Premessa doverosa sin dal principio: inutile omettere o cercare di provare a negarlo, senza i Balcani l’Europa sarebbe un continente monco, quasi vuoto da certi punti di vista. Controversi, difficili da comprendere fino in fondo per un forestiero, spesso e volentieri ancora troppo sotto scacco di credenze religiose o territoriali, con intensissimi rancori mai sopiti, ma allo stesso tempo infinitamente emozionanti, originali, rudi e straordinariamente appaganti.

Giungere a Sarajevo, nonostante la vicinanza all’Italia, è complicato sia via terra, che via aerea, considerato che non esistono voli diretti di nessun vettore a collegare la Capitale bosniaca con qualsivoglia città italiana. Servono quattro voli tra andata e ritorno, per questo non è (e forse mai sarà…) una meta mainstream che si può bissare con semplicità, come una Barcellona o Praga qualsiasi. Per questo, una volta che si riesce a recarcisi, è giusto non farsi sfuggire nulla, andando a scrutare ogni minimo particolare, succhiando per intero il midollo della sua autenticità più recondita. Se il tutto poi è condito da un match di una delle due compagini cittadine, allora si è proprio fatto centro.

Partendo dalla colorita e ottomana Baščaršija col tram 3, transitando tristemente davanti a troppe abitazioni ancora “mutilate dalla faida” come direbbe Enrico Ruggeri, sono giunto dinanzi allo stadio Grbavica in circa venti minuti, apprezzando da subito i tantissimi murales che circondano l’area, realizzati con sopraffina maestria dagli ultras dello “Željo”. Ritirato l’accredito velocemente, mi sono accomodato in tribuna, trovando un paio di bottigliette d’acqua e due banane in postazione; non proprio un pasto luculliano, ma questo passa il convento, quindi, inutile lamentarsi o rimuginarci sopra.

Notata nell’immediato, una forte somiglianza dell’impianto in questione (curiosamente tutto con la copertura, ad eccezione della curva di casa), col Paolo Mazza di Ferrara. Nessuna presenza ospite, nonostante i soli 150 km che separano Doboj da Sarajevo, ma onestamente non me la sono sentita di trarre conclusioni affrettate; può anche darsi che la longa mano degli abominevoli divieti di trasferta, ormai sempre più schifosamente espansa a macchia di leopardo in troppe nazioni, sia arrivata anche a queste latitudini.

Gli ultras locali alla spicciolata invece, si compattano gradualmente al centro del loro tempio, appendendo i propri drappi fra i quali spiccano ovviamente The Maniacs e Ratoborni. Appeso in basso un lungo striscione, che tradotto suona più o meno come: “È stato detto tutto e non c’è più niente da dire, bisogna rispettare la società e i tifosi”, e nella sostanza sembra un messaggio di monito, volto a ricompattare l’ambiente alle prese con un momento difficile nel suo cammino.

Costante, rabbiosa, senza tanti fronzoli e di notevole spessore, la performance degli ultras di casa, che sventolano incessantemente diversi bandieroni (di cui uno con la scritta “Ferrovieri” in italiano), acceso una moltitudine di torce, bomboni a profusione e qualche fumogeno, accompagnando i loro poderosi cori con l’ausilio di un paio di tamburi. Uno spettacolo superlativo, che oserei definire, quasi d’altri tempi.

Nel rettangolo verde, l’impasse di un noioso risultato a occhiali si sblocca a una manciata di minuti dal termine, tramite un colpo da biliardo del numero 9 biancoblù Haračić, che ha di fatto siglato il goal partita, regalando il successo ai suoi encomiabili sostenitori.

Tramontato il sole con l’arrivo della sera, le montagne che circondano la città, hanno fatto intendere subito che l’autunno da queste parti, è una sorta di inverno mascherato, quindi ho inevitabilmente allungato il passo per raggiungere la fermata del 3, che fortunatamente è passato nell’immediato. Immergendomi nuovamente tra i colori, i profumi, ma soprattutto i sapori della Baščaršija, dove mi sono concesso una cena come si deve, lungamente agognata tutto il pomeriggio, a base di ayran e ćevapčići in versione sarajevski.

Mi.Ma.