilmente – a volte i cori perdono un po’ di intensità. Si salta, si battono le mani e ogni tanto ci si ferma per concedersi qualche manata davvero bella da un punto di vista fotografico. La sostanza c’è, non parliamo di nulla di improvvisato. E si vede. Davvero ho poco altro da dire sulla prova canora dei rossoneri. Un po’ perché per loro parlano i video pubblicati, un po’ perché è talmente di ottima fattura che non necessita di ulteriori commenti.
Aggiungo, inoltre che giocare sempre in casa di domenica alle 15 è un atto di grande coraggio e autodeterminazione. Un orario che in un modo o nell’altro può sempre veder sovrapposte le partite di Roma e Lazio (o della Serie A in generale) e che teoricamente potrebbe creare problemi insormontabili. Evidentemente si è lavorato e si sta lavorando talmente bene che la priorità è data alla VJS. E del resto non potrebbe essere altrimenti per un gruppo che questa società l’ha fatta rinascere e che tutt’oggi combatte e non molla di fronte a istituzioni e situazioni spesso più grandi di loro, dove serve caparbietà e amore per la causa.
In campo sono gli ospiti ad aprire le danze, spaventando la compagine casalinga che ha assoluto bisogno dei tre punti per rimanere in scia al Torrino primo della classe. Tuttavia la reazione veliterna è di quella devastanti e il primo tempo si chiude 3-1, con un paio di esultanze davvero belle: giocatori appesi alla rete del settore ultras e abbracci più che virtuali, a suggellare una grande unità d’intenti. A nulla serve, nella ripresa, il secondo gol ospite. Finisce 3-2 con la squadra che va a festeggiare con i propri sostenitori.
Come da tipico clima veliterno, di tanto in tanto il cielo si oscura facendo cadere in terra delle spruzzate di pioggia. Pegno da pagare quando ci si trova in una posizione geografica che in pochi chilometri stringe mare e montagna.
L’epilogo della giornata è arrivato anche per me, che mi intrattengo ancora qualche minuto a scattare foto prima di riporre l’attrezzatura e prepararmi a tornare a Roma. Mi affaccio dalla “finestra” dietro una delle due porte, da cui si vede buona parte del panorama che circonda Velletri. Nuvole, sole, pioggia e vento cingono questo sperone oggi e restituiscono una bella immagine selvaggia, anche se siamo nel bel mezzo dell’urbanizzazione. È il giusto finale di una domenica che – come in tante altre occasioni – si è rivelata pregna e mi ha dato modo di approfondire nozioni e conoscenze su un territorio che da trentasei anni mi è così vicino ma, evidentemente, così poco conosciuto.
Gli ultimi cori dei ragazzi intenti a togliere gli striscioni mi accompagnano. Mentre indosso giacca e scaldacollo e me ne vado. Mi viene in mente quel poeta, in cui nel fare ricerca prima di scrivere questo pezzo mi sono imbattuto spesso. Giovan Battista Iachini. Veliterno doc che sul finire del 1800 pubblicò una raccolta di poesie scritte in dialetto locale. Chiudo con una di esse, dal titolo ‘O Velletrano. Che magari non tutti potranno capire. Vi lascio il compito di tradurre ed entrare nei meandri dialettali della nostra magnifica, e infinitamente ricca, lingua nazionale:
So’ ‘n galantome e la famiglia mia
è tutta gente de reputazione:
gnisuno ha fatto mai ‘n ca… la spia,
e manco semo stati mmai ‘n priggione!
E ssi ppo’ m’honno fa’ ca’ boieria,
nu’ l’abbozzo, mannaggia San Simone!
Càvoci… sciaffi… cortellate… e via!
‘N so’ vezzo a ffa’ la parte da fregnone.
‘A sera, doppo d’èsse lavorato,
revaglio ‘n casa, e curo a lo starìo;
là bevo, gioco e dicio ca’ sacrato.
Dapó co’ ‘Ntogno lo compare mio,
doppo èsseme, pe’ Crista, ‘mbreacato,
me ne vaglio a dormì ‘n grazia de Ddio
Simone Meloni