Il 15 giugno 1941 è un giorno storico per il calcio veneziano. Allo stadio Pier Luigi Penzo gli allora neroverdi allenati da Rebuffo sconfiggono la Roma con un gol di Loik nella finale di ritorno della Coppa Italia e grazie al 3-3 maturato all’andata si aggiudicano quello che fino ad oggi resta il più importante titolo calcistico approdato in Laguna (seguono una Coppa Italia di Serie C, due Campionati di Serie B, uno di Serie C e uno Scudetto di Serie D). Fa una certa suggestione pensare che ottant’anni fa, proprio nello stadio dove sto per mettere piede, si sia scritta una delle pagine più importanti del football locale e sembra quasi di immaginare quelle 15.000 anime che in quella giornata di fine primavera affollarono Sant’Elena per spingere la Serenissima all’ambito trionfo.

A quasi un secolo di distanza è cambiato tanto sia nell’ambito sportivo (cominciando dall’Unione del Venezia col vecchio Mestre nel 1987) che in quello demografico e sociale, con il progressivo e inesorabile spopolamento della città antica e la graduale trasformazione della stessa in museo a cielo aperto, in cui a farla da padrone sono quasi totalmente il turismo e le attività propedeutiche allo stesso. Eppure il flusso di tifosi attorno al Penzo è ancora quello, il campo da gioco è ancora là e lo scenario a circondarlo non è cambiato di un centimetro. Quasi a voler testimoniare una sorta di monumento al passato, un’àncora fissata alle radici che almeno da questo piccolo isolotto non vuol mollare gli ormeggi.

Al Penzo ci arrivi con una bella passeggiata dalla stazione di Santa Lucia. Evitando sapientemente gli esosi vaporetti e cercando di goderti il panorama. Sebbene la mole turistica non sia asfissiante come in altre occasioni, resta difficile sentire un accento autoctono e mi viene spontaneo comprendere il fastidio che possano provare i pochi veneziani ancora residenti nell’avvertire la propria città ormai venduta al Dio turismo. E se questo ha sicuramente portato del benessere in fatto economico, lo stesso non si può dire per quanto concerne la qualità della vita. Del resto la continua “emigrazione” sulla terraferma ne è la più fulgida delle testimonianze.

Senza inoltrarmi troppo in disamine che richiederebbero uno spazio a sé e forse anche un altro palcoscenico “scrittorio”, mi limito a dire che al netto della sua bellezza e di una passeggiata che ovviamente scorre sinuosa, avverto un po’ di disagio. Disagio perché in primis – in scala molto inferiore sia chiaro – so cosa voglia dire rimanere ostaggio delle bellezze del proprio luogo natale e so quanto vederlo depredato moralmente e umanamente sia avvilente. Ridotto a semplice parco divertimenti per personaggi spesso irrispettosi di ciò che hanno davanti. Una città che col suo istinto mercante ha costruito le proprie fortune, paradossalmente finita in pasto ai mercanti moderni.

L’acqua alta inghiotte le mie scarpe in Piazza San Marco, penetrando fin dentro ai calzini e restituendo a un paio di turisti francesi una mia immagine tragicomica. Li guardo sorridendo, conscio della mia stupida testardaggine nel non regalare otto Euro per delle galosce in nylon che poi non avrei più rimesso. “L’acqua si asciugherà” penso mentre continuo la mia passeggiata in riva al Canal Grande direzione stadio. Alcuni battelli con i tifosi romanisti mi “sfrecciano” davanti all’altezza della Biennale. La gente li guarda interdetta, in tanti non hanno neanche idea che tra poco più di mezz’ora comincerà un match valevole per la massima categoria calcistica italiana. In molti altri, sciarpa giallorossa al collo, si mischiano invece ai tifosi arancioneroverdi accelerando il passo.

Gli ottomila biglietti a disposizione sono stati venduti in toto, con i supporter capitolini che hanno acquistato anche tagliandi di altri settori. Del resto è una trasferta che manca da circa vent’anni e che in molti non hanno mai fatto, tanto è vero che appena usciti gli orari del girone d’andata, tanti si sono precipitati sul sito Trenitalia sino ad esaurire i biglietti del primo Frecciarossa in partenza dalla stazione Termini alle 6:30.

La genesi dei rapporti tra romanisti e veneziani è alquanto bizzarra, basti pensare che in occasione del primo match a curve contrapposte (1998/1999) regnava una relativa indifferenza/rispetto. Equilibrio rotto l’anno successivo e tramutato in reciproca antipatia, confermata anche quest’oggi dal primo coro di giornata con cui i veneti salutano “calorosamente” i dirimpettai. Come lasciato intuire in precedenza, il Penzo è stadio tutt’altro che semplice per la Roma (a dire il vero è storicamente un campo ostico per entrambe le compagini romane) che qua, in epoca recente, su tre sfide ha collezionato una netta sconfitta per 3-1 nel 1998/1999, una vittoria 1-3 l’anno successivo e un clamoroso e turbolento pareggio (con i padroni di casa già retrocessi) per 2-2 nel 2001/2002 che le costò buona parte di scudetto. Quest’oggi il trend sarà ampiamente confermato.

Personalmente sono transitato per queste gradinate in un paio di occasioni recentemente. Entrambe in Serie C: contro Parma e Padova. Due sfide sentite e movimentate. A distanza di pochi anni noto che la geografia della Sud è cambiata profondamente e non conoscendo a menadito le vicissitudini del tifo lagunare, mi limito ad osservare la miriade di insegne presenti, molto diverse anche rispetto all’ultimo anno di stadi a porte aperte. Dico la verità: a livello di materiale non rimango particolarmente impressionato da loro, non essendo un amante di bandiere e striscioni stampati, ma sul piano del tifo sfoderano una prestazione davvero buona con voce e colore costante per tutti i novanta minuti, complice anche l’ottima prestazione della loro squadra e una partita con tantissimi capovolgimenti di fronte. Ho apprezzato molto la scelta dei lanciacori di ritmare il tifo con canti “classici”, senza andare su filastrocche e poesie chilometriche che alla seconda strofa stroncano letteralmente il fiato. Pochi cori, facili ed eseguiti da tutti. Alla faccia dei novelli Mogol contemporanei! Una curiosità: presente la pezza dei ragazzi di Deventer, ultras olandesi al seguito del Go Ahead Eagles.

Sul fronte capitolino bel colpo d’occhio sia numerico che cromatico. Quando stanno per entrare in campo, viene esposto uno striscione di sostegno a squadra e società in virtù di alcuni errori arbitrali occorsi di recente all’undici giallorosso, poi ottima partenza con l’esecuzione dell’inno “Roma, Roma, Roma”. Come spesso accade, la massa non aiuta particolarmente a coordinare il tifo e così tra un coro e l’altro passano spesso diversi secondi. Tuttavia sempre molto belle – stilisticamente parlando – le manate che prendono tutto il settore e le esultanze ai gol che nel finale di primo tempo regalano agli uomini di Mourinho il provvisorio vantaggio per 1-2 (al vantaggio di Caldara rispondono Shomurodov e Abraham). Bello rivedere qualche fumogeno spuntare qua e là. Nella ripresa la Roma non riesce a chiuderla, sbagliando almeno due nitide palle gol e il Venezia ne approfitta pervenendo prima al pareggio con Aramu e poi portandosi nuovamente avanti con Okereke, che sfrutta l’ennesima amnesia difensiva di Mancini e solo soletto trafigge facilomente Rui Patricio, raccogliendo l’ovazione dei suoi ultras.

Al triplice fischio umore ovviamente contrapposto. Grande festa per un Venezia che se non avesse avuto qualche defaillance di troppo all’inizio, oggi avrebbe rischiato di passare un inverno al “calduccio”. La squadra di Zanetti sinora si è dimostrata abile e scafata al massimo campionato e potrà giocarsi fino all’ultimo la salvezza. Intanto l’ambiente si sta mobilitando per la prossima trasferta di Bologna che – come annunciano gli striscioni attorno allo stadio – verrà effettuata in treno.

Molto più complesso il discorso in casa Roma. E non può essere circoscritto ad oggi. La rosa non è certo tra le migliori ma non può essere una valida giustificazione per un inizio di campionato così in salita. Credo che tante motivazioni vadano ricercate almeno negli ultimi dieci anni di calcio giallorosso, in una concezione lavorativa spesso assente o votata a raggiungere solo ed esclusivamente l’obiettivo economico. Malgrado siano arrivati anche piazzamenti importanti e due semifinali europee, paradossalmente un qualcosa – a un certo punto della stagione – sembra sempre spegnersi nella mente dei calciatori romanisti. A questa società l’onere (ma anche l’onore) di lavorare sodo e in maniera lungimirante, non tanto per far diventare la Roma un top club europeo (del resto nessuno fra le Mura Aureliane ha mai preteso di tifare per un Real Madrid tricolore) ma per farlo ritornare dapprima a una normalità calcistica (esempio: si può arrivare a rimontare il Barcellona di Messi anche senza prendere sette gol dalla Fiorentina e sei dal Bodo del frattempo) e poi renderla costantemente competitiva. Era chiaro sin da subito che il solo nome di Mourinho non sarebbe bastato. Il portoghese non possiede certo la bacchetta magica e il suo ingaggio fa sì che obbligatoriamente la società operi – da qui in avanti -in modo serio e importante sul mercato.

Si dice che la pazienza abbia un limite e lo hanno sempre detto anche i tifosi romanisti. Contestando spesso pesantemente. Ma a loro davvero si può imputare poco, basterebbero i numeri per parlare. E non solo quelli da inizio campionato a ora che parlano di settori ospiti sempre sold out e Olimpico popolato minimo da 40.000 persone per partite di seconda fascia. Parla la loro storia e un attaccamento viscerale ma soprattutto incondizionato. E quest’ultimo termine dev’essere ben impresso nella mente e nelle azioni di chiunque operi per il bene dell’AS Roma 1927. Perché è probabilmente il patrimonio più grande e indissolubile con cui entra a contatto.

Simone Meloni