Nonostante sia ormai al centro del dibattito quotidiano extracalcistico, si fa ancora fatica a capire quale sia esattamente il problema della discriminazione territoriale, se esista veramente questo problema e se chiudere le curve sia una soluzione a questo problema. Questo ha portato a giornate di dure sanzioni e ripensamenti, contestazioni che hanno dato in parte i loro frutti, editoriali dissennati che straparlano di quanto sono brutti gli insulti. Io credo che il problema non esista, o che al massimo esista solo in valutazioni morali che difficilmente sono in grado di descrivere la realtà. Per questo penso sia necessario partire, più che dal concetto in astratto, dall’effettivo uso che si fa della discriminazione territoriale nella giustizia sportiva.

La discriminazione territoriale secondo il Codice di Giustizia Sportiva e il giudice Tosel

La questione è sorta parallelamente all’applicazione delle nuove norme UEFA contro il razzismo, di cui la discriminazione territoriale è considerata una naturale estensione (anche in Scozia, ad esempio, all’inasprimento delle sanzioni contro il razzismo è corrisposto il tentativo della Federazione scozzese di inasprire le norme contro il fanatismo religioso, soprattutto tra tifosi di Celtics e Rangers). L’articolo del Codice di Giustizia Sportiva a cui la discriminazione territoriale fa riferimento è lo stesso che tratta la discriminazione razziale:

Costituisce comportamento discriminatorio, sanzionabile quale illecito disciplinare, ogni condotta che, direttamente o indirettamente, comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine territoriale o etnica, ovvero configuri propaganda ideologica vietata dalla legge o comunque inneggiante a comportamenti discriminatori. (art. 11, comma 1).

All’astrattezza e alla generalità, tale da non lasciare alcun tipo di discriminazione impunita, corrisponde al contrario un bel po’ di confusione nell’applicazione delle sanzioni. Leggere i comunicati ufficiali del Giudice Sportivo è un interessante esercizio filologico: nella prima sanzione contro i tifosi del Milan (4° giornata) si parla genericamente di “aver indirizzato ai sostenitori della squadra avversaria un coro insultante, espressivo di discriminazione per origine territoriale”, e così alla successiva (7° giornata), con qualche variante stilistica: “aver intonato un insultante coro espressivo di discriminazione territoriale nei confronti dei sostenitori di altra società”. In un crescendo di odio territoriale, nelle successive giornate (8° e 9°) viene documentato minuziosamente ogni coro, indicato il minuto di esecuzione e ciò che viene detto. Tutti i cori finora sanzionati erano rivolti ai tifosi del Napoli.

Non mancano delle eccezioni, che naturalmente possiamo derivare solo dai comunicati: ad esempio, il Giudice non punisce espressamente il coro “romani bastardi” intonato dai tifosi del Napoli all’8° giornata, né il coro “noi non siamo napoletani” intonato dai tifosi dell’Udinese nella stessa giornata, derubricandoli entrambi a “beceri insulti”. Essendo state ampiamente documentate dai media, tra le eccezioni aggiungiamo anche la mancata segnalazione da parte del Giudice Sportivo (o dei suoi collaboratori) della meta-discriminazione fatta dai tifosi dell’Inter in occasione della nona giornata (in cui una parte della curva, a scopo dimostrativo, ha intonato cori contro i napoletani); oltre a rilevare l’assenza di qualsivoglia menzione dell’auto-discriminazione rivolta dai tifosi del Napoli contro i tifosi del Napoli, di cui il Giudice ha evidentemente inteso la goliardia. Arguto, questo Tosel: ma forse doveva ragionarci un po’ di più.

Ma quindi, che cos’è la discriminazione territoriale?

È difficile delineare la discriminazione territoriale basandosi sul codice e sui comunicati ufficiali: e questo dovrebbe già dirci molto sulla legittimità delle sanzioni. Finora il problema è rimasto strettamente connesso, almeno nelle sue manifestazioni, con la discriminazione dei tifosi del Napoli, mentre non ci sono state sanzioni per la denigrazione di altre tifoserie. “Romani bastardi”, ad esempio, è definito “becero insulto”: sì, ok, ma sempre su base territoriale, è una proprietà denigratoria attribuita ai romani in quanto romani, e quindi da sanzionare, a rigor di logica. “Un solo grido un solo allarme Milano in fiamme”? Non è mai stato riportato, e mi sembra alquanto improbabile non sia mai stato cantato essendo una grande hit degli stadi italiani, ma nel caso si potrebbe configurare come discriminazione territoriale? È diverso da “Vesuvio lavali col fuoco”? E nel caso, perché? Per ragioni storiche? Per inattuabilità? Perché nel coro contro Milano non vi è alcuna azione del predicato ma si affida a una rara proprietà autocombustiva ambrosiana?

Le domande, purtroppo, non finiscono qua, trovandoci a ridosso del limite che intercorre tra “insulto” e “insulto su base territoriale”. Gli juventini che ricordano Superga? È un insulto valido unicamente per i torinesi in quanto tifosi. E i romanisti che insultano i laziali? Non è naturalmente discriminazione territoriale, certo, “Lazio fogna di questa città” ha la stessa efficacia pragmatica di “Napoli colera”, e le stesse intenzioni.

A questo punto sorge il dubbio: non è che gli insulti “territoriali” fanno parte del più vasto insieme degli insulti e ne condividono le motivazioni? Ecco, sarebbe molto più semplice punire tutti gli insulti. Quello che mi preme far notare è che la “discriminazione territoriale” non è il movente né la ragione di un insulto a un napoletano: fa parte della retorica da stadio con cui una tifoseria, in quanto parte della rappresentazione dell’evento sportivo, conduce, parallelamente alle squadre, una competizione sugli spalti. È naturalmente differente insultare la Giulietta veronese dall’augurare l’eruzione del Vesuvio: però fanno parte della stessa tipologia di insulti, la differenza è, appunto, retorica. Allora, cosa va a giudicare il Giudice Sportivo? Il buon gusto? Lo stile? La tecnica umoristica? Per la terzina dantesca “Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi / d’incenerarti sì che più non duri / poi che ‘n mal fare il seme tuo avanzi?” va chiusa per una giornata la bolgia dei ladri?

A differenza del razzismo, nel caso della discriminazione territoriale siamo di fronte in maniera evidente a un perpetuarsi del campanilismo italiano (come ci ricordano giustamente i fiorentini, che di campanilismo se ne intendono), le cui radici piantano in secoli e secoli di storia e cultura: dai detti popolari (“Meglio un morto in casa che un pisano all’uscio”) alle invettive dantesche (anche se il buon Dante ce l’aveva un po’ con tutti). È indubbio che il campanilismo, al giorno d’oggi, abbia sbocco principalmente negli stadi: giudicarlo come retrogrado, e punirlo per questo, ci fa ricadere nella solita stigmatizzazione, pressapochista,che non tiene minimamente conto di chi fa parte di quella sottocultura e di ciò che giudica rilevante.

Infatti, la definizione e la distinzione tra un “noi” e un “loro” è cruciale per tutte le tifoserie, soprattutto in un contesto in cui ogni potere, soprattutto quello economico, punta all’uniformazione e all’omogeneità, passando come un rullo compressore sopra le differenze (reali o rappresentate) tramite la censura linguistica. Non stiamo parlando di violenza, non stiamo parlando di discriminazione nella società: non stiamo parlando insomma di comportamenti in cui lo Stato ha il dovere di intervenire per salvaguardare l’una o l’altra parte. L’unica parte offesa (i tifosi del Napoli) invece che difendere sé stessa ha preferito difendere la propria cultura: una cultura in cui l’offesa all’avversario è giudicata rilevante all’interno dell’evento sportivo. Ad altre culture, alla cultura predominante, a quella nazionale o a quella europea, questo uso può piacere o no; possono giudicarlo conforme o giudicarlo primitivo: ma sono nel torto se lo censurano in nome del buon gusto o della valutazione morale poiché non si conforma al gusto generale.

Colpire a suon di sanzioni una sottocultura per comportamenti che rimangono all’interno di quella cultura, e che si riducono a quel contesto, è un’ingerenza cretina che non porta giovamento alla società. A meno che per giovamento non si intenda il confezionamento di un prodotto televisivo, le cui regole, rigidamente definite da un format, impongono lo smussamento di ogni spigolatura e non accettano alcuna diversità.

[Fonte: Fabio Poroli, Crampi Sportivi]