Cosa ci faccio ad Amburgo in pieno inverno? Una fuga d’amore, una sbronza finita male o semplicemente staccare la spina qualche giorno da Bologna? Forse tutte tre messe insieme, forse nessuna: fatto sta che mentre ci penso, in cerca di una risposta che non arriverà mai, mi trovo sul treno diretto verso la Germania.

Sui binari è bella lunga: tredici ore con scalo a Monaco, ma cosa vuoi che siano, per un lettore cronico? Poi nel tratto tedesco c’è pure un super wi-fi, e quindi via documentari sulla situazione in Ucraina: una voce mi dice “stai lontano dalle basi Nato”. Il fatto è che da quelle parti ce ne sono dappertutto. Vabbè.

Tra le altre cose ho la sfiga di arrivare in Germania nel weekend di pausa per le nazionali: non solo della Bundesliga, ma anche della loro serie B, dove giocano per la cronaca Amburgo e St. Pauli, che hanno fatto il derby giusto una settimana prima. Per fortuna però, gli dei del calcio mi danno una mano: fortuna vuole che esista un ulteriore squadra, tale Altona, che gioca in quarta serie. Non ci penso due volte: nonostante il freddo terribile, prendo la metro per recarmi verso lo stadio.

Mezz’oretta massimo, ed eccomi ad Altona: uno dei quartieri più liberal di Amburgo, che certo rivaleggia in materia con la vicina Berlino: c’è giusto il porto a marcare le differenze, ma per il resto le due città si assomigliano parecchio. Entrambe dal passato glorioso, entrambe distrutte dalle bombe, entrambe con storie di calcio da raccontare ai posteri. Non solo di derby dunque vive Amburgo: perché in Regionalliga, si trova una realtà veramente di borgata, a dimensione di quartiere; lo stadio è per metà coperto, una tribunetta sul campo, e per metà fatto di gradinate in vecchio stile. All’ingresso mi chiedono il 2Gpiù, che significa doppia vaccinazione più test fatto nelle ultime ventiquattr’ore (per la cronaca, gratis…): poi finalmente sono dentro. Una favola. Sembra di assistere a una partita di calcio minore inglese, e in effetti il clima è parecchio anglo-sassone.

Il contesto all’interno è fantastico: c’è un gruppo organizzato (Black Block), uno spirito goliardico e partecipativo, la fila ai chioschi per assicurarsi birra e currywurst, che da queste parti sono l’accoppiata vincente; una bandiera italiana bene in vista sul bar mi fa sentire per un momento a casa. Ma che dico: casa, per me, è qui. In un luogo dove si respira aria di calcio vero. Popolare, socializzante. Non fatto di turisti e selfie, ma di un migliaio di spettatori che sostengono a gran voce la propria squadra: ultima in classifica, e per di più in un clima da tè caldo e pantofole. Non c’è che dire: in tempi di mascherine e distanziamento, si tratta di un sogno ad occhi aperti.

Tutto è perfetto, rustico, o più semplicemente… vero: si respira aria di famiglia, con un campo a dir poco martoriato dal clima e degli scatoloni di alluminio a fare da panchine, con i giocatori che si riparano dal freddo nelle coperte della nonna. Quando ha voglia il pubblico accenna anche cori, coinvolgendo anche i più piccoli (che talvolta, si mettono a lanciare i canti). Sul campo i locali portano a casa un punto prezioso, per di più contro una squadra ben più quotata, che nel finale sbaglia un rigore proprio sotto il pubblico di casa: il portiere diventa l’eroe di giornata, la gente è in delirio. Hanno pareggiato 0-0, sono ultimi in classifica, fa un freddo cane, ma… chissenefrega. Si sono divertiti, hanno vissuto una giornata di calcio. Quello vero.

Torno a Bologna con una certezza: il calcio può sopravvivere solo in questo modo. Coinvolgendo, con prezzi popolari (dieci euro il biglietto) e ricreando quell’atmosfera che permetta ai giovani di identificarsi, farli sentire parte di qualcosa. Ci sarà voglia, nel mondo post-Covid, di aggregazione. Il mio viaggio parte dunque da qua: da Amburgo, per tutta Europa. Per sottrarre il calcio ad un destino già scritto, per farlo tornare un qualcosa di vero. Tangibile. Semplicemente: reale.

Stefano Brunetti